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Il rovescio della medaglia. . Un contro-diario olimpico. Cosa succede a Parigi mentre il mondo ha gli occhi puntati sui Giochi

Sfruttamento, il rovescio della medaglia

Oggi, giorno di conclusione delle Olimpiadi parigine, è d’uopo ricordare qualche nome. Amara Dioumassy, operaio di 51 anni, padre di 12 figli, è morto a giugno 2023 investito da un camion sul cantiere di Austerlitz, dove si è costruita un’enorme piscina per contenere le fogne della capitale e permettere lo svolgimento delle gare di nuoto nella Senna.

Maxime Wagner, lui, è morto a 37 anni nel 2020, sul cantiere della metropolitana 14, che è stata estesa fino al villaggio olimpico, al nuovo «polo Saint-Denis Pleyel». Per costruire questo nuovo polo modale sono morti nel 2022 Abdoulaye Soumahoro, 41 anni, e Joao Batista Miranda, 61 anni. Jérémy Wasson è morto nel 2020 a 21 anni, sul prolungamento dell’interurbana E. Era in stage.
Franck Michel, camionista di 58 anni, è morto l’8 marzo 2023 sul cantiere della nuova linea metro 16. Seydou Fofana, operaio di 21 anni, è morto qualche giorno dopo, stritolato da un blocco di cemento sul cantiere della linea 17. L’inaugurazione delle nuove linee 15, 16 e 17 era inizialmente prevista per le Olimpiadi. A parte il primo citato, si tratta dei cantieri del Grand Paris Express, il cui completamento era uno dei pezzi forti del dossier che Parigi ha presentato al Cio. Per quanto riguarda i cantieri olimpici «ufficiali», l’azienda titolare ha comunicato che vi sono stati 181 incidenti sul lavoro, dei quali 31 gravi.

Secondo la Cgt, i cantieri olimpici sono luoghi nei quali si è operato un «super sfruttamento dei lavoratori sans papiers». Un fenomeno per il quale «la responsabilità dello Stato è centrale, giacché quest’ultimo rifiuta di metterli in regola» si legge in uno studio pubblicato a dicembre. Sono molte le vicende legate alle Olimpiadi a essere occultate dal carrozzone mediatico che sorregge lo «spirito olimpico». Il 6 agosto, per esempio, mentre un pubblico selezionato si godeva il beach volley sotto la Tour Eiffel, a Bastille la polizia sgomberava manu militari un accampamento di centinaia di famiglie senza casa e minori non accompagnati, lasciati da mesi senza un tetto sulla testa. Una goccia nel mare delle decine di migliaia di «indesiderabili» sgomberati nel corso degli ultimi due anni per fare spazio alle Olimpiadi, che verranno ricordate come un successo dal pubblico e dalle migliaia di giornalisti che hanno potuto assistervi.

Ma per tutti gli altri, non resterà che il rovescio della medaglia: le morti sui cantieri messi sotto pressione dall’evento globale, gli sgomberi per fare spazio alle telecamere del mondo intero, il controllo dello spazio sociale, la repressione, lo sfruttamento.

 

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Un articolo della testata israeliana 972. Il motivo per cui gli attori internazionali si sono attivati è lo stesso per cui la guerra sta entrando nella fase più pericolosa: alcune vite, e alcuni interessi, contano più di altri

Non esiste una pace senza i palestinesi Teheran, una donna passa davanti a un manifesto governativo - Vahid Salem/Ap

Il duplice assassinio del comandante di Hezbollah, Fuad Shukr, a Beirut, e del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, sono stati atti di follia strategica o di deliberata piromania. Mentre Israele ha rivendicato la propria responsabilità per il primo e mantenuto un certo mistero sul secondo, non vi è alcun dubbio che abbia orchestrato entrambi – e persino alcuni dei suoi alleati credono che, questa volta, gli israeliani abbiano esagerato.

I politici israeliani sono stati rapidi a cogliere il pretesto per un attacco di alto livello contro Hezbollah – un attacco missilistico dal Libano che ha ucciso 12 bambini e giovani drusi siriani nelle alture del Golan occupate, per il quale Hezbollah ha negato il proprio coinvolgimento – nonostante i residenti locali protestassero vigorosamente contro gli appelli alla rappresaglia. Shukr e Haniyeh erano certamente membri chiave dei loro rispettivi gruppi, ma Israele sa bene che entrambe le organizzazioni hanno meccanismi interni e piani di emergenza per sostituirli; dopotutto, questi non sono certo i primi omicidi che i due movimenti hanno subito.

