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    dal "il Manifesto" del 14.12.2019 https://ilmanifesto.it/sardine-o-bandiera-rossa-di-sicuro-antifasciste-e-antirazziste/

Chi ha paura delle sardine?

Chiunque abbia partecipato a una delle loro mobilitazioni ha sicuramente percepito tre cose: una grande voglia di partecipazione (che fa seguito ad altre importanti mobilitazioni: molte di lavoratori, ma soprattutto quelle di Fridays for future e Nonunadimeno); il rifiuto dei discorsi d’odio (ma anche delle prese in giro) che hanno dominato la scena politica e mediatica negli ultimi anni; la presenza, insieme, di giovani e anziani, lavoratori e studenti, donne e uomini. E anche di destra e sinistra? O di né di destra né di sinistra? Certo di molte persone che non hanno votato, non sanno per chi votare, ma che vorrebbero tornare a contare. Sicuramente antifasciste e antirazziste.

Per questo quelli di Casa Pound e, attraverso Casa Pound, Salvini, sentendosene assediati, hanno cercato di “sporcare” la manifestazione romana minacciando una loro presenza grazie all’ingenuità di uno dei suoi promotori. E qualche risultato – qualcuno che si è ritirato - probabilmente l’hanno ottenuto. E senza equipararle a Casa Pound, hanno concorso allo stesso effetto adesioni come quelle della fidanzata di Berlusconi o delle “madamine” si Tav (già, che fine hanno fatto?) che di Salvini si erano servite, servendolo a loro volta, per riempire la loro piazza.

Ma il piatto forte per “fare l’esame del sangue” alle sardine e prenderne le distanze è la favola di una macchinazione di Prodi e del PD per recuperare spazi perduti: che sembra trovare conferma in diverse prese di posizione, presenti e passate, di alcuni promotori: specie di Mattia Santori, che ha partecipato al comizio elettorale di Bonaccini e che in passato si è schierato per il sì al referendum costituzionale di Renzi e per il boicottaggio di quello contro le trivelle. Tutto vero; e di casi simili se ne troveranno altri cento. Ma si può identificare sentimenti e aspettative di piazze finalmente piene come queste con le idee di qualcuno dei loro promotori, che pochi conoscevano prima e molti non conoscono nemmeno ora? Per molti la “prova definitiva” è che lì non si vogliono le bandiere di

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Alfiero Grandi. Fondo salva stati, unione
                  bancaria, Fiscal compact: non farsi impressionare dal
                  fracasso leghista e chiedere le modifiche necessarie

Fiscal Compact con le connesse direttive, sistema bancario europeo e fondo salvastati – Mes – sono aspetti tra loro legati. Valutarli divisi può portare solo guai. Le sceneggiate e i toni aggressivi della Lega e del resto della destra in parlamento, da scontro frontale, sono strumentali e servono a coprire i loro stessi errori. La rissa della destra non deve impressionare e tanto meno spingere ad una posizione arroccata, impedendo un’esame equilibrato di queste misure. Ci sono già state esperienze negative per avere affrontato con leggerezza e approssimazione le trattative per accordi a livello europeo su materie finanziarie ed economiche. Stracciarsi le vesti solo dopo è un atteggiamento che non ci possiamo permettere.

