Il prossimo sabato 11 gennaio, presso la Sala San Carlo di Faenza, verrà presentato il libro "Cardinale Pio Laghi" curato dal vescovo Mario Toso.
Visto che sull'operato del cardinale, durante i suoi anni nell'Argentina della dittatura, continuano a permanere molte zone d'ombra, ho inviato una lettera aperta al settimanale diocesano Il Piccolo.
La condivido ora anche con le altre testate di informazione locale.
Grazie. RB
Posso provare a immaginare alcune delle motivazioni che hanno indotto il vescovo di Faenza Mario Toso a occuparsi del cardinale Pio Laghi nel libro di recente pubblicazione. Ma per ora lasciamole sullo sfondo, rimandando a un giudizio più circostanziato dopo una attenta lettura del volume.
A proposito del ruolo che l'allora nunzio vaticano ebbe durante gli anni della feroce dittatura in Argentina, io so che Pio Laghi si è sempre negato a un confronto pubblico per rispondere alle molte accuse che gli sono state rivolte. I più benevoli hanno scomodato la figura di Don Abbondio, per le sue debolezze e ambiguità, per i tanti silenzi che ha opposto a chi gli chiedeva una parola chiara. Un uomo fragile e inadatto a ricoprire quella alta funzione.
Ma atteniamoci ai fatti, ad alcuni fatti precisi.
Fin da quando (era il 1984) cominciarono a circolare le prime voci sulle sue responsabilità nell'aver coperto gli orrori della dittatura, il cardinale ha sempre sdegnosamente respinto le accuse affermando che lui “non sapeva quello che stava accadendo”. Ma come è possibile che l'ambasciatore del Vaticano non sapesse e non vedesse le violenze della dittatura con 30.000 desaparecidos, 15.000 fucilati, 9.000 prigionieri politici, un milione e mezzo di esiliati? Ma, se questo non bastasse, allarghiamo la visuale anche al mondo di cui Pio Laghi era un autorevole rappresentante.
Come in tutte le vicende lunghe e complesse, non c’è stata in Argentina una sola voce della Chiesa, ci fu chi appoggiò apertamente la giunta militare e chi invece ne denunciò la violenza e ne fu vittima. Come è possibile “non sapere e non vedere” quando furono uccisi o fatti scomparire anche centinaia di sacerdoti, suore e perfino il vescovo di La Rioja Enrique Angelelli, il 4 agosto 1976?
Angelelli (che Papa Francesco ha beatificato lo scorso anno insieme ad altri tre martiri argentini) era il simbolo di una Chiesa che all’epoca si era posta dalla parte dei lavoratori sfruttati in quelle terre, un vescovo dalla voce profetica che denunciava senza paura le ingiustizie e gli eccessi del regime. Loro vedevano, loro sapevano quello che stava accadendo.
Il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, durante l'omelia per la beatificazione, ha detto: “Di fronte a un regime che cercava di strumentalizzare la religione cristiana per i propri interessi, essi operarono perché il Vangelo diventasse fermento nella società di una umanità nuova fondata sulla giustizia, sulla solidarietà, l’uguaglianza. Scelsero, dunque, di restare fedeli a Cristo e, per questo, furono uccisi” (Avvenire, 27 aprile 2019).
Ma torniamo al nostro Pio Laghi.
La sua linea di difesa (“non sapevo”) durò fino al 1995 quando arrivano le prime ammissioni, prima a Famiglia Cristiana (27 aprile 1995) e poi al Resto del Carlino (30 aprile 1995). Dichiarò: “Come potevo supporre che stavo trattando con dei mostri, capaci di buttare persone dagli aerei e altre atrocità simili? Mi si accusa di delitti spaventosi per omissione di aiuto e di denuncia, quando il mio unico peccato era l’ignoranza di ciò che veramente capitava”. E poi: “Ho fatto il possibile per salvare vite umane”. Quindi sapeva. Perché allora negarlo per tanti anni?
La vita di Pio Laghi si intreccia con quella di un'altra faentina, Elda Casadio.
Nata a Faenza nel 1926, sposò un soldato polacco conosciuto durante la guerra, nel 1945 a Forlì nacque il suo primo figlio, Estanislao. Emigrò in Argentina nel 1946 dove è nata la sua seconda figlia, Teresa. Vivevano tranquillamente a Bernal, a 17 chilometri da Buenos Aires, fino al 1976. Il 28 maggio di quell'anno Estanislao fu sequestrato e di lui non si seppe più niente, uguale nella sorte toccata a una intera generazione pensante di intellettuali, sindacalisti, tecnici, operai (e preti e suore…).