Fondamentale è che, come hanno dichiarato Hassan Nasrallah di Hezbollah e l’Ayatollah Ali Khamenei dell’Iran, l’uccisione di due figure di spicco in capitali straniere, eseguita nel giro di poche ore, è stato un messaggio inequivocabile che ha infranto le cosiddette “linee rosse” stabilite tra le parti in lotta negli ultimi 10 mesi. Ora, il mondo trattiene il fiato in attesa di una ritorsione a un gioco di potere non necessario, avvicinandoci sempre più a una conflagrazione come non ne abbiamo viste da decenni.

Gli effetti volatili dell’arroganza militare di Israele sono stati chiari fin dai primissimi giorni dell’“Operazione Spade di Ferro”, la brutale campagna lanciata sulla Striscia di Gaza dopo il mortale attacco del 7 ottobre di Hamas. Ma la politica internazionale ha sempre dato più peso all’uccisione di leader simbolici che a quella di civili.
Infatti, sebbene il 7 ottobre abbia trascinato l’intero Medio Oriente in un vortice violento, ci è stato ripetutamente detto che la soglia di una “guerra regionale” non è stata ancora superata. Gli attori in lotta, insistono gli esperti, stanno ancora giocando un gioco rischioso ma calibrato per ristabilire la “deterrenza” reciproca, consentendo certi livelli di violenza che possono ancora essere letti come un tentativo di evitare il caos totale.

In molti modi, tuttavia, questo è un trucco discorsivo che sminuisce l’orribile verità sul campo: siamo già nel pieno di quella guerra regionale da mesi. La prova è nei corpi e nei detriti che si accumulano a Gaza e nel sud del Libano, e nell’attivazione delle alleanze guidate dall’Occidente e dall’ “Asse della Resistenza” su più fronti – dalle navi da guerra statunitensi nel Mediterraneo alle milizie Houthi nel Mar Rosso, dai raid aerei israeliani in Libano a un attacco missilistico dall’Iran.
Questo conflitto può diventare infinitamente peggiore. Tuttavia, il motivo per cui gli attori internazionali si sono improvvisamente messi in azione la scorsa settimana è lo stesso per cui la guerra sta entrando nella sua fase più pericolosa: che alcune vite, e alcuni interessi, contano più di altri.

Per i governi occidentali, il principale pericolo posto dagli assassinii di Shukr e Haniyeh non è il numero imprecisato di arabi o iraniani che potrebbero essere uccisi in un’escalation delle ostilità. Se non altro, gli ultimi 10 mesi hanno dimostrato che finché i palestinesi erano le principali vittime, una guerra prolungata era uno stato di cose tollerabile, sebbene deplorevole. Di conseguenza, le capitali occidentali, in primis Washington, hanno rifiutato di fare tutto il possibile per frenare i combattimenti, preferendo invece guadagnare tempo affinché Israele tentasse di portare avanti i suoi obiettivi dichiarati a Gaza e in Libano, nonostante fosse chiaro che gli israeliani avrebbero fallito.
Ora, tuttavia, i governi occidentali stanno entrando nel panico. Non temono solo ciò che una escalation potrebbe comportare per l’ordine globale, incluso alimentare il caos della sicurezza e interrompere le catene di approvvigionamento economico. C’è anche la prospettiva molto reale che una tale guerra possa comportare un enorme bilancio di vittime israeliane – e con essa, l’indebolimento senza precedenti dello stato di Israele.

Questo processo di decadimento o è probabilmente cominciato all’inizio del 2023, durante le battaglie interne del paese sulla riforma giudiziaria dell’estrema destra, ma è stato rapidamente accelerato dal 7 ottobre e dall’operazione a Gaza. I pieni danni dell’attuale intervento militare di Israele e la sua perdita di prestigio globale devono ancora emergere, ma un grave attacco di Hezbollah o dell’Iran probabilmente peggiorerà quel declino.

Anche se alcuni in Israele ammettono che l’esercito potrebbe aver esagerato, l’ego nazionale potrebbe costringerli a rispondere di nuovo; il ministro della Difesa Yoav Gallant sta già ordinando all’esercito di prepararsi per una “rapida transizione verso l’offensiva”. Il costante desiderio di regolare i conti e rivendicare una qualche forma di vittoria può prevalere su qualsiasi motivazione per deporre le armi.
Ci si sarebbe potuti aspettare che i leader israeliani riconoscessero l’avvitamento della spirale, con l’economia del paese in calo, l’esercito stanco e lo sfollamento della sua popolazione del nord e del sud. Ma questi leader sono troppo accecati dalle ambizioni ideologiche, dall’arroganza nazionalista e dalla paura per la propria sopravvivenza politica per considerare una via diversa dal militarismo e dalla retorica bellicista.