Il Fiscal Compact prevede il rientro nei ranghi dei paesi che non rispettano i parametri del 3% di deficit e hanno un debito pubblico superiore al 60% del Pil. Il debito dell’Italia è al 135% del Pil. Non risulta invece che qualcuno abbia chiesto di aggiungere un altro punto per obbligare i paesi con forte surplus ad investire quanto potrebbero, come prevedono le regole in vigore. I tagli sono un obbligo mentre gli investimenti no? Per ora è difficile capire se il vagheggiato strumento di bilancio per convergenza e competitività sarebbe qualcosa di più di un auspicio, con quali risorse, per quali obiettivi? Con Two packs e Six packs, collegati al Fiscal compact, sono stati aggiunti vincoli più severi. Questi provvedimenti (non inseriti finora nel sistema giuridico europeo) hanno ispirato la cura da cavallo riservata alla Grecia. In sostanza dal trattato di Maastricht, 1992, sono state via via irrigidite le regole. La modifica nel 2012 dell’articolo 81 della Costituzione è stata conseguenza di queste regole e come sappiamo è stata introdotta durante il governo Monti, approvata con oltre i 2/3 e quindi non sottoponibile a referendum popolare. Solo una nuova modifica della Costituzione approvata da Camera e Senato potrebbe cancellare la nuova versione dell’articolo 81 della Costituzione, la cui applicazione – per di più – è stata finora rimandata di volta in volta per gentile concessione dei controllori europei. Tornare al precedente art 81 potrebbe essere fatica inutile se il Fiscal Compact e i suoi collegati divenissero parte dei trattati europei, quindi sovraordinati alla Costituzione stessa, come ora si vorrebbe fare. Va ricordato che l’obiettivo originario del trattato di Maastricht era “stabilità e crescita”. La stabilità con annesse politiche di bilancio restrittive c’è stata, la crescita è rimasta solo un titolo. Perché una interpretazione restrittiva del trattato di Maastricht dovrebbe ora entrare nei trattati europei? Queste regole dovrebbero essere riviste e finalmente dovrebbe vivere la parte che non c’è (la crescita) degli obiettivi di Maastricht, visto che ora anche la Germania soffre una fase difficile dell’economia. I nuovi strumenti di bilancio a livello europeo rispondono a questa esigenza? È tutto da dimostrare.

La proposta è di inserire queste regole nel sistema giuridico europeo, modificabile solo o uscendo dall’Unione (da evitare come dimostra la Brexit) o modificando i trattati stessi (obiettivo che richiede l’unanimità) quindi prima di arrivare alla firma è necessario capire bene cosa si sta facendo. Gli atti di fede sono controproducenti e paradossalmente lasciano ad una destra becera uno spazio che non dovrebbe avere. Tante volte si sono sentite autocritiche sulla pesante cura imposta alla Grecia, qualcuno ha ammesso che era sbagliata, ma troppo tardi. In realtà continua a prevalere la stessa linea. Evitare che scatti questo irrigidimento senza averne valutato le conseguenze è il minimo necessario.

Il secondo capitolo è il rafforzamento dell’Unione bancaria. Potrebbe essere un risultato utile, a condizione che non diventi a sua volta una trappola per imporre alle banche di considerare tossico il debito pubblico mentre ci sono grandi banche europee che hanno quantità enormi di veri titoli finanziari tossici in pancia. È evidente che un sistema europeo proteggerebbe meglio le banche dai fallimenti (le banche, non gli azionisti) e i depositi dei correntisti, almeno fino a 100.000 come è previsto oggi in Italia. Troppe “distrazioni” quando si discuteva dei fallimenti bancari hanno lasciato passare il bail in, senza neppure un tempo congruo di entrata in vigore. Bail in che obbliga a caricare il fallimento sulle spalle non solo degli azionisti ma anche di chi ha acquistato titoli delle banche e perfino sui correntisti oltre i 100.000 euro, come è accaduto recentemente nelle crisi delle banche venete e popolari. Questo è costato caro a quanti hanno investito risparmi, talora indotti con l’inganno, ma anche allo Stato che è stato spinto a restituire parte dei soldi perduti, vedremo alla fine con quali costi e risultati. Il bail in è stato introdotto all’insegna della parola d’ordine mai più soldi pubblici nei fallimenti delle banche. Parola d’ordine velleitaria perché lo stato non può disinteressarsi degli aspetti sistemici e delle conseguenze sociali ed economiche, come infatti si è visto con i recenti provvedimenti. Semmai il sistema dovrebbe fare i controlli ex ante per evitare i costi successivi.

