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Sono una cittadina qualunque che cerca di seguire come può e come sa le vicende della politica in particolare, avendo una cultura politica di sinistra, seguo con attenzione il dibattito che si svolge a sinistra del PD.

Ho letto molto attentamente le lettere scritte da Montanari e Falcone e anche quella di Antonio Floridia cercando di farmi un'idea su i due modi di vedere una futura formazione politica di sinistra.

Premetto che non sempre mi è facile capire i concetti espressi da entrambi gli scriventi, questo per mio difetto in fatto di istruzione, però trovo che di fondo le visioni si possano definire così : Una, quella di Falcone e Montanari, più partecipativa, che cerca di pescare nella società cosiddetta civile in cerca di idee nuove, moderne, che secondo me, non vogliono dire che i partiti non servono, ma semplicemente che questi si formino in un percorso che si può comporre come un puzzle tassello su tassello, dove potranno emergere personalità nuove, con nuove visioni di società che dovranno andare a risolvere problemi vecchi ormai incancreniti, con metodi nuovi e moderni perché la politica, anche quella che si definisce di sinistra, li continua tutt'ora a gestire senza essersi mai rinnovata nelle idee, nei metodi, nella progettualità.

Esiste in ogni branca istituzionale di questo Paese una diffusa incapacità di rinnovamento, cambiare costa un grande sforzo mentale e psicologico di non poco conto, cambiare è un po come morire, vuol dire rimettersi continuamente in discussione correggere gli errori, ma prima ancora, accettare di averli fatti.

Il rinnovamento è un processo lungo, non ci si può aspettare che dia risultati a breve termine, però se vogliamo cambiare la cultura del “non si può fare” bisogna incominciare a farlo e lavorare con costanza e determinazione sapendo che il percorso è lungo e difficile.

La mia personale esperienza con mio figlio Giovanni per il quale sto cercando di costruire un futuro da uomo libero nonostante il suo deficit mentale, si scontra tutti i giorni con un mare di “non si può fare” perché ancora le istituzioni hanno la mentalità arcaica della protezione di se e degli altri, hanno la mentalità della conservazione che travalica la vita delle persone, infatti non si lavora per l'emancipazione dei soggetti ma li si costringe in luoghi protetti e isolati in funzione di un'ipotetica sicurezza che è divenuta il mantra di questo tipo di società.

La sicurezza prima di tutto, quindi si finisce con isolare ogni tipo di diversità che inevitabilmente resta ai margini.

Per fare questa svolta occorrono forze nuove, mentalità elastiche non ancora condizionate da un vissuto permeato di consuetudini ormai difficili da rimuovere, ci vuole una rivoluzione culturale che è solo di coloro che osano andare contro corrente che pensano che si “si può fare”.

Questi si chiamano precursori e la storia ci racconta che non hanno mai avuto vita facile specie in casa propria.

Con tutto il rispetto per il presidente Grasso, persona stimabile e di grande prestigio ,ma ,come al solito, forse per mancanza di tempo, si è fatta ancora un'operazione di semplice assemblaggio di tre partitini che, mi permetto di dire, fino ad oggi non hanno dato grande esempio di rinnovamento e di forza dirompente e catalizzatrice.

Innovare e rinnovarsi sono le due parole chiave di questo percorso di una nuova sinistra che “ancora non c'è”

Abbiamo perso un'altra occasione?

Chissà, se così fosse la pagheremo sulla nostra pelle, come sempre.

Rita Menichelli

 

 