Non è solo Benjamin Netanyahu, il cui stesso gabinetto per la sicurezza ammette che il primo ministro sta direttamente sabotando un accordo con Hamas per il rilascio degli ostaggi. Da Gallant al Capo di Stato Maggiore delle Idf Herzi Halevi, gran parte della classe politica e militare ha un interesse in una qualche forma di prolungamento del conflitto. Tutti loro erano in carica il giorno in cui Israele ha subito il suo peggior fallimento nel campo della sicurezza da decenni, e tutti stanno combattendo per ripristinare le loro reputazioni, se non le proprie carriere; credono che un’emergenza senza fine possa aiutare a prolungare i loro giorni in carica.

Nel frattempo, i ministri di estrema destra del governo, guidati dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, stanno abbracciando la crisi per perseguire i loro obiettivi messianici. I loro elettori sul campo, principalmente coloni in Cisgiordania, stanno abbinando progressi legislativi per l’annessione formale a pogrom sostenuti dall’esercito contro le comunità palestinesi, consolidando la loro visione della Grande Israele e promuovendo piani per reinsediare Gaza.

Sono proprio questi funzionari che il presidente Joe Biden e altri leader occidentali hanno dotato di quasi totale impunità, nonostante ogni indicazione dei loro scopi ulteriori, dei loro crimini di guerra palesi e persino del crescente risentimento da parte dello stesso pubblico israeliano. Per 10 mesi, i governi più potenti del mondo hanno fatto finta di nulla e si sono dichiarati impotenti, fingendo di avere poca influenza su uno stato che è alla ricerca di più armi, fondi e sostegno diplomatico per la sua offensiva. E Biden, anche se sta rendendosi conto di quanto sia stato “ingannato” da Netanyahu, ha comunque mantenuto aperti i rubinetti degli Stati uniti, assicurando che le redini del potere restino nelle mani dei pazzi e dei piromani.

Ora, Washington e, tra l’altro, i firmatari arabi degli Accordi di Abramo, stanno raccogliendo i frutti amari di uno dei loro più grandi errori: abbracciare l’idea che bypassare i palestinesi avrebbe spianato la strada alla pace regionale. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha frantumato quella convinzione errata, ma l’amministrazione Biden non ha ancora imparato la lezione.
Infatti, gli Stati uniti hanno preferito lanciare attacchi aerei nello Yemen e in Iraq, minacciare i tribunali più alti del mondo e assecondare Netanyahu a Washington con ovazioni, piuttosto che costringere Israele a un cessate il fuoco a Gaza. Il fatto che milioni di manifestanti in tutto il mondo siano scesi per le strade delle città e nei campus per chiedere la fine della guerra fin dai suoi primi giorni, e che l’amministrazione Biden non lo abbia fatto, mostra quanta più lungimiranza abbiano i cittadini comuni rispetto ai decisori seduti alla Casa bianca.

Ma la catastrofe non è inevitabile. Nel vuoto diplomatico lasciato dagli Stati uniti, altri hanno fatto passi avanti negli ultimi mesi per cercare di arginare le conseguenze. Il Qatar sta ancora mediando i negoziati tra Hamas e Israele, nonostante quest’ultimo insulti regolarmente e mini gli sforzi dei suoi ospiti, assassinando ora uno dei principali negoziatori dell’altra parte.
La Cina, che tradizionalmente si teneva lontana da un profondo coinvolgimento nel conflitto, ha facilitato gli ultimi sforzi per la riconciliazione palestinese, quando 14 fazioni, tra cui Fatah e Hamas, hanno firmato una dichiarazione di unità a Pechino il mese scorso. Il nuovo governo britannico guidato dal Labour ha invertito i tagli del suo predecessore all’Unrwa, ritirato le sue obiezioni alle richieste di mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, e sembra essere vicino a sospendere alcune vendite di armi a Israele.

Un dato importante è che la Corte Internazionale di Giustizia abbia riconosciuto la plausibilità di un genocidio in corso a Gaza, ha dichiarato senza equivoci che l’occupazione israeliana è illegale, e ha richiesto azioni decise per porre fine a essa. E il Procuratore della Cpi Karim Khan sta aspettando il via libera per ordinare a Netanyahu e Gallant di comparire al processo all’Aia, insieme al capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar (che, se i rapporti sull’uccisione del comandante Mohammed Deif sono veri, è ora l’unico sospettato di Hamas ancora in vita).
Tutte queste sono misure minime rispetto alla massiccia influenza di Washington, o alle capacità di esercitare pressioni economiche e politiche più serie che altri governi detengono ancora. Ma sono indicatori della direzione infine intrapresa dalla politica internazionale. Gli Stati uniti non devono ritrovarsi a rincorrere questi cambiamenti: per andare avanti devono accettare la verità che il loro alleato più prezioso nella regione – e il potere stesso degli Stati uniti – è stata una fonte più di devastazione che di pace.