Anche Bush jr decise di lasciare fallire Lehman Brother ma innescò la crisi finanziaria mondiale, da cui l’Italia dopo oltre 10 anni non è del tutto uscita. Come ha giustamente osservato Penati su Repubblica il sistema bancario non è avulso dal contesto economico del paese. Le banche italiane hanno acquistato centinaia di miliardi di titoli di stato, se dovessero liberarsene in poco tempo, per evitare di partecipare ad un eventuale consolidamento del debito pubblico, si aprirebbe un serio problema per il finanziamento del debito pubblico. In alternativa se dovessero vedersi tagliato il credito vantato verso lo Stato per la ristrutturazione del debito (una parte non verrebbe più pagato) si potrebbe creare una situazione ai limiti dell’ingovernabilità. Lo stato non avrebbe soldi per intervenire, le banche avrebbero parte dei titoli trasformati in carta straccia, con relative perdite e rischio nei conti. Perché l’Italia dovrebbe accettare ora queste regole? Che tra l’altro sono controcorrente rispetto agli acquisti dei debiti pubblici fatti dalla Bce, in gran parte attraverso le banche centrali? Va ricordato inoltre che le garanzie europee sia per i depositi che per le banche in difficoltà entrerebbero in campo solo dopo avere esaurito le risorse nazionali.

Infine il terzo caposaldo delle decisioni europee è il fondo salvastati, MES. Non basta sottolineare che nei documenti è scritto può anziché deve chiedere la ristrutturazione del debito pubblico prima di intervenire per concedere prestiti. Il MES ha un finanziamento mutualistico, ogni stato partecipa pro quota, l’Italia fino a un massimo di 125 miliardi di euro, terzo contribuente dopo Germania e Francia. La parte più preoccupante è nel meccanismo di decisione del MES. Viene costruita in sostanza una istituzione separata, finanziata dagli stati ma resa del tutto autonoma. Tanto che nemmeno la Commissione europea avrebbe un ruolo di indirizzo e controllo, tanto meno il parlamento europeo. Quando lo Stato in difficoltà si rivolgesse alla tecnostruttura del MES sarebbe di fronte a una scelta: o subisce le condizioni poste o niente intervento salvastati. Infatti non è previsto un organo politico di appello, perché tutto è concepito come una tecnostruttura indipendente, al punto che il suo comportamento viene sottratto alle leggi ed è esente da responsabilità. Sarebbe una tecnostruttura indipendente, potentissima perché avrebbe a disposizione le munizioni conferite dagli stati che però sarebbero esclusi da qualunque indirizzo e controllo. Attaccarsi alla differenza tra deve e può è molto meno delle garanzie necessarie. Ha ragione chi afferma che già al momento della richiesta di intervento ci sarebbero rischi per gli Stati. Perché potrebbe partire la speculazione nel momento stesso della notizia della richiesta, creando con ciò stesso un’emergenza. Le banche verrebbero coinvolte con il rischio di perdere parte importante dei crediti verso lo stato, di fatto diventerebbe impossibile trovare gli spazi per interventi pubblici a favore delle aree sociali più colpite perché il fondo Mes porrebbe le sue condizioni (Grecia docet).

Chi ha concepito questi strumenti aveva ben presente la loro coerenza: criteri derivanti dal Fiscal compact e annessi, sistema di intervento europeo nelle crisi bancarie, fondo salvastati i cui orientamenti probabilmente sarebbero ispirati al Fiscal compact. Penati conclude ricordando che il treno è ormai partito, buttarla in rissa come vuole la Lega è pericoloso, bisognerebbe invece negoziare duramente le contropartite e si dovrebbero aggiungere le garanzie che tutto il percorso resti guidato dalle istituzioni democratiche, senza scivolamenti tecnocratici. Tuttavia, se non fosse possibile ottenere risposte adeguate meglio rinviare la firma e pensarci ancora, troppo rilevanti le conseguenze per il nostro paese.

Se un giorno dovesse finire la “comprensione europea” per il bilancio pubblico italiano, se dovesse esserci un impazzimento dello spread, l’Italia potrebbe, in linea ipotetica, essere costretta a chiedere aiuto al fondo MES e a quel punto va ricordata la spiegazione che diede Monti sulla durezza dei provvedimenti che adottò il suo governo. Voleva rispettare i parametri ma non voleva cedere sovranità al fondo salvastati. Quindi scelse di decidere autonomamente i tagli della spesa pubblica, ad esempio con la normativa Fornero sulle pensioni, ma evitò di chiedere aiuto al fondo salva stati per non cedere sovranità. Se non l’ha fatto Monti…

