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Opinioni Singolare che Netanyahu, il cui orizzonte ideologico è la guerra, prometta libertà agli iraniani mentre in patria tiene i palestinesi in un regime di apartheid e senza il diritto ad uno Stato

I pericolosi «liberatori» del Medio Oriente

 

Beirut, gli effetti dell’attacco aereo israeliano a Dahiyeh di ieri foto di Hassan Ammar/Ap

Ogni tanto nel corso della storia salta fuori qualcuno che vuole cambiare il Medio Oriente e che dichiara di volere «liberare» i popoli della regione. Adesso, in attesa della replica israeliana alla pioggia di razzi di Teheran, sale in cattedra Benyamin Netanyahu, il cui governo ha battezzato «Operazione Nuovo Ordine» l’uccisione di Nasrallah, leader di Hezbollah, e l’attacco militare in corso Libano. Il premier israeliano, davvero con sorprendente improntitudine si è spinto anche più in là.

Rivolgendosi alla popolazione iraniana (definita «popolo persiano») ha affermato: «Quando l’Iran sarà finalmente libero, e quel momento arriverà molto prima di quanto la gente pensi, tutto sarà diverso. I nostri due antichi popoli, il popolo ebraico e il popolo persiano, saranno finalmente in pace». Anche se ora i due Paesi si avvicinano pericolosamente allo scontro diretto che rischia di travolgere tutta l’area in una guerra con il coinvolgimento anche delle grandi potenze.

È assai singolare che Netanyahu, il cui orizzonte mentale e ideologico sono la violenza e la guerra, prometta di liberare gli iraniani visto che in patria ha deciso di tenere i palestinesi in un regime di apartheid e non si pone neppure il problema di uno stato palestinese. Ma in anni recenti, senza risalire alle spartizioni anglo-francesi, ce ne sono stati altri che si sono proposti come «liberatori».

I loro clamorosi insuccessi sono diventati l’emblema delle tragedie mediorientali. Sapere come sono nate queste idee e come si sono sviluppate ci dice come potrebbe finire domani. In decenni recenti chi pensò di rifare il Medio Oriente fu Bernard Lewis, uno dei massimi esperti mondiali, professore emerito all’università di Princeton. Nel 1978 Lewis elaborò un documento in cui si raccomandava di appoggiare i movimenti dei radicali islamici dei Fratelli Musulmani e di Khomeini con l’intento di promuovere la balcanizzazione del Medio Oriente lungo linee tribali e religiose. Lewis sosteneva che l’Occidente dovesse incoraggiare gruppi indipendentisti come i curdi, gli armeni, i maroniti libanesi, i copti etiopi, i turchi dell’Azerbaijan. Il disordine sarebbe sfociato in quello che il professore definì un «arco della crisi» per poi diffondersi anche nelle repubbliche musulmane dell’Unione sovietica.

L’espressione «arco della crisi» ebbe un enorme successo. L’Iran, sfortunatamente per l’amministrazione Carter, si rivelò più un problema per gli Usa che per Mosca, ma l’invasione dell’Armata Rossa in Afghanistan nel 1979 diede un impulso straordinario alla teoria di Lewis: gli Stati Uniti, con l’appoggio militare del Pakistan e quello finanziario dell’Arabia saudita, armarono migliaia di mujaheddin che inchiodarono i russi in una «guerra santa» fino al loro ritiro nel 1989. Quando gli americani dopo l’11 settembre invadono l’Afghanistan pensano di fare meglio dei sovietici ma finisce come sappiamo: con la riconsegna del Paese ai talebani e una vergognosa fuga da Kabul.

Ma il «capolavoro» di Lewis e del corteo dei «liberatori» è l’Iraq. Nel 2002 convince il presidente Bush junior e il suo vice Cheney ad attaccare Saddam Hussein e scrive: «Se avremo successo ad abbattere il regime iracheno e iraniano vedremo a Baghdad e Teheran scene di giubilo ancora maggiori di quelle seguite alla liberazione di Kabul». Ma né a Baghdad né a Kabul ci sono mi state le gioiose manifestazioni immaginate dal professore.

L’Iraq, occupato nel 2003 con la menzogna di scovare armi di distruzione di massa mai trovate, fu inghiottito da nuove guerre, dal terrorismo di Al Qaeda e poi fatto a pezzi dal Califfato: centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, così come avvenne in Siria. Peccato che ci siamo dimenticati che a fermare l’Isis a 40 chilometri da Baghdad, quando l’esercito iracheno si era ormai completamente sbandato, non furono gli Usa ma i Pasdaran iraniani e gli Hezbollah guidati dal generale Soleimani, poi ucciso dagli americani nel gennaio 2021.

Dopo gli attentati dell’11 settembre, il Pentagono aveva delineato dei piani per attaccare dopo l’Afghanistan sette Paesi mediorientali in 5 anni: Sudan, Somalia, Libia, Libano, Siria, Iraq e Iran. Come è andata a finire lo sappiamo: un disastro con cui abbiamo ancora a che fare. Per non parlare delle «primavere arabe» del 2011 la cui onda venne cavalcata dall’amministrazione Obama: dovevano portare la democrazia e sono finite in regimi autocratici.

I teorici del «nuovo ordine» mediorientale, apparentemente sofisticati e dalle dotte analisi, sono a dir poco sconfortanti alla prova dei fatti: il problema è che discettano sui media di argomenti che non conoscono e di luoghi che non hanno mai visto, formando con i loro interventi l’opinione pubblica occidentale. Più che alle teorie sui «complotti», anche queste elaborate di solito “dopo” gli eventi, bisogna fare attenzione proprio alla disinformazione quotidiana.

Oggi siamo tornati a parlare di nuovo ordine in Libano dove Israele aveva già fallito nel 2006. Anche allora il segretario di Stato americano Condoleezza Rice accolse la guerra come l’avvio della nascita di «un nuovo Medio Oriente». In realtà, ogni volta, dai «liberatori» abbiamo ereditato un caos peggiore di quelli precedenti. Ma è questo che si vuole: la destabilizzazione perenne non la pace