I palestinesi, per parte loro, sono in inferiorità numerica, privi di armi e superati dalle forze regionali e globali al di fuori del loro controllo, subendo una campagna genocida più distruttiva della Nakba del 1948. Le campagne di morte di Israele hanno fatto a pezzi ogni famiglia palestinese a Gaza, trasformato gran parte della Striscia in valli di macerie, e condannato 2 milioni di persone assediate, metà delle quali bambini, a una vita di traumi fisici e psicosociali.

Hamas sta sopravvivendo attraverso la sua resistenza armata e i suoi organi politici, ma ha subito pesanti colpi militari, perso gran parte della sua legittimità internazionale dopo i massacri del 7 ottobre, e sta lottando per mantenere il controllo e il sostegno nella stessa Gaza. L’Autorità Palestinese guidata da Fatah ha dimostrato ancora una volta la sua totale incapacità di aiutare il suo popolo, incollata al suo ruolo di forza di polizia dell’occupazione mentre scivola rapidamente nella bancarotta politica e finanziaria.
Tuttavia, i palestinesi hanno anche dimostrato di avere un potere sproporzionato di fronte a queste barriere colossali – e devono esercitarlo di conseguenza. Mentre la priorità principale è garantire la sopravvivenza dei palestinesi a Gaza contro missili, fame e malattie, è anche fondamentale affermare la loro azione politica in un momento in cui attori esterni – dall’esercito israeliano agli stati arabi e occidentali – stanno elaborando piani per dettare il loro destino.

Come tale, la dichiarazione di unità di Pechino è un’iniziativa cruciale, sebbene imperfetta, su cui mobilitarsi. Sebbene il presidente Mahmoud Abbas e i suoi lealisti probabilmente cercheranno di ostacolare gli sforzi di riconciliazione, molti membri di Fatah e Hamas stanno riconoscendo l’urgente necessità di cooperare per ristabilire la loro legittimità e preservare i controllo palestinese delle proprie questioni. La società civile palestinese dovrà esercitare pressioni sulle élite affinché traducano le loro dichiarazioni in azioni concrete, insistendo al contempo sull’apertura di vie per la partecipazione popolare e democratica.

Gli sforzi per stabilire un consiglio di ricostruzione di Gaza, guidato dai palestinesi e sostenuto da aiuti finanziari e tecnici dall’estero, dovrebbero essere elevati per garantire che la Striscia non diventi un campo di gioco per interferenze straniere, né da parte dell’Occidente né dell’Oriente. Sarà anche necessario elaborare un piano per sviluppare un apparato di sicurezza nazionale che integri le forze di sicurezza di Fatah, la polizia di Hamas e altri gruppi armati per avere la capacità e la credibilità per ristabilire l’ordine e la sicurezza tra la popolazione.
Le questioni di stato e i negoziati di pace non dovrebbero essere la priorità o la precondizione di questo programma nazionale: la sopravvivenza, la riabilitazione e la riorganizzazione devono avere la precedenza. E gli attori internazionali devono rispettarlo.

Ma tutto questo avrà poco significato se i palestinesi rimarranno prigionieri delle dinamiche geopolitiche che hanno ostacolato la loro causa per un secolo e portato la regione sull’orlo della calamità. Per quanto i poteri occidentali possano aggirare il problema, un cessate il fuoco a Gaza rimane la pietra angolare per la de-escalation regionale, e la liberazione palestinese il progetto per la speranza regionale.
La Palestina non è certamente il primo epicentro delle battaglie regionali del Medio Oriente, ma potrebbe essere la spaccatura finale che frantuma qualsiasi parvenza di ordine internazionale che non ha impedito una tale guerra. Ciò che accadrà dopo sarà definito da ciò che accadrà a Gaza, e i palestinesi devono impossessarsi degli strumenti per dargli forma.

 

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La lezione. Una, due, dieci volte, a Gaza City, a Nuseirat, a Rafah...lo schema-Netanyahu: ogni volta che si riapre il tavolo negoziale, un feroce bombardamento lo cristalizza. L’ultradestra ha un peso, ma a decidere è sempre il premier che rifugge l’accordo

 La scuola dell'Unrwa distrutta da un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Al Nuseirat - Mohammed Saber/Ansa

Lo schema si ripete da mesi, modello rintracciabile anche in offensive del passato, in Libano nel 2006, nella Cisgiordania della seconda Intifada: quando un cessate il fuoco sembra concretizzarsi, quando il dialogo procede seppur a tentoni, quando i mediatori internazionali a Parigi, al Cairo, a Doha limano dettagli e misurano al millimetro le concessioni all’una o all’altra parte, il governo israeliano sgancia la sua bomba.