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Di fronte alle drammatiche notizie che giungono da Venezia è amaro dover constatare che il grido dall'allarme lanciato per trent'anni da quanti di noi si opposero al Mose rimase inascoltato. E' indigna ancor di più constare che ancora nelle scorse settimane Brugnaro e Zaia peroravano la causa delle Grandi Navi e il relativo scavo di nuovi canali.
Non basta quindi esprimere la doverosa solidarietà ai veneziani alle prese con l'acqua alta che invade le loro abitazioni. Occorre prendere coscienza che il Mose è non solo un'opera fonte di corruzione ma anche dannosa per la laguna e la città di Venezia. Che altro deve accadere perché il Paese intero apra gli occhi?
Vi ripropongo un mio articolo apparso nel luglio del 2012 su Rassegna sindacale, purtroppo ancora parzialmente attuale ma soprattutto utile per ricordarci come il potere della propaganda (unito alla corruzione) può essere talmente pervasivo da travolgere una città e un'intero paese.
Di Oscar Mancini.
Gare d’appalto truccate. Fatture gonfiate. Consulenze fasulle. E arresti eccellenti. Ma l'inchiesta sul Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per la realizzazione del MoSe, non è ancora conclusa. E rischia di arrivare a Roma. Lo scandalo è di grandi proporzioni. Sette arrestati fra cui l’ex presidente del monopolista Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati e preceduta dalla detenzione in carcere di Piergiorgio Baita, Presidente della società capofila Mantovani. Chissà se gli inquirenti saranno così bravi da individuare a chi - e perché - siano finiti i “fondi neri” creati in Austria con i soldi dei contribuenti? Nel frattempo emergono i beneficiari dei cospicui finanziamenti, sembra in chiaro, di fondazioni nazionali, associazioni, nonché delle campagne elettorali di esponenti eccellenti della maggioranza e dell’opposizione.
Quanto costa il monopolio per la realizzazione del gigantesco sistema delle paratie mobili contestato da molti veneziani, ma che nelle intenzioni di chi l’ha voluto dovrebbe salvare la città dall’acqua alta?
Secondo i piani ufficiali l’imponente struttura, la cui prima pietra fu posta la bellezza di 25 anni fa, doveva essere finalmente pronta nel 2014, slittati al 2016.
L’opera, contestata dalla associazioni ambientaliste e dalla CGIL fin dagli anni ottanta, finisce nel mirino della Corte dei Conti in anni recenti : a proposito degli appalti, dei costi lievitati, delle consulenze e dei collaudi, denuncia che essi sono affidati «con scarsa trasparenza e un rapporto sbilanciato a favore del concessionario».
Il costo della grande opera, scrivevano i giudici contabili, è passato da 2700 milioni di euro a 4271, adesso il «prezzo chiuso» è stato aggiornato a 4 miliardi e 700 milioni. Dei costi originari circa la metà (1200 milioni su 2700) se ne vanno in «oneri tecnici e per il concessionario, somme a disposizione e Iva».
«Ingenti appaiono gli oneri di concessione», scrivono ancora i giudici nella loro ordinanza. E aggiungono: «Alcune di tali risorse si sarebbero potute utilizzare per il rafforzamento dell’apparato amministrativo pubblico». Nel mirino dei giudici contabili finiscono i costi, che lievitano anche a causa della procedura della concessione unica, abolita dalle leggi europee e nazionali ma rimasta in essere per il Mose. «Sotto il profilo dell’economicità dell’agire amministrativo», scrivono nell’ordinanza, «suscita perplessità che la determinazione delle voci di costo e dell’elenco prezzi sia stata rimessa al concessionario».
Perché una denuncia così forte è stata largamente ignorata dai grandi media, dai partiti e dalle istituzioni? In che modo il Consorzio ha potuto esercitare la sua egemonia negli ultimi trent’anni?
Testimoni di quella ormai lontana, ma così attuale, stagione politica, siamo rimasti in pochi. E, con il trascorrere del tempo è facile perdere la memoria. Per fortuna le carte scritte rimangono, ma le ricerche richiedono tempo e fatica.
Come ha scritto anche Massimo Cacciari la procedura degli interventi in laguna era viziata all'origine con la nascita nel 1984 di quel mostro giuridico che è il Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico, imposto – aggiungo io - da Gianni De Michelis in accordo con Bernini e confermato da tutti i governi successivi.
Molti si sono fatti affascinare dalla grande opera ingegneristica. Altri, come lo stesso sindaco Cacciari, pur essendo contrari, hanno pensato di poterla bloccare attraverso la tattica del rovesciamento delle priorità, pure saggiamente previste dalla legge: prima il ripristino morfologico della laguna poi altri cinque punti prioritari e solo alla fine “anche” gli interventi alle bocche di porto. Nel frattempo sono state elaborate alternative mai prese in considerazione nonostante l’autorevolezza dei proponenti. La storia ha dimostrato che la forza del Consorzio era così pervasiva che si è preferito partire da quell’”anche” invertendo così quanto prescritto dalla legge e dalla logica. Deleterio fu in questo senso il ruolo del Sindaco Costa succeduto a Cacciari su sua indicazione ma anche di tutti i governi. Purtroppo, nessuno escluso.
