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Medio oriente Il senso comune è inorridito e reattivo, ma gli anticorpi politici e culturali in grado di neutralizzare il feroce suprematismo ebraico si vanno sempre più indebolendo

Una coppia israeliana osserva gli edifici danneggiati in un villaggio nel Libano meridionale, vicino al confine tra Israele e Libano foto Leo Correa/Ap Una coppia israeliana osserva gli edifici danneggiati in un villaggio nel Libano meridionale, vicino al confine tra Israele e Libano – Leo Correa /Ap

Ora che il regime siriano di Assad è stato spazzato via con sorprendente rapidità, da milizie fondamentaliste intrecciate con la storia di Al Qaeda e dello stato islamico e con progetti imprevedibili, Israele spinge oltre il confine siriano la sua presenza militare.

Soddisfatto per la caduta di un alleato di Teheran, Netanyahu (che però non ha motivo di fidarsi dei nuovi vicini) coglie l’occasione per muovere ancora un passo verso la grande Israele ed allargare i confini di fatto dello stato ebraico.

Intanto con il venir meno del retroterra siriano e il moltiplicarsi degli «incidenti» appare sempre più chiaro che il cessate il fuoco in Libano non è affatto un primo piccolo passo verso la pace, ma una tregua, una pausa tattica per ridare fiato e slancio alla guerra. Se non addirittura un espediente per allargarla e permettere a Israele di aggredire e invadere l’entità nazionale libanese in quanto tale e nel suo insieme, non facendo più distinzioni tra Hezbollah e il resto dei libanesi, per poi spingersi, nel caso, verso la Siria.

Questa più che probabile evoluzione è del tutto coerente con il fatto che la guerra israeliana non può e non intende finire. Basterebbe ascoltare e prendere sul serio come merita l’estrema destra messianica e spietata che tiene in piedi il governo di Netanyahu, che del resto non ne è così ideologicamente distante, per constatare che l’obiettivo minimo è l’annessione di Gaza, della Cisgiordania e di un pezzo di Libano meridionale. Con relativa espulsione della popolazione araba e palestinese. Quello massimo un’espansione territoriale ancora maggiore e un potere di controllo incontrastato sull’intera regione.

Non desta dunque alcuno stupore il fatto che anche i più blandi e patetici inviti alla prudenza e alla moderazione da parte degli alleati di Tel Aviv siano rimasti sempre inascoltati e che l’appoggio occidentale venga sistematicamente piegato di fatto a questo disegno espansionistico. Il movimento dei coloni e le forze politiche che li rappresentano lo hanno esplicitato ripetutamente senza peraltro nascondere l’estrema violenza prima bellica, poi persecutoria, che sono disposti a dispiegare per conseguirlo.

IN ISRAELE gli anticorpi politici e culturali in grado di neutralizzare questo feroce suprematismo ebraico si vanno sempre più indebolendo. Secondo quel classico schema che a partire dall’emergenza conduce alla riduzione e infine alla sospensione della democrazia. Qualcosa di simile all’istituto della «dittatura», che nell’antica Roma veniva attivato temporaneamente nel momento in cui la Repubblica era ritenuta in pericolo. E che, protraendo più o meno artificiosamente l’eccezione in uno stato di guerra permanente, può anche consolidarsi in una nuova forma di governo.

Innumerevoli sono stati i cambi di regime e le guerre di conquista motivate dalla sicurezza della nazione. Non è forse con l’argomento di una minaccia di ostile accerchiamento occidentale della Russia che Putin ha motivato l’invasione dell’Ucraina e consolidato il suo potere autocratico?

E così la sicurezza di Israele si è trasformata, molto aldilà delle sue effettive esigenze, nella motivazione di una guerra permanente che non aspira a una pace in qualche modo condivisa ma all’annichilimento dell’avversario e a un equilibrio fondato essenzialmente se non solo sulla forza militare.

Guerra permanente che non può più concedersi il lusso della democrazia e men che meno la messa in discussione del comando. E, infatti, le crepe non tardano a mostrarsi: dall’allargarsi dello stato di polizia e della repressione, all’impunità giudiziaria del premier, dagli attacchi alla libertà di stampa alla sospensione di tutti i normali dispositivi di verifica democratica.

INTANTO A GAZA, all’escalation delle parole, che evocano l’apocalisse e tutti i gironi dell’inferno, rispondono l’inazione, l’impotenza e infine la rassegnazione piagnucolosa della comunità internazionale. Nessuno ormai se la sentirebbe di approvare o anche solo di mostrare comprensione per la mostruosa sproporzione della rappresaglia israeliana e la strategia di massacro attuata dall’Idf. Ma non è difficile ravvisare tutti i segni di una crescente assuefazione nella contabilità ritualmente indignata delle vittime indifese e, infine, un atteggiamento di sconsolata rinuncia. Nei media non sono molte le immagini che provengono da Gaza, ancor meno i filmati che abbiamo potuto vedere. Ma quelle che ci vengono mostrate assomigliano assai più alle immagini di un terremoto che a quelle di una guerra. Persone disperate che si aggirano sopra cumuli di macerie, carovane di fuggiaschi e carretti carchi di masserizie che si spostano tra due ali di palazzi interamente crollati, sacchi bianchi o grigi di cadaveri allineati nella polvere ai piedi degli infermieri, soccorritori che scavano tra le macerie. Spariscono invece, o compaiono solo raramente e in miniatura all’ombra di un carro armato, gli autori di questa distruzione. Che ci si mostra piuttosto come una catastrofe naturale o, per chi ci vuole credere, come una nemesi divina. Lo specifico, inconfondibile, feroce volto della guerra, della violenza esercitata con determinazione da esseri umani, che così nitidamente ci trasmettevano gli scatti e i filmati del Vietnam non varcano invece i confini assediati di Gaza.

Eppure è forse solo, fuori dalle letture storiche, su queste infinite tragedie quotidiane, sulla sofferenza subita e su chi la infligge nel momento stesso in cui questo accade, sulle singole vittime e sui singoli carnefici, sulla base di un’etica materiale della contingenza, di un senso comune inorridito e reattivo, che si può giudicare questa guerra, vederne e determinarne la finitezza, combatterne i fautori.

Del resto la traduzione dello scempio di Gaza nelle categorie del diritto da parte della Corte penale internazionale, con l’incriminazione di Netanyahu e Gallant, si è subito infranta contro il muro dei rapporti di forze e il gioco degli interessi sovranazionali. Diversi paesi, che pur aderiscono alla Cpi e si ritengono irreprensibili difensori dei diritti umani, si sono esibiti in grottesche contorsioni pur di disapplicare, nel caso di Israele, le norme sottoscritte, mostrando al tempo stesso di non volerle abiurare. Infine è stata ventilata l’ipotesi di offrire a Israele una via d’uscita, incaricandosi di indagare in proprio sui crimini che il suo esercito avrebbe commesso e su chi li avesse ordinati.

Come concedere alla mafia di procedere a un’indagine imparziale sui suoi interessi e i suoi delitti.