Bombarda Gaza e bombarda il tavolo negoziale: due in uno, con una sola azione eclatante, mortifera e umiliante. Il triplo raid sulla scuola al-Tabin a Gaza City ne è l’ultimo esempio, poche ore dopo che lo stesso Netanyahu aveva annunciato l’invio del suo team negoziale al tavolo del 15 agosto, riaperto sull’onda di una rinnovata e disperata impellenza globale.

PARTIAMO dalla fine. Il 13 luglio nella «zona sicura» di Mawasi, lungo la costa sud, una serie di missili ha centrato le tende degli sfollati. Novanta uccisi, un bagno di sangue che Israele ha giustificato con un obiettivo: il capo militare di Hamas, Mohammed Deif. Colpirne uno. Dei 300 feriti molti moriranno nei giorni successivi.

Solo il giorno prima, il 12 luglio, il presidente Usa Joe Biden dava la tregua per «quasi fatta»: «Ci sono questioni complesse da affrontare, ma sia Israele che Hamas hanno concordato sull’impianto generale dell’intesa». Boom.

Il 4 luglio, Netanyahu aveva inviato la sua delegazione al Cairo: secondo indiscrezioni, Hamas sarebbe stato intenzionato a ritirare la sua richiesta principe, il cessate il fuoco permanente come condizione per il rilascio degli ostaggi israeliani. Indiscrezioni confermate il 6 giugno: il movimento islamico rinunciava alla fine definitiva della guerra. Poche ore dopo, i caccia israeliani bombardavano una scuola dell’Onu, la Al-Jaouni di Nuseirat, 16 uccisi.

Il mese prima, l’8 giugno, la strage più efferata: nell’operazione per liberare quattro ostaggi, soldati camuffati da sfollati penetrano nel campo rifugiati di Nuseirat, l’aviazione copre la fuga bombardando a tappeto. Gli uccisi saranno 276. Era trascorsa appena una settimana dalla mossa a sorpresa di Biden: un accordo in tre fasi, proposto secondo il presidente dallo stesso Israele. Netanyahu smentiva, ma gli Stati uniti tenevano il punto, sperando nello scacco matto con la copertura delle cancellerie globali che si erano accodate al piano fino a votarlo al Palazzo di Vetro.

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Liberi quattro ostaggi, ma l’esercito israeliano fa strage di palestinesi

Il mese di maggio si era aperto con Gaza in bilico: da una parte l’annunciata offensiva su Rafah, casa a 1,5 milioni di sfollati, dall’altra le speranze di un accordo. Il 4 maggio la delegazione di Hamas era al Cairo per discutere la proposta israeliana e aveva avanzato l’idea di un accordo in tre fasi di 40 giorni l’una (spiccavano la richiesta di liberazione di Marwan Barghouti, leader di Fatah, e il rilascio dei primi 33 ostaggi anche senza ritiro delle truppe israeliane). 48 ore dopo, il 6 maggio, Israele lanciava l’operazione di terra su Rafah, occupava il valico, lo dava alle fiamme e lo rendeva da allora inutilizzabile.

Il 31 marzo al Cairo riprendevano i negoziati, sullo sfondo di manifestazioni oceaniche in tutto il mondo e accampamenti nelle università che urlavano quanto la fine della carneficina fosse un obbligo morale. Il 2 aprile l’aviazione israeliana centrava il convoglio dell’ong statunitense World Central Kitchen: sette uccisi, sei stranieri e un palestinese. Le auto, ben riconoscibili, erano state prese di mira in due attacchi distinti, a distanza di un centinaio di metri.

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QUALCHE settimana prima, con il Ramadan alle porte, la rinnovata pressione globale si era arenata su due attacchi consecutivi contro i palestinesi accalcati sui camion di aiuti in transito. Stragi degli affamati che seguivano alla più terribile: il 28 febbraio 114 uccisi mentre cercavano di accaparrarsi sacchi di farina dal fuoco aperto dalle truppe di terra. Prima le pallottole, poi la calca e il sangue che macchiava i sacchi di iuta.

Quella che sarà poi definita «la strage della farina» giungeva dopo un mese intenso, la tregua a un passo. L’apice era stato raggiunto a Parigi il 23 febbraio: si annunciavano «progressi» da giorni, non scalfiti dalla strage di 74 palestinesi a Rafah in un’operazione per liberare due ostaggi.

Il 22 gennaio era stata Tel Aviv a offrire un piano di tregua: due mesi di pausa in cambio di tutti e 130 gli ostaggi in mano ad Hamas. Tempo tre giorni e Israele ha bombardato la sua stessa proposta. O meglio gli ha sparato addosso: fuoco alla rotonda Kuwaiti, nel nord isolato e alla fame, durante la distribuzione di cibo. 25 ammazzati. Il 2 gennaio l’uccisione del numero 2 dell’ufficio politico di Hamas, Saleh Aruri, cristallizzava il dialogo, ripreso appena dieci giorni prima.