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di Alessandro Messina

Ha suscitato qualche perplessità nel mondo ampio della sinistra e qualche polemica un po’ rozza, more solito, nel campo renziano la scelta dei gruppi dirigenti dei movimenti della diaspora del partito democratico di Pietro Grasso come front-man (© Rangeri) della nuova formazione politica di Liberi e Uguali. Che è, per ora, qualcosa a metà strada fra un’alleanza elettorale e l’embrione del nuovo partito della sinistra. Un vessillo: questa è la mia tesi e se avete fretta o vi annoio potete fermarvi qui. 
Bandiera, simbolo: non a caso, si dice, finirà “nel” simbolo elettorale. Ma non leader.
Innanzitutto perché è stato nominato e non eletto; nominato dai gruppi dirigenti delle formazioni che confluiscono in LeU. Diciamolo, non esisteva nessuna reale alternativa alla nomina dall’alto del “rappresentante comune" di questi partiti e movimenti. Nemmeno se vi avesse partecipato anche il mondo del Brancaccio. Ma sorge spontanea la domanda: c’era proprio bisogno di un nome unificante, che ha l’aspetto più di un candidato premier che di un capo politico?
Sì ce n’era bisogno, perché il pericolo da tutti agitato era quello di ripetere l’infausta esperienza della lista Arcobaleno: se non ci si mette d’accordo nemmeno sul nome di un rappresentante comune non si dà nessuna credibilità ad una lista che vuole anche essere il primo passo per la costruzione di un nuovo partito unitario della sinistra.
Sì, ce n’era bisogno, perché oramai i media trattano la politica come fosse uno sport o forse meglio come le corse dei cavalli, e quindi un nome ci vuole perché altrimenti i giornalisti nemmeno ti nominano; poi dipende da te se è un capo, un cavallo che si tira dietro tutti e che va dove gli pare, oppure invece è solo il contadino della prima fila de “Il quarto stato”, uno, il più visibile, del branco.
Ma non era meglio eleggerlo piuttosto che nominarlo?
No, non era possibile perché grazie al cielo non si è trattato di una annessione ma di una confluenza, di partiti piccoli, poco formalizzati per fortuna, che non potevano riconoscere la leadership di qualcuno fra loro. E allora, hanno detto i giornalisti ancora una volta “un papa straniero”.
Ma non è così: innanzitutto perché non sarà “papa” e in secondo luogo perché non è “straniero”.
Mi spiego. Se l’ignobile legge elettorale (rosatellumBis) in conformità con la mentalità padronale che accomuna Renzi e Berlusconi, impone di indicare un “capo” della lista (non della coalizione, e non candidato Presidente del Consiglio!) un nome bisognava pur indicarlo e badate bene

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Anna Falcone e Tomaso Montanari raccolgono 'il grido di dolore ...' ma pongono le loro condizioni  "per far ripartire la sinistra del Brancaccio".
pubblicato su Huffington Post del 18 novembre 2017

L’appello firmato da Luciana Castellina e da tante altre personalità pubbliche della Sinistra italiana, e i numerosi altri appelli giunti da tutta Italia in questi giorni tormentati, meritano una risposta seria e responsabile.
Il percorso del Brancaccio è stato il tentativo di costruire una lista che accogliesse, unisse e portasse in Parlamento la Sinistra più diffusa, concreta e carica di futuro. Quella dei cittadini, e delle tante lotte e vertenze disseminate nel Paese, per la difesa di un posto di lavoro, di un territorio, di un bene comune, di uno spazio, un diritto, un servizio o un principio. Quella della Costituzione, e della vittoria del 4 dicembre.
Abbiamo proposto di farlo non contro, ma con, i partiti: in un’alleanza per la democrazia e l’uguaglianza. Perché, come ci ha ricordato anche ieri Maurizio Landini, “il problema non è mettere insieme cose che già ci sono, ma innescare un nuovo processo”.
Ci siamo fermati quando abbiamo avvertito con nettezza, nei soggetti organizzati, la paura di mettersi in gioco fino in fondo, preferendo ad una partita in campo aperto il tratto autoconsolatorio dell’identità, e quello politicista dell’autoconservazione: si stava, e si sta andando, verso la somma di tre partiti già esistenti.
Se l’assemblea del 18 novembre rischiava di liquidare ogni anelito unitario, quella del 3 dicembre si sta costruendo – sono parole dell’appello cui rispondiamo – come mera “ratifica di una scelta interna al tavolo dei partiti”.
Una scelta legittima, certo: ma assai diversa dal “nuovo processo” che avremmo voluto, e che ci siamo promessi al Brancaccio.
Ora, e prima che sia troppo tardi, con sforzo d’immaginazione e ottimismo della volontà, ci par di vedere un solo modo per rimettere in carreggiata quel processo: costruire un processo autenticamente democratico di cui nessuno abbia il controllo.
Un’assemblea che possa decidere, liberamente e realmente, su programma, leadership, criteri delle candidature, comitati etici e di garanzia.
Crediamo che ci siamo ancora due modi per arrivare a questo risultato.
Il primo è costruire un percorso completamente diverso

