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Non solo kurdi Nuovi punti di equilibrio e nuovi accordi sembrano necessari. In caso contrario la rivoluzione confederale potrebbe essere schiacciata da un’invasione turca su larga scala

Una rivoluzione confederale da salvare Curdi siriani partecipano ai funerali delle persone uccise negli attacchi aerei turchi. Novembre 2022 – Ap

Nel corso della guerra si sono sviluppate in Siria due realtà diverse e opposte: l’insurrezione teocratica, promossa dalle formazioni islamiste che hanno schiacciato la gioventù democratica presente nelle prime rivolte, e la rivoluzione confederale giunta dal Rojava, che ha costruito istituzioni politiche, economiche e di genere di carattere radicalmente trasformativo. La rivoluzione confederale non va tuttavia confusa con i curdi, che sono soltanto una sua componente. La maggior parte dei combattenti delle Forze siriane democratiche (Sdf) è araba, così come gran parte del personale dell’Amministrazione autonoma del nord-est (Daa).

La Daa è attaccata dalla fazione teocratica che da anni ha imposto un “governo ad interim” animato dalla Fratellanza musulmana lungo il confine nord-occidentale, e sulle cui milizie la Turchia ha il diretto controllo. Con il collasso dello stato siriano le Sdf hanno allargato la loro presenza in ampi territori delle regioni di Tabqa, Raqqa e Deir el-Zor, ma si sono viste sottrarre da queste forze l’area di Sheeba e Manbij. Nel resto della Siria si sono posizionati, oltre a Tahrir al-Sham, forze arabe e druse provenienti da sud, la cui composizione politica è contraddittoria.

Le Sfd non hanno equipaggiamenti sufficienti per resistere a lungo alla Turchia. Per questa ragione avevano trovato nel tempo una deterrenza in accordi diplomatici con la Russia, le cui forze d’interposizione erano presenti nella parte occidentale della Daa ma si sono ritirate; e con gli Usa nella parte orientale, da dove potrebbero ritirarsi non appena Trump salirà al potere. Lo status quo su cui si reggeva (difficilmente) la Daa, colpita costantemente, dal 2019, da bombardamenti turchi, è quindi in gran parte superato. Nuovi punti di equilibrio e nuovi accordi sembrano necessari. In caso contrario la rivoluzione confederale potrebbe essere schiacciata da un’invasione turca su larga scala.

La Daa non può che cercare, come sta facendo, la carta del dialogo interno, a partire dalle differenze tra i nuovi attori politici. Tahrir al-Sham ha imposto i suoi pieni poteri a Damasco, escludendo tutte le altre forze dal nuovo Governo di transizione, che ripropone plasticamente la composizione del Governo di salvezza di Idlib. Non è un buon segno, ma significa anche che ha escluso gli esponenti del Governo ad interim, con cui i rapporti sono peggiorati durante la recente offensiva. Questo approccio unilaterale dovrebbe durare fino al 1 marzo, e potrebbe scontentare anche i movimenti arabi e drusi del sud. Il nuovo ministro dell’economia Basel Abdul Aziz ha annunciato riforme di libero mercato per ingraziarsi gli attori internazionali, ma al Julani sa che la maggior parte della popolazione siriana lo teme piuttosto che amarlo e spesso lo disprezza. Una deregulation economica sarà inoltre in continuità con le politiche che avevano esposto al malcontento il deposto regime nel 2011 ed è difficile che la base più povera dell’opposizione la apprezzerebbe.

Il comandante delle Sdf Mazlum Abdi e la comandante delle Ypj Rojhelat Afrin hanno annunciato negli scorsi giorni che la rivoluzione confederale è pronta a negoziare una soluzione pacifica con tutte le forze in campo, compresi il nuovo governo e la Turchia. Proprio la fragilità politica degli islamisti al potere, tuttavia, potrebbe indurli a reprimere la fazione attraverso cui potrebbe maggiormente incanalarsi il malcontento di parte dei siriani. Il Congresso democratico promosso dal movimento confederale esprime partiti, clan e personalità arabe che potrebbero formulare ingombranti proposte alternative per il paese nei prossimi mesi.

Secondo l’analista Amberin Zaman la compagine al potere ad Ankara, invece, potrebbe accettare accordi con le Sdf a patto che queste ultime annuncino pubblicamente la rescissione di ogni relazione con il Pkk, e se tutti i volontari delle Ypg in Siria provenienti dall’estero (anzitutto da Turchia, Iraq e Iran) lasciassero il paese. La Turchia vorrebbe inoltre che maggiore peso fosse dato tra ai partiti curdi siriani conservatori che oggi, pur di opporsi alla componente socialista, supportano il Governo ad interim. Sebbene non siano ben visti né in Rojava né nel resto della Siria, questi gruppi permetterebbero di riverniciare in senso pluralistico la cancellazione dell’esperienza politica per cui migliaia di giovani curde e curdi hanno perso la vita.

La figura di spicco della coalizione che sostiene il Governo ad interim per conto della Turchia, Hadi al-Bahra, ha proposto non a caso una transizione molto lunga prima arrivare a nuove elezioni: un anno e mezzo. Il tempo necessario per operare una repressione completa del movimento confederale, producendo nuove ondate di profughi e perfezionando l’ingegneria demografica che le sue milizie attuano dal 2018. La via è stretta. È importante comprenderlo per supportare l’unica rivoluzione reale emersa dalla guerra. Come non c’erano alternative alla scelta confederale di non difendere un esercito baathista privo ormai del supporto dei suoi stessi soldati, così non c’è alternativa ai tentativi di dialogo con le forze insorte il 27 novembre. È probabile che il governo Al-Bashiri continuerà a lasciare mano libera alla Turchia in Rojava, liquidando il problema confederale senza sporcarsi le mani. La strada per lavorare sulle contraddizioni di questo scenario, tuttavia, resta politica, non militare.