NON SONO pochi quelli che leggono nei costanti deragliamenti il modo per compiacere l’ultradestra, fondamentale a tenere in piedi la coalizione di governo guidata dal Likud. Il ministro delle finanze Smotrich, due giorni fa, ha minacciato di far saltare l’esecutivo se Netanyahu fosse giunto a patti con Hamas. Se la pressione dell’ultradestra sovranista ha un peso nelle decisioni del premier (peso che le migliaia di israeliani in piazza da mesi per chiedere uno scambio di ostaggi con Hamas non hanno), è vero anche che il decisore ultimo è lui, Benyamin Netanyahu.

E Netanyahu vuole la guerra per salvare se stesso e portare a termine la missione di una vita, il conflitto aperto con Teheran e la distruzione del suo progetto nucleare. Lo dice il suo ministero della difesa, lo dicono da settimane i suoi negoziatori, costretti a presentare ai mediatori (Egitto, Qatar e Stati uniti) richieste sempre nuove e improvvisate: a far deragliare il dialogo è sempre Mr. Sicurezza

 

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Sotto scacco. In autunno rischiamo di trovare un’università meno finanziata, meno capace di far crescere le competenze dei giovani, più gerarchizzata

Un messaggio ai giovani: andatevene

 

Al rientro dalle vacanze studenti e professori troveranno le università cambiate. Un mese fa un decreto ha tagliato 513 milioni in corso d’anno, in particolare le spese non vincolate, sollevando le proteste della Conferenza dei rettori (Crui) e del Consiglio universitario nazionale (Cun).

Ieri il governo ha approvato un disegno di legge che cambia profondamente le figure previste per i giovani ricercatori e per i docenti esterni. A fare ricerca (e, spesso, lezione) potranno esserci neolaureati magistrali (assistenti di ricerca junior), neodottorati (assistenti di ricerca senior), contrattisti post-doc (che rimpiazzano gli attuali assegnisti di ricerca), mentre resta congelato il contratto di ricerca che offriva tutele e remunerazioni dignitose, a costi maggiori per gli atenei. Per di più, i corsi universitari potranno avere come docenti «professori aggiunti»: esperti esterni incaricati direttamente dai rettori.

Il disegno di legge lascia grande incertezza – forse in attesa di verificare le reazioni che verranno – sulle procedure di selezione, sui compensi e sulle regole. Altri interventi sono stati annunciati dalla ministra Anna Maria Bernini, che ha ricevuto nei mesi scorsi un’ampia delega per la riforma dell’università all’interno del disegno di legge «Semplificazione». Molte cose potranno ancora cambiare prima della riapertura.

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Decreto Omnibus: mance a pioggia, i nodi a settembre

Le misure prese finora dal governo si scontrano con tre nodi di fondo. Il primo è il sottofinanziamento strutturale dell’università e della ricerca in Italia. Il «Tavolo tecnico» insediato dal governo Draghi due anni fa chiedeva di stabilizzare la ricerca pubblica allo 0,75% del Pil, sfiorato nel 2023 grazie ai finanziamenti straordinari e temporanei del Pnrr. Da quest’anno, con il Pnrr ancora in piedi, stiamo scivolando indietro, in un quadro europeo in cui siamo tra i paesi con la più bassa percentuale di laureati sulla forza lavoro.

La seconda questione è la moltiplicazione del precariato. Le nuove figure coinvolgono già i neolaureati in forme di collaborazione poco precisate e trasparenti, ampliano le modalità con cui si si prolunga il limbo della ricerca instabile. Tutto ciò va a complicare una situazione già difficile: nel 2022 c’erano in Italia 12mila ricercatori a tempo determinato (A e B) e 19mila assegnisti: il 40% di tutto il personale di ricerca. Si è scelto di infittire il sottobosco del precariato, anziché offrire prospettive di crescita professionale ai giovani che tengono in piedi le attività universitarie, ed evitare la «fuga dei cervelli», visto che in un decennio 15mila giovani ricercatori italiani hanno trovato lavoro all’estero.

Per di più tra il 2022 e il 2027 c’è il pensionamento del 18% dei professori ordinari e associati: senza un piano adeguato di nuovi concorsi, c’è un rischio concreto di svuotamento degli atenei, sostituendo magari i docenti con «professori aggiunti» pescati dall’esterno.

La terza contraddizione riguarda l’enfasi sul merito e sulla valutazione della qualità della ricerca che ha segnato gli ultimi 15 anni delle politiche universitarie, a partire dall’Abilitazione scientifica nazionale, che ha orientato fortemente le traiettorie professionali dei giovani ricercatori. Tutto questo ora sembra dimenticato: le forme di reclutamento – sia dei nuovi precari della ricerca, sia dei «professori aggiunti» – prevedono di evitare in molti casi i concorsi. In cattedra potremmo avere sempre più persone scelte dai vertici degli atenei, ma che non sono passate attraverso alcuna verifica delle loro competenze.