La CGIL di Venezia fu tra i pochi soggetti sociali a sollevare problemi. Fin dal convegno del’84 quando, scontrandoci con il Ministro De Michelis, contestammo l’idea “dell’inserimento di tre rubinetti alle bocche di porto” per affermare “la necessità di una visione unitaria e sistemica degli interventi” sulla base del principio della “flessibilità, gradualità, sperimentabilità”. Negli anni 80, in qualità di segretario generale aggiunto, intervenni ripetutamente controcorrente sulla stampa e in incontri istituzionali subendo gli strali del “partito del fare” contrapposto alla “laguna di chiacchere”, alla quale fummo immediatamente arruolati.
Tra gli appuntamenti più significativi ricordo:
1. Nel ventennale dell'alluvione,(1986) quando il presidente del consiglio Craxi pronunciò un discorso inedito, rimasto però senza alcuna conseguenza, intervenni criticamente a nome della CGIL di fronte al consiglio comunale e poi a alla Fondazione Giorgio Cini, in presenza del governo;
2. Il lungo colloquio che avemmo nel settembre dell’87 con il Presidente del Consiglio Giovanni Goria. In quell’occasione presentai, a nome di CGIL CISL UIL, un documento che esprimeva la netta contrarietà alla terza convenzione tra lo stato e il Consorzio Venezia Nuova e chiedeva nel contempo il rafforzamento del Magistrato alle acque (che già allora appariva ancella del Consorzio) il rispetto delle priorità in ordine al disinquinamento della laguna e il ripristino morfologico della stessa, gli interventi per il restauro della città e il suo ripopolamento. Questo incontro fu preceduto da una Conferenza stampa che suscitò l'ira scomposta di Maurizio Sacconi, allora braccio destro di De Michelis.
Se si volessero ricostruire le responsabilità politiche sarebbe utile sfogliare i giornali dell'epoca perché i gatti non sono tutti bigi! Non solo la CGIL, ma anche PRI e PCI e la minoranza del PSI, fino alla giunta Casellati, condussero significative battaglie. Gli arresti eccellenti di queste settimane, hanno riportato alla mia memoria alcune pubbliche denunce che formulai, a nome della CGIL, nel corso degli anni contro il meccanismo delle concessioni uniche e, successivamente, contro il perverso meccanismo del projet financing all'italiana (ospedale di Mestre, ospedale di Schio Thiene e delle autostrade). In un saggio pubblicato sul N°47, 1994 della Rivista "Oltre il Ponte" scrivevo :
" L'irresistibile tentazione delle Giunte Bernini prima e Cremonese poi di far ricorso ad un ennesimo consorzio privato, attraverso il meccanismo della concessione, con tutto quello che ne è conseguito sul terreno della lottizzazione e della questione morale, ha fatto si che il giro di boa non avvenisse ed anni preziosi fossero sprecati. La CGIL Regionale denunciò pubblicamente il perverso meccanismo che la Giunta stava approntando con la concessione unica al Consorzio Venezia Nuova e al progettato Consorzio Disinquinamento, di tutti gli interventi afferenti al bacino scolante".
Con una nota a piè di pagina raccontavo un episodio di cui fui testimone. Dopo ripetute denunce sulla stampa locale (in particolare ricordo un'intervista rilasciata a Renzo Mazzaro apparsa sulla Nuova, Mattino e Tribuna) il Presidente della Regione Cremonese convocò a Palazzo Balbi CGIL CISL UIL.
In quella occasione si lamentò dei mei attacchi ed ebbe la spudoratezza di chiedermi se la CGIL avesse avuto delle imprese da segnalargli!!! Come se la nostra avversione al meccanismo della concessione fosse motivata dal non aver partecipato alla lottizzazione del costituendo consorzio!!! Poi arrivò tangentopoli, seguirono le condanne ma, evidentemente gli italiani hanno la memoria corta e la storia si ripete.
Penso che il nostro compito oggi sia quello di sviluppare una forte iniziativa verso il governo affinché sia revocata la concessione “unica” al Consorzio Venezia Nuova per mettere finalmente mano a un progetto generale unitario sulla laguna, interdisciplinare, aperto a diverse evoluzioni e progressivo. Forse siamo ancora in tempo per fermare almeno in parte un progetto devastante anche alla luce del decreto che inibisce il passaggio delle grandi navi nel bacino di San Marco che rende possibile l’innalzamento dei fondali alla bocca di Lido.
Nel lontano 1973 lo storico americano F.C. Lane nel dare alle stampe la sua magistrale Storia di Venezia aggiungeva un’ultima notazione riferita alla prima legge speciale appena approvata, che suona come ammonimento: “L’efficacia della sua applicazione s’incaricherà di dimostrare se la Repubblica italiana è in grado di preservare la città creata dalla Repubblica di Venezia”.
Oggi, a quarant’anni di distanza, l’attuale governo autorizza al massimo pessimismo. Tengono accesa la speranza la nuova consapevolezza che cresce nella società italiana. Venezia è un bene comune dell’umanità e non può essere preda del partito degli affari.