Elda è morta nel 2006 in seguito alle ferite riportate durante una rapina subita in casa. Una vita segnata dalla violenza.
Secondo una sua testimonianza, dopo il sequestro, come altre madri e nonne, tentò tutte le strade per aver notizie del figlio. Incontrò una prima volta anche monsignor Pio Laghi, nella sede della Nunziatura apostolica di Buenos Aires, che le disse di non poter fare niente perché aveva “le mani legate”.
Stessa risposta anche durante il loro secondo incontro, qui a Faenza al Cimitero, quando le disse anche di “aver fatto tanto per tanti italiani”.
Riconoscere di avere le mani legate senza spiegare il perché, significa ammettere di avere interessi comuni e forse coinvolgimenti inconfessabili con i carnefici?
Intrattenere rapporti diplomatici con le alte cariche di uno stato rientra nelle prerogative di un nunzio apostolico ma qui si è andati ben oltre, come nei non mai smentiti incontri per amichevoli partite a tennis con l'ammiraglio Massera (e a tennis si gioca con le mani libere), “ma solo tre o quattro volte” come ammise candidamente lo stesso Laghi.
Il mio giudizio sull’operato di Laghi in Argentina sta tutto nelle parole dello scrittore Emilio Fermìn Mignone, autore del libro “La testimonianza negata – Chiesa e dittatura in Argentina” (EMI, 1988): “La responsabilità etica, religiosa e politica di Laghi sta nel non aver fatto pesare, attraverso una denuncia profetica e pubblica, quello stato di cose. Lo avrebbe potuto fare perché la sua influenza era immensa e un regime che si vantava di difendere la civiltà cristiana e il cattolicesimo, non avrebbe potuto resistere a una rottura con la Chiesa”.
E se davvero Pio Laghi temeva per la sua vita (come dichiarò in varie occasioni), perché non tornare a Roma e di qui far sentire la sua voce?
Non voglio infine entrare in un terreno che non mi compete, ma consentitemi in conclusione di esprimere la mia amarezza per l'intitolazione proprio a Pio Laghi di una sala di lettura nella nuova Biblioteca del Seminario, un pessimo esempio per i tanti giovani e gli studiosi che la frequentano, almeno fino a quando questa brutta pagina per la Chiesa (anche quella faentina) non sarà stata chiusa.
Renzo Bertaccini
A proposito del ruolo che l'allora nunzio vaticano ebbe durante gli anni della feroce dittatura in Argentina, io so che Pio Laghi si è sempre negato a un confronto pubblico per rispondere alle molte accuse che gli sono state rivolte. I più benevoli hanno scomodato la figura di Don Abbondio, per le sue debolezze e ambiguità, per i tanti silenzi che ha opposto a chi gli chiedeva una parola chiara. Un uomo fragile e inadatto a ricoprire quella alta funzione.
Ma atteniamoci ai fatti, ad alcuni fatti precisi.
Fin da quando (era il 1984) cominciarono a circolare le prime voci sulle sue responsabilità nell'aver coperto gli orrori della dittatura, il cardinale ha sempre sdegnosamente respinto le accuse affermando che lui “non sapeva quello che stava accadendo”. Ma come è possibile che l'ambasciatore del Vaticano non sapesse e non vedesse le violenze della dittatura con 30.000 desaparecidos, 15.000 fucilati, 9.000 prigionieri politici, un milione e mezzo di esiliati? Ma, se questo non bastasse, allarghiamo la visuale anche al mondo di cui Pio Laghi era un autorevole rappresentante.
Come in tutte le vicende lunghe e complesse, non c’è stata in Argentina una sola voce della Chiesa, ci fu chi appoggiò apertamente la giunta militare e chi invece ne denunciò la violenza e ne fu vittima. Come è possibile “non sapere e non vedere” quando furono uccisi o fatti scomparire anche centinaia di sacerdoti, suore e perfino il vescovo di La Rioja Enrique Angelelli, il 4 agosto 1976?