In autunno rischiamo di trovare un’università meno finanziata, meno capace di far crescere le competenze dei giovani, più gerarchizzata tra grandi atenei, premiati dai fondi speciali da un lato, e, dall’altro, le università piccole e periferiche, colpite dai tagli e indebolite dal calo delle iscrizioni. È anche questa – a modo suo – una riforma delle istituzioni del paese che ci allontana dai maggiori paesi europei, aggrava i divari interni, riduce gli spazi di mobilità e partecipazione sociale

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Una serie di indizi indicano che il premier Netanyahu potrebbe essere tentato dall'escalation con l'Iran. Anche contro il volere degli Stati Uniti. Sarebbe un disastro per tutti

 

Si tratta di un’ipotesi remota. Non c’è però dubbio che, all’interno dello Stato ebraico, c’è chi vorrebbe farla finita con l’Iran (come d’altronde c’è chi vorrebbe farla finita coi palestinesi)

Manlio Graziano

 

Il giorno della morte del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, ho scritto su queste pagine che la sua uccisione non aveva alcun senso politico, come nessun senso politico avevano il pogrom del 7 ottobre e la guerra a Gaza che ne è seguita. 

Il seguito degli eventi da mercoledì scorso – giorno dell’assassinio di Haniyeh – parrebbe però aprire uno spiraglio a un’altra ipotesi: che Israele voglia provocare una guerra contro l’Iran, e trascinarvi gli Stati Uniti. Che un calcolo politico dunque esista; un calcolo che acuirebbe il disordine mondiale e aggraverebbe la situazione di tutti, compreso Israele. Ma almeno un calcolo.

Si tratta di un’ipotesi remota, anche perché si apparenterebbe a un delirio di onnipotenza che Israele non si può permettere, né materialmente né politicamente, e forse nemmeno militarmente. 

Non c’è però dubbio che, all’interno dello Stato ebraico, c’è chi vorrebbe farla finita con l’Iran (come d’altronde c’è chi vorrebbe farla finita coi palestinesi). 

   

 

Che fare dell’Iran

Nei circoli politici locali, tutti sanno che gli Stati Uniti non vogliono essere trascinati in un altro conflitto in Medio Oriente; tanto meno un conflitto con l’Iran. 

A questo proposito, è opportuno ricordare che, nel 2001, Henry Kissinger si era speso a favore di una riconciliazione con Teheran, invocando ragioni geopolitiche, cioè “l’importanza dell’insieme di geografia, risorse e talenti della popolazione iraniana”. 

“Ci sono pochi paesi al mondo – scriveva l’ex-segretario alla Difesa – con cui gli Stati Uniti hanno meno ragioni per essere in disaccordo o interessi più compatibili dell’Iran”; e queste compatibilità, aggiungeva, non dipendono da chi è al potere a Teheran, ma “riflettono realtà politiche e strategiche che continuano ancora oggi”. E concludeva: “Non c’è alcuna motivazione geopolitica americana all’ostilità tra l’Iran e gli Stati Uniti [e] un governo americano prudente non ha bisogno di istruzioni sull’opportunità di migliorare le relazioni con l’Iran”.

A questa visione delle cose si era ispirata l’amministrazione di George W. Bush quando aprì le trattative sul nucleare con l’Iran di Mahmud Ahmadinejad, e poi l’amministrazione di Barack Obama, quando le finalizzò nell’accordo del luglio 2015. 

È possibile che, se dovesse davvero esistere una volontà israeliana di farla finita con l’Iran, essa sarebbe nata proprio a quel momento. ...

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IL CRACK. Intervista a Andrea Fumagalli: "Alla base della crisi c'è la politica monetaria della Federal Reserve americana che tiene alto il costo del denaro, seguendo una logica capitalista a difesa del dollaro. Il suo orientamento danneggia i salari e contrasta la conflittualità sociale. I vincitori delle politiche anti-inflazione sono le grandi imprese, chi ha perso sono i lavoratori. In Italia lo scenario peggiore, salari al palo"

Fumagalli: «Crollo in borsa, mercati in tilt: banche centrali responsabili» Il crollo delle borse sugli schermi dei televisori a Wall Street - Ap

Andrea Fumagalli, economista all’università di Pavia, un crollo delle borse simile a quello visto tra venerdì scorso e ieri non lo si vedeva dal «Lunedì nero» del 1987 o dai tempi della pandemia. Quali sono i motivi?
Quando c’è un calo abbastanza forte degli indici azionari che perdura per giorni le cause non sono mai univoche. Può essere dovuto ai forti investimenti nelle Big Tech e nell’intelligenza artificiale che hanno ridotto i profitti e i dividendi e richiedono tempi abbastanza lunghi per vedere i risultati. Il grado di incertezza è molto elevato, soprattutto se vi sono previsioni di calo della crescita dell’economia americana. Crescono i segnali di guerra in Medioriente, il prezzo del petrolio sta calando. Ma credo che il problema principale stia nella politica della Federal Reserve americana di tenere alti i tassi di interesse, seguita a ruota dalla Bce e dalle altre banche centrali.