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Con questo intervento di Sergio Caserta tratto dal blog sul Fatto Quotidiano on line, iniziamo a seguire il dibattito suscitato dall'iniziativa di Elly Schlein e altri per un “progetto civico e politico: Regione futura, ecologista, progressista e innovativa”  leggi QUI e QUI.

In vista dell'appuntamento del 9 novembre vi invitiamo ad esprimere le vostre opinioni e a mandare i vostri contributi.
La redazione.

Regionali, e ora l’Emilia Romagna. Ecco perché qui si giocherà la battaglia finale

di Sergio Caserta

Non era difficile prevedere che le elezioni regionali sarebbero state una “via crucis” per le forze che si stanno contrapponendo all’invincibile armada del satrapo leghista. Ora c’è stato il bagno di sangue in Umbria, per cui la neonata alleanza Pd-M5S (il governo Conte bis è in carica da meno di due mesi) corre il rischio di essere soffocata nella culla e l’avventura giallo-rossa estinguersi per ritiro già al primo set.
I risultati in Umbria sono eclatanti, nel senso che si sapeva che avrebbe vinto la destra ma non che la differenza sarebbe stata di 20 punti, consacrata da un aumento dei votanti del 10% rispetto alle precedenti elezioni regionali. Perugia ora chiama Bologna e Reggio Calabria: nei prossimi due mesi, forse nella stessa data, si terranno le elezioni in Emilia Romagna ed in Calabria con esiti a questo punto tendenzialmente non molto diversi se non cambiano significativamente elementi del panorama politico nazionale e locale. Al di là del contesto nazionale per il quale non sappiamo se e come il governo andrà avanti, la situazione sul terreno avrà la sua importanza come hanno dimostrato i fatti in Umbria.