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In un’intervista al Venerdì di ieri Maurizio Landini ha detto la cosa fondamentale, sulla sinistra italiana: «il problema non è mettere insieme cose che già ci sono, ma innescare un nuovo processo».
Era l’idea del percorso del Brancaccio: un’alleanza tra i partiti (che ci vogliono, eccome: e anzi, che diventano un problema quando sono piccoli e deboli) e i cittadini. I cittadini attivi di Sinistra, impegnati in mille lotte particolari, per il territorio, l’ambiente, l’eguaglianza, ma ormai molto disillusi circa la rappresentanza politica, e spesso rassegnati all’astensione elettorale.
Non sorprendentemente, quel percorso alla fine si è arenato sul modo in cui tenere insieme partiti e cittadini non iscritti ai partiti. Perché i partiti non si fidano l’uno dell’altro: e tutti insieme temono che la partecipazione di cittadini non iscritti possa far perdere loro il controllo della assemblea che uscirà dal percorso. La grande assemblea nazionale che dovrebbe decidere davvero sulla leadership (già scelta dai partiti, sebbene scelta fuori dai partiti…), sul programma, sui cruciali criteri per la formazione delle liste, sui garanti e sui comitati etici.
Quella assemblea è già stata annunciata dai partiti per il 3 dicembre, senza tuttavia che fosse annunciato il percorso attraverso il quale sarebbe stata formata.
È per questo che Anna Falcone ed io non abbiamo potuto firmarne la convocazione: non sappiamo se quel percorso sarà davvero aperto, democratico, fuori dal controllo dei vertici dei partiti.
Oggi sui social sono iniziate a filtrare bozze di regolamento: non so dire se corrispondano all’ultima versione, che sarà annunciata dopo l’approvazione da parte dei singoli partiti. La bozza che ho letto prevede che in ogni assemblea provinciale, la presidenza (composta dai promotori, cioè dai tre partiti) proponga una lista bloccata, e che si voti senza preferenze. Curioso per forze che si oppongono con

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Anche Giovanni Paglia (Deputato di Sinistra Italiana) prova a sbloccare la situazione e a rilanciare il dialogo nel e col Brancaccio.

17/11/2017
So che dopo il cortocircuito che si è prodotto a sinistra nell'ultima settimana in tante e tanti sono ora delusi, arrabbiati, disorientati.
Lo capisco, ma credo che mai come in questo momento abbiamo l'obbligo di sospendere ogni ostilità, comprendere le ragioni di tutti e provare a riannodare il filo di un percorso comune.
Non è facile, perché come vado dicendo da mesi tutti vogliamo la sinistra unita, ma tutti la immaginiamo senza qualcuno, al punto che mettendo assieme i veti reciproci ognuno finirebbe a fare l'unità solo con se stesso.
Questo non va bene, perché se per i militanti le distinzioni sono molte ed evidenti, per le elettrici e gli elettori italiani diventano sfumate al punto da non essere riconoscibili.
È la ragione per cui sosteniamo spesso che ci sia di mezzo una questione enorme di credibilità: non si dà fiducia a chi non è in grado di trovare un accordo nemmeno con chi dice le sue stesse cose.
Propongo quindi di ripartire da alcuni fondamentali.
Il primo è il rapporto con il Pd.
Me la cavo rapidamente, dato che non esiste nè prima, nè dopo le elezioni, per le mille ragioni di programma e persino di valori che ci siamo detti mille volte.
Capisco il fastidio per l'ossessiva campagna di Repubblica, per i retroscena giornalistici, per lo stalking di Fassino, ma non vale la pena preoccuparci per cose che non esistono.
La sinistra si presenterà alle elezioni con una lista autonoma e alternativa.
Chiamatelo quarto polo, se vi piace il titolo.
Il secondo riguarda il programma.
Personalmente mi ritrovo in pieno in quello del Brancaccio: scuola e sanità pubbliche come fondamento di uguaglianza, abolizione del Jobs Act e della riforma Fornero, riduzione dell'orario di lavoro, reddito minimo garantito, disobbedienza ai trattati europei, abolizione del vincolo Costituzionale al pareggio di bilancio, riforma del sistema bancario, fine della stagione delle grandi opere e delle trivelle, conversione ecologica dell'economia.
D'altra parte tutto ciò è contenuto nelle battaglie parlamentari condotte in questi cinque anni di opposizione da Sinistra italiana e fa parte della nostra identità politica.
Ora il punto è che non siamo soli, ma in compagnia di altri che potrebbero avere idee leggermente diverse, ma ancor di più che non ci si può limitare ad un programma scritto da poche mani.
Il tentativo del documento uscito dopo il confronto con Mdp, Possibile e Montanari era esattamente quello di verificare se ci fossero le condizioni minime da cui partire, per poi affidare a un confronto ampio e democratico la definizione puntuale della proposta comune.
È possibile riprendere questa ispirazione, o ci dobbiamo rassegnare a dire potenzialmente le stesse cose con formule distinte?
Il terzo è la questione della rappresentanza.
Anche in questo caso non può esserci una soluzione diversa dalla democrazia, nella scelta dei criteri per le candidature e quindi delle persone a cui affidare il mandato parlamentare.
Credo tuttavia che dovremmo fare lo sforzo di trovare un metodo che porti tutte e tutti noi ad essere soddisfatti dei candidati proposti, e non tanto a mettere in campo una competizione feroce che sarebbe solo l'altra faccia della spartizione.
Non mi convince la distinzione fra vecchi e giovani, ma comprendo che alcune esperienze possano apparire più logorate di altre.
Capisco invece che ognuno è un programma vivente e che quindi non esistono persone per tutte le stagioni, soprattutto perché le stagioni che abbiamo alle spalle sono disgraziate.
Infine un appunto che sento di dover fare a Tomaso Montanari, che spero possa rifletterci.
La distinzione fra civici e partiti è totalmente fuorviante e ci porta molto lontano dai nostri comuni obiettivi.
Io infatti milito in un partito da quando ho 15 anni, ma sono piuttosto certo che in qualsiasi confronto politico nel campo della sinistra io e Tomaso staremo dalla stessa parte, D'Alema o Bersani dall'altra.
Io mi sono sentito di casa al Brancaccio, esattamente come mi ero sentito di casa nelle tante esperienze civiche e di sinistra che in questi anni hanno animato la politica locale.
Le compagne e i compagni di Mdp hanno invece un approccio e una storia diversi, che credo sia evidente a tutti.
In poche parole, una parte della sinistra ha idee radicali, un'altra moderate.
Non è una novità, d'altra parte, come non è nuova la discussione sulla possibilità che si possa collaborare sul piano politico ed elettorale.
Nuova, purtroppo, è al massimo la condizione di uguale debolezza di entrambe, che consiglierebbe di propendere questa volta per l'unità, qualora se ne vedano le condizioni minime possibili.
Non si tratta di fingere di essere uguali, nè di omologare le idee politiche di ciascuno, ma di mettere le proprie peculiarità al servizio di un programma condiviso.
Ci siamo messi su un binario che rischia di produrre due risultati negativi, ovvero la divisione della sinistra e insieme la separazione dell'area più radicale.
Questo accade dopo che quasi un anno fa la collaborazione attiva di tutte queste componenti aveva invece prodotto il risultato straordinario di salvare la Costituzione repubblicana, riscoprendone lo straordinario valore di programma per il futuro.
Veramente vogliamo che vada a finire così?