Angelelli (che Papa Francesco ha beatificato lo scorso anno insieme ad altri tre martiri argentini) era il simbolo di una Chiesa che all’epoca si era posta dalla parte dei lavoratori sfruttati in quelle terre, un vescovo dalla voce profetica che denunciava senza paura le ingiustizie e gli eccessi del regime. Loro vedevano, loro sapevano quello che stava accadendo.
Il cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, durante l'omelia per la beatificazione, ha detto: “Di fronte a un regime che cercava di strumentalizzare la religione cristiana per i propri interessi, essi operarono perché il Vangelo diventasse fermento nella società di una umanità nuova fondata sulla giustizia, sulla solidarietà, l’uguaglianza. Scelsero, dunque, di restare fedeli a Cristo e, per questo, furono uccisi” (Avvenire, 27 aprile 2019).
Ma torniamo al nostro Pio Laghi.
La sua linea di difesa (“non sapevo”) durò fino al 1995 quando arrivano le prime ammissioni, prima a Famiglia Cristiana (27 aprile 1995) e poi al Resto del Carlino (30 aprile 1995). Dichiarò: “Come potevo supporre che stavo trattando con dei mostri, capaci di buttare persone dagli aerei e altre atrocità simili? Mi si accusa di delitti spaventosi per omissione di aiuto e di denuncia, quando il mio unico peccato era l’ignoranza di ciò che veramente capitava”. E poi: “Ho fatto il possibile per salvare vite umane”. Quindi sapeva. Perché allora negarlo per tanti anni?
La vita di Pio Laghi si intreccia con quella di un'altra faentina, Elda Casadio.
Nata a Faenza nel 1926, sposò un soldato polacco conosciuto durante la guerra, nel 1945 a Forlì nacque il suo primo figlio, Estanislao. Emigrò in Argentina nel 1946 dove è nata la sua seconda figlia, Teresa. Vivevano tranquillamente a Bernal, a 17 chilometri da Buenos Aires, fino al 1976. Il 28 maggio di quell'anno Estanislao fu sequestrato e di lui non si seppe più niente, uguale nella sorte toccata a una intera generazione pensante di intellettuali, sindacalisti, tecnici, operai (e preti e suore…).
Elda è morta nel 2006 in seguito alle ferite riportate durante una rapina subita in casa. Una vita segnata dalla violenza.
Secondo una sua testimonianza, dopo il sequestro, come altre madri e nonne, tentò tutte le strade per aver notizie del figlio. Incontrò una prima volta anche monsignor Pio Laghi, nella sede della Nunziatura apostolica di Buenos Aires, che le disse di non poter fare niente perché aveva “le mani legate”.
Stessa risposta anche durante il loro secondo incontro, qui a Faenza al Cimitero, quando le disse anche di “aver fatto tanto per tanti italiani”.
Riconoscere di avere le mani legate senza spiegare il perché, significa ammettere di avere interessi comuni e forse coinvolgimenti inconfessabili con i carnefici?
Intrattenere rapporti diplomatici con le alte cariche di uno stato rientra nelle prerogative di un nunzio apostolico ma qui si è andati ben oltre, come nei non mai smentiti incontri per amichevoli partite a tennis con l'ammiraglio Massera (e a tennis si gioca con le mani libere), “ma solo tre o quattro volte” come ammise candidamente lo stesso Laghi.
Il mio giudizio sull’operato di Laghi in Argentina sta tutto nelle parole dello scrittore Emilio Fermìn Mignone, autore del libro “La testimonianza negata – Chiesa e dittatura in Argentina” (EMI, 1988): “La responsabilità etica, religiosa e politica di Laghi sta nel non aver fatto pesare, attraverso una denuncia profetica e pubblica, quello stato di cose. Lo avrebbe potuto fare perché la sua influenza era immensa e un regime che si vantava di difendere la civiltà cristiana e il cattolicesimo, non avrebbe potuto resistere a una rottura con la Chiesa”.
E se davvero Pio Laghi temeva per la sua vita (come dichiarò in varie occasioni), perché non tornare a Roma e di qui far sentire la sua voce?
Non voglio infine entrare in un terreno che non mi compete, ma consentitemi in conclusione di esprimere la mia amarezza per l'intitolazione proprio a Pio Laghi di una sala di lettura nella nuova Biblioteca del Seminario, un pessimo esempio per i tanti giovani e gli studiosi che la frequentano, almeno fino a quando questa brutta pagina per la Chiesa (anche quella faentina) non sarà stata chiusa.
Renzo Bertaccini