IMAGOECONOMICA
Illusi, testardi, fanatici. Usate la definizione che volete, ma mai come questo 7 ottobre c’è bisogno di rivendicare un disperato desiderio di pace. La storia insegna che proprio nelle situazioni più complicate i processi per mettere a tacere le armi possono farsi strada. Ad un’unica condizione però: che ci sia una volontà politica chiara, scevra da pregiudizi e ideologie.
Resettiamo il sistema e ripartiamo, dunque. È necessario un repentino cambio di passo abbandonando gli approcci utilizzati finora. In primo luogo, è imprescindibile che la comunità internazionale spinga per un cessate il fuoco immediato, garantendo l’accesso agli aiuti umanitari e tutelando i civili, i primi a pagare col proprio sangue il prezzo di questa atroce guerra. Ma a lungo termine, nessuna pace potrà essere mai raggiunta senza affrontare le questioni centrali del conflitto: la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, il diritto al ritorno dei profughi e la fine dell’occupazione dei territori.
Parallelamente, Israele ha bisogno di sicurezza e garanzie contro le minacce di Hamas. Questo va garantito, come va garantita la sopravvivenza stessa di Gaza in un processo di sviluppo economico e politico che porti benefici tangibili alla popolazione, togliendo così spazio alla radicalizzazione dei gruppi armati.
In questo contesto, il ruolo dei paesi dell’area mediorientale – Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Libano e Iran – diventa cruciale per favorire un nuovo quadro negoziale. Così come le posizioni di Stati Uniti e Cina, due super potenze concentrate più a tutelare i propri interessi piuttosto che difendere quelli globali. E poi c’è l’Europa: qualcuno l’ha vista o sentita? Bruxelles dovrebbe giocare un ruolo cruciale e più attivo, spingendo per un ritorno al dialogo e alla creazione di condizioni che possano portare ad una riduzione della violenza e alla riapertura di canali diplomatici.
Ma a parte tutte le analisi geopolitiche del caso, la vera domanda oggi è una sola, anzi due. Quanti sono veramente interessati ad abbassare le armi e a far lavorare il cervello? E la pace è davvero un obiettivo credibile o resta uno storytelling buono solo per lavarsi la coscienza? Negli ultimi anni il concetto di pace sembra essere diventato sempre più sfuggente. Un ideale che appare lontano in un mondo dove gli interessi economici, geopolitici e strategici prevalgono sull’umanità e sul dialogo.
Perché la pace non è solo l’assenza di guerra. Ha bisogno di giustizia sociale, equità economica, rispetto per i diritti umani e un impegno concreto a risolvere le controversie in modo non violento. Per costruire la pace dobbiamo prima comprendere che i conflitti non nascono dal nulla, ma spesso da anni, se non secoli, di ingiustizie, sfruttamento e divisioni irrisolte. La vera sfida non è solo fermare le bombe in corso, ma anche prevenire quelle future, attraverso l’educazione e la cooperazione internazionale.
La pace è un cammino lungo, tortuoso e spesso incerto, ma non impossibile. Il ruolo della società civile resta fondamentale. Organizzazioni non governative, sindacati, attivisti, semplici cittadini hanno il potere di influenzare le decisioni politiche e di promuovere un dialogo basato sul rispetto reciproco.
Questo 7 ottobre prendiamolo come un promemoria. A ricordarci che il cammino verso la pace ha bisogno di coraggio, pazienza e determinazione. Richiede la capacità di vedere al di là dei propri occhi. Invita ciascuno di noi a riflettere su quale contributo possiamo dare, individualmente e collettivamente, per garantire a questo pazzo mondo un futuro migliore. La pace non arriva da sola: va cercata, costruita e difesa, giorno dopo giorno.