 Andrea Fumagalli (Università di Pavia)

Andrea Fumagalli (Università di Pavia)

Una politica giustificata dall’alta inflazione. Ora che si è abbassata perché la Fed non taglia i tassi di interesse?
Innanzitutto perché il reale obiettivo della Fed non è l’inflazione ma continuare a garantire una ciambella di salvataggio al dollaro per mantenere l’egemonia economica Usa. La tenuta del dollaro consente agli Usa di finanziare un debito interno che ha raggiunto livelli mai visti prima: il 122,3% del Prodotto interno lordo e un debito estero strutturale. Se il dollaro perde di appeal l’economia Usa corre rischi seri. I due debiti sono una spada di Damocle. Fintanto che i mercati finanziari sono egemonizzati dal dollaro, le bolle che producono possono essere sotto controllo, anche se ci sono segnali di segno contrario. I paesi del Sud Globale organizzati nei Brics+, dopo la riunione della scorsa estate a Johannesburg, stanno premendo per una governance mondiale multipolare, un rischio che gli Usa non si possono al momento permettere.

Il presidente della Fed Powell sta aspettando che il mercato del lavoro americano peggiori per tagliare i tassi. Nell’attesa che aumenti la disoccupazione, la banca centrale americana (e così quella europea) fa pagare di più i mutui ai lavoratori. Non è paradossale questa idea? Come la spiega?
La spiego con il fatto che la politica delle banche centrali è una politica anti-salariale e contro il lavoro che ha favorito l’accumulo di grandi profitti, sta diminuendo la domanda, contrasta l’aumento dei salari e la conflittualità sociale, Che nel periodo post-covid era ripresa, almeno negli Stati Uniti. Penso alle vertenze nel settore automobilistico, a Hollywood, nei servizi, tra gli addetti alle pulizie. Ci sono stati grandi aumenti salariali in linea con l’inflazione.

Il ribasso delle borse, e il rallentamento del mercato del lavoro, potrebbero convincere la Fed a tagliare i tassi a settembre?
Potrebbe concedere un taglio dello 0,25% per aiutare i democratici. Nell’anno delle elezioni alla Casa Bianca di solito vengono fatte politiche espansive per consentire a chi ha governato di dire di averlo fatto bene. Del resto la segretaria al tesoro è l’ex governatrice della Fed Janet Yellen. La situazione però è incerta.

Perché?
La Fed non segue la logica del ciclo politico elettorale, ma una logica prettamente capitalistica a difesa del dollaro e spesso contrasta anche con gli interessi degli stessi mercati che sono molto nervosi. Alla lunga queste politiche non piacciono nemmeno ai governi. Soprattutto quelli con un debito alto come l’Italia che lo devono pagare con gli interessi.

Chi sono i vincitori e i vinti di questa politica contro l’inflazione?
Negli Stati Uniti i vincitori sono state le corporation delle piattaforme e gli speculatori finanziari che hanno fatto tantissimi soldi. Tra i lavoratori c’è stato un miglioramento della forza lavoro bianca più istruita e un peggioramento per la popolazione non bianca.

In Europa? In Italia?
Qui di certo ha perso tutto il lavoro. I vincitori sono stati il capitale e la rendita: le grandi banche, le grandi imprese. All’aumento dei prezzi non è seguito un aumento dei salari che mantenesse inalterato il potere di acquisto. Ci sono grandi differenze a livello nazionale. C’è stata una tenuta, parziale, in Spagna, Francia e in Germania. In Italia non è successo per nulla. Non a caso noi viviamo nella situazione peggiore, qualunque cosa dica Meloni che fa propaganda.

Il ritorno della volatilità in borsa, e le incertezze nell’economia globale, spingeranno a politiche ancora più prudenti, e a rafforzare le politiche di austerità da noi?
L’Europa ha fatto una scelta di economia politica ben chiara: sostegno all’offerta, e dunque ai profitti, non disturbare l’impresa che «crea ricchezza» – un altro mantra di Meloni e il ripristino delle politiche di controllo dei bilanci pubblici. All’orizzonte non si vedono grandi conflitti salariali. Il rischio è che queste politiche di austerità vadano a penalizzare i servizi sociali, cioè le forme di salario indiretto, ancora di più di quanto non sia già avvenuto in passato

 

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