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Va bene, parliamo di astensionismo.

A volte mi domando quale dei due sia il problema, l'astensionismo o il disagio sociale sempre più accentuato e sempre più profondo che si vive nei territori.

Il problema sembra intercambiabile, bisogna riportare la gente a votare perché qualche partito si possa intestare questo risultato, oppure bisogna cambiare le cose perché le persone abbiano voglia di partecipare e sentano che vale la pena di partire da casa e arrivare fino al seggio?

E' da tempo che me lo chiedo.

Da oltre 50 anni ad ogni tornata elettorale mi reco a votare perché ho sempre pensato che fosse un dovere ed un diritto.

In particolare, come donna, ritengo che dopo tutte le lotte che le donne hanno fatto per conquistare il diritto al voto, non recarmi al seggio sembra quasi un tradimento verso le compagne che hanno lottato e si sono sacrificate per questa conquista.

Devo ammettere però che col tempo sembra sempre più divenuto un rito che poi non trova riscontri nella vita di tutti i giorni.

I rapporti con le istituzioni sono sempre più distaccati, quando fai presente i bisogni le risposte sono sfuggenti, poco argomentate, ne chiare ne trasparenti, non c'è empatia nei rapporti fra gli interlocutori ma una forte sensazione di sfiducia reciproca che scava fossati sempre più larghi.

Sembra, che invece di parlare con l'istituzione dal volto umano, quella che dovrebbe essere dalla tua parte per accompagnarti alla possibile soluzione di un bisogno, accade di trovarti davanti uno sguardo ostile e arroccato sulla difensiva.

 

Ma quello che più di tutto influisce su questo clima è la rassegnazione, la mancanza di uno scatto di dignità da parte della cittadinanza, che fa si che chi detiene il potere continui indisturbato per la sua strada trattando i propri cittadini semplicemente come sudditi.

Dove sta il controllo?

Prima con il proprio comune, poi con tutte le altre istituzioni a tutti i livelli?

E quindi viene prima l'uovo o la gallina?

Vengono prima le persone, la loro vita, spesso difficile e sofferente.

Rimettere al centro la persona, forse, riporterà la gente al voto, forse, perchèé sarà un lavoro duro, lungo e molto molto difficile.

Per il momento non parliamo di elettori, quando le persone ritorneranno al centro della vita pubblica come cittadini, forse ridiverranno anche elettori.

 

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