In Emilia Romagna si gioca la partita di gran lunga più importante per la rilevanza socio-economica e geopolitica della regione simbolo nell’immaginario nazionale del buon governo della sinistra, dei primati nell’efficienza della pubblica amministrazione e della coesione sociale quale valore distintivo e insuperato.
Una Stalingrado elettorale in cui i due eserciti si scontreranno sapendo che questa battaglia determinerà molto probabilmente l’esito della guerra: se la Lega uscirà vittoriosa, niente e nessuno potrà impedire a Salvini e alla destra l’ascesa definitiva a “tutto il potere” evocato dalle sabbie del Papetee; se invece la sinistra riformista e liberale, erede dell’antica tradizione comunista, riuscirà a contenere e battere le truppe salviniane, forse il corso dell’intera vicenda prenderà una piega diversa da quel che oggi appare un esito pressoché scontato.
Come si collocheranno i diversi attori di questo match? Sicuramente un ruolo determinante è nella responsabilità del Pd che però ha già perso il primo posto nel 2018 alle ultime elezioni europee (31,24%) superato dalla Lega (33,77%) se pur in misura contenuta. I cinquestelle in caduta libera detenevano ancora un più che dignitoso 12,9% che però oggi è virtualmente già perso; la destra, a parti rovesciate tra Fratelli d’Italia (4,66%) Forza Italia (5,87%), sarà in funzione ancillare alleata della Lega. Un ruolo diverso potrà giocarlo la variegata costellazione di partitini e movimenti alla sinistra del Pd che idealmente, ma purtroppo non concretamente finora, raggiungerebbe un potenziale 7/8% tanto da rappresentare un alleato decisivo per una possibile tenuta vittoriosa del centrosinistra. Ci sta lavorando Elly Schlein, ex parlamentare europea, apprezzata ambientalista, paladina

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La destra è in difficoltà, a partire da Salvini che ora ammette di avere fatto errori e sottovalutato le conseguenze della crisi di governo. La tenuta dell'alleanza di centrodestra è precaria e l'estremismo di Salvini, che arriva ad aprire le porte della manifestazione del 19 a casa pound, ha suscitato reazioni che confermano che la svolta verso una destra estremista egemonizzata dalla Lega non è apprezzata da una parte dello schieramento. Anche i toni iperpropagandistici e approssimativi sono indice di una difficoltà politica e anzichè rassicurare generano ansia che si aggiunge a quella che già esiste nel paese, ed è tanta.

Tuttavia se Atene piange Sparta non ride. La nuova alleanza M5Stelle, Pd, Leu fatica a trovare un orientamento convincente o almeno comprensibile. E' evidente la prevalenza del punto di vista dei suoi componenti su quella di coalizione.

La maggioranza che ha fatto tirare un sospiro di sollievo per avere impedito a Salvini di ottenere le elezioni anticipate ora è in difficoltà e per ora non trova il passo giusto per motivare la sua permanenza al governo. Ne sono la prova i ripetuti richiami, provenienti dall'interno della stessa coalizione, a non insistere su comportamenti più preoccupati di segnalare la propria posizione che di offrire la prova che la maggioranza e il governo hanno un futuro. Anche le rassicurazioni di Conte lasciano il tempo che trovano.

Questo avviene perchè il governo non ha ancora acquisito risultati in grado di rendere più conveniente spendere i dividendi dell'azione di governo che segnalare la propria posizione a dispetto della coalizione.

Appesantisce la situazione la formazione della nuova creatura di Renzi che

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Con l’addio di Renzi al partito democratico alcune cose si chiariscono (spero) per tutti.  Le foto con Marchionne (pace all’anima sua) e la contestuale ripulsa per il dialogo con i sindacati; il jobs act (con annessa la fraudolenta estensione ai licenziamenti collettivi) e, sempre a livello simbolico, l’insofferenza per l’intonazione di Bandiera rossa al festival dell’Unità.  Badate bene si trattava non di rialzare e sventolare bandiere; che cosa volete mai che possano sventolare i pallidi ed estenuati epigoni di Zingaretti e della sinistra (mi metto fra questi)?. Si trattava soltanto di riconoscere una delle origini del PD, una delle matrici di quel progetto, così come gli ex comunisti rendono omaggio all’intelligenza politica di Moro o, perfino, al profilo da statista di DeGasperi.
Ma Renzi no, come alcuni altri che ne condividono le origini e la formazione culturale, di quella tradizione e di quelle origini, volevano soltanto rapinarne i voti, diciamo pure sedurre gli elettori con la (mancata) promessa della vittoria sempre anelata e mai conquistata.

Ora diventa tutto chiaro: avevano ragione quelli che nell’OPA di Renzi hanno visto soltanto il tentativo di distruggere la sinistra in Italia, lo dimostra in modo lampante il fatto che il partito che Renzi aveva in testa ed ha cercato di costruire era un partito “non contendibile”. Prima ha fatto terra bruciata, soprattutto attraverso il dileggio e l’insulto quotidiano, dei vari Bersani Speranza Cuperlo ecc., poi attraverso l’uso estremo di uno statuto che affidava il potere nel partito ad una platea indistinta di esterni al partito stesso (le primarie nelle quali, a livello locale, votavano regolarmente tutti gli elettori delle varie formazioni di centro destra e anche di Forza Italia) e attraverso una torsione autoritaria delle cariche che gli ha consentito (pretesa davvero al limite del credibile) di mantenerne il controllo anche dopo la catastrofica sconfitta, anche personale, nel referendum costituzionale del 2016. Il disegno di Renzi, o forse sarebbe meglio dire l’impulso irrefrenabile di Renzi, consiste probabilmente nella mitizzazione del potere personale, e temo che alla fine questa sia la lettura da dare anche a quel progetto di riforma costituzionale, miserabile nei contenuti, rischiosissimo per le istituzioni in un periodo di destra populista ed estremista trionfante, che qualche costituzionalista “di servizio” ebbe il coraggio di appoggiare ma mai nessuno di condividere fino in fondo mettendoci la firma. Come ricordate “il merito” fu attribuito alla Boschi, che una laurea ce l’ha ma un curriculum da costituzionalista proprio no. La versione sinistra dei saggi di Lorenzago, per quelli che hanno un po’ di memoria.

L’ossessione del potere personale, come strumento duttile e potente per affrontare un periodo estremamente difficile per la democrazia è ben comprensibile e infatti attraversa molti paesi (gli USA in testa), ma ha fra gli alti prezzi da pagare quello della distruzione dei partiti, trasformati in partiti personali che con il loro capo salgono in vetta e precipitano nella polvere!

Oggi promuove una scissione da un partito sofferente, col rischio di provocarne la morte, allo scopo di mantenere un potere personale, sia pure ridotto, quasi solo di ricatto, ma se sarà bravo anche di proposta, nonostante la sua stessa iniziativa ponga in crisi il governo ed i suoi sostenitori. Un governo tuttavia che è l’unica ancora di salvezza per la sua Italia Viva che nasce assai gracile.

A parte Maria Elena Boschi e Teresa Bellanova, non seguono, apparentemente, Matteo Renzi nella nuova avventura tutti i maggiori esponenti della sua corrente o gruppo di fedeli: non lo segue Luca Lotti e neppure Lorenzo Guerini, mancano all’appello tutti i sindaci a lui legati a doppio filo, da quello di Firenze, Nardella, a quello di Bergamo, Gori, a Matteo Ricci (Pesaro) già responsabile Enti locali del Pd renziano, a quello di Bari il potente Decaro, neppure la presidente dell’Abruzzo Di Pasquale, non lo seguono nemmeno “i toscani” Simona Bonafè, eurodeputata, Marcucci, capogruppo Pd al Senato, e nemmeno il sen. Parrini, fino a far sorgere in numerosi commentatori l’indicibile sospetto che si tratti di scelte strumentali tese a ricattare il segretario PD Zingaretti dall’interno. A me appare un’ipotesi davvero incredibile, ma la dice lunga sul tipo di considerazione e fama che riscuote Renzi all’interno della stampa, compresi i giornalisti a lui più vicini. Ogni “machiavellismo” sembra credibile se si tratta di Matteo Renzi!
Ma forse bisognerebbe notare, e la grande stampa non lo fa, come la scissione di un leader che non riesce portarsi dietro nemmeno i fedelissimi (che al capo devono proprio tutto, spesso ben oltre i loro meriti) è una scissione fallita!

Basta guardare a livello locale: né il sen. Collina, né la consigliera regionale Rontini, pur in dichiarati strettissimi rapporti con Renzi fin dalle sue origini, lo seguiranno in questa avventura. Anche per loro si tratta di una scelta “tattica”? E’ difficile crederlo, anche perché è assai dubbio quale potrà essere la loro futura carriera in un Pd senza Renzi. Chi si fiderà di loro fin dalle prossime scadenze elettorali?

Dunque una scissione formalmente fallita; i parlamentari renziani erano stimati

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