Riforme. L’effetto di questa legge sarebbe che chi è ricco “scappa” con la cassa, chi non lo è si fa carico anche di chi non contribuirà più. Il bilancio dello stato diventerebbe un incubo
Un banchetto per le firme contro l’autonomia differenziata foto LaPresse
È evidente che una parte della destra percepisce il pericolo di perdere consensi, soprattutto nel Mezzogiorno, come conseguenza dell’Autonomia differenziata. Sono emerse contrarietà clamorose in Calabria, in Basilicata – ma non solo – che hanno spinto a cercare di mettere una pezza al grave errore di avere sottovalutato le conseguenze della legge Calderoli, che spalanca le porte a una procedura senza ritorno pur di concedere l’autonomia regionale differenziata a chi la vuole. L’ideologo è Zaia che nei documenti della sua regione ha fatto scrivere chiaro che punta a trattenere in Veneto il 90% delle entrate fiscali, in sostanza vuole diventare una regione speciale.
Se le regioni più ricche dovessero seguire questo esempio, ottenendo questo esito avremmo lo Stato in bancarotta perché tutto il debito pubblico, anche quello del Veneto, della Lombardia e altre regioni ricche sarebbe a carico delle regioni meno ricche che non chiedono l’autonomia perché questa legge glielo impedisce in quanto afferma che l’Autonomia regionale differenziata non deve comportare nuovi oneri per lo stato. Nuovi oneri no, quindi nessuna solidarietà, ma oneri vecchi si e ovviamente da pagare con i proventi delle regioni che hanno meno entrate perché più deboli.
L’EFFETTO DI QUESTA LEGGE sarebbe che chi è ricco “scappa” con la cassa, chi non lo è si fa carico anche di chi non contribuirà più. Il bilancio dello stato diventerebbe un incubo, i tagli verrebbero fatti – obtorto collo – a valanga, pensioni in primis. Perché Fratelli d’Italia e Forza Italia abbiano consentito l’approvazione di questa legge che distruggerebbe l’unità nazionale è un mistero. Quelli fuggiti con la cassa avrebbero un’amara sorpresa perché scoprirebbero il giogo dello spread, cioè di un’Italia non in grado di garantire il debito pubblico, con la conseguenza di un aumento del costo del denaro e dell’inflazione, con esiti imprevedibili.
Decreto Omnibus: mance a pioggia, i nodi a settembre
Purtroppo gli allarmi sono arrivati tardi, la maggioranza parlamentare pur di mantenere il potere ha regalato alla Lega questo pegno per il governo. Non hanno ascoltato le audizioni, gli esperti, gli organi di controllo sui conti, oltre che le associazioni che da tempo denunciano con nettezza il pericolo. Dalle risposte di Giorgia Meloni in queste ore non viene un messaggio rassicurante: avanti tutta. Un messaggio alla maggioranza e al governo, uno schiaffo a quanti chiedono rinvii, prudenza, ripensamenti.
RESTA SOLO il referendum abrogativo, certo sulla base delle firme già raccolte, anche se continueremo a chiedere di firmare. È già campagna elettorale. Per convincere a votare occorrono centinaia di migliaia di persone convinte, coinvolte e convincenti. La raccolta di firme conferma che a questo si può arrivare.
Se Meloni dichiara che si continua vuol dire che punta ad un referendum senza quorum. Già visto quando qualcuno consigliò di andare al mare, senza fortuna. Se gli elettori capiscono che c’è il trucco reagiscono e in questo caso c’è ragione di fiducia, se riusciremo a far capire che è importante votare, che l’obiettivo vale, perché si bloccherebbe una legge sbagliata concessa alla Lega per restare al potere ma che farebbe danni enormi all’Italia, così il quorum dovrebbe esserci.
Non è una certezza ma è possibile e il giochetto furbo di Meloni potrebbe evaporare, anche perché facendo due conti con poco più di 25 milioni di votanti ci sarebbe il quorum e chi spinge per in non voto fa una scelta furba ma solo se il quorum non ci fosse. Inoltre come spiegherà che propone di votare per eleggere il capo del governo stravolgendo la Costituzione ma di non votare al referendum?
AMMETTIAMO, sperando che non sia così, che il quorum non ci sarà ma ci saranno più di 12.300.000 No nell’urna, cioè più dei voti che la maggioranza di destra ha preso nel 2022. Si scoprirà a quel punto la semplice verità che una maggioranza raccogliticcia, per il potere, ha ottenuto con il 44 % dei voti il 59 % dei parlamentari che usa come una clava per fare passare tutto, compresa l’autonomia regionale differenziata.
Con quale diritto una maggioranza parlamentare posticcia e pasticciona può pretendere di mandare avanti questa legge Calderoli ? Per attuare la Costituzione ? Certo ci sono articoli del titolo V del 2001 come il 116 e il 117 che andranno cambiati perché si sono rivelati sbagliati, tanto che Calderoli li strumentalizza, ma la Costituzione non è solo gli articoli 116 e 117, anzi queste riscritture sono altro dai principi fondamentali che una parte importante di questa destra mal sopporta, tanto che vuole cambiarla in punti decisivi o consente a una sua parte di stravolgerla pur di restare al potere.
Bene ha fatto la Puglia a sottoporne l’incostituzionalità alla Corte, speriamo seguano altre, i presidenti Occhiuto e Bardi non hanno nascosto il loro disagio ma potrebbero fare di più, ad esempio sostenere il referendum e presentare la loro istanza di incostituzionalità alla Corte
Commenta (0 Commenti)Riforme. L’ex Guardasigilli a capo del Comitato per il referendum: «A rischio la sopravvivenza della nostra Costituzione nella sua interezza»
Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia nel primo governo Prodi e presidente della Corte Costituzionale fino al 2009, da due settimane presiede il comitato per i referendum contro l’autonomia differenziata.
Qual è la posta in gioco?
È un incarico impegnativo, non solo perché si tratta di aiutare un coordinamento per la raccolta organica delle firme, ma per la posta in gioco che è quella di salvaguardare la Costituzione di fronte a una prospettiva di riforma che minaccia di sconvolgere completamente il tessuto costituzionale. Ho accettato l’incarico perché credo profondamente nella Costituzione, nella sua validità, ci ha dato 75 anni di libertà e di progresso. È profondamente attuale, anche se deve essere ritoccata; in alcuni punti è stata attuata male, come quando nel 2000 si è cercato di introdurre una riforma concettualmente sbagliata che adesso viene utilizzata per portare avanti l’autonomia differenziata.
Si riferisce alla riforma del Titolo V
Sì, all’introduzione di un federalismo competitivo e non solidale come lo vede la Costituzione nell’articolo cinque in cui si parla dell’unità e indivisibilità della Repubblica e del favore per il decentramento.
La destra esprime dubbi sul fatto che i quesiti possano essere accolti dalla Consulta.
Non faccio profezie; mi limito a esprimere l’esperienza di uno che ha lavorato come giudice della Corte Costituzionale. La richiesta del referendum è prevista esplicitamente dalla Carta per consentire di manifestare la propria contrarietà alla legge che è stata appena approvata, invece di manifestarla con agitazioni di piazza. È una forma di dissenso importante e riconosciuta al popolo e alla sua sovranità.
I numeri delle firme sono confortanti.
Non dobbiamo montarci la testa e pensare che ormai sia fatta: questo è soltanto il primo piccolo anche se fondamentale gradino per mettere in moto un meccanismo di espressione della volontà popolare. E deve incontrare una serie di altre soglie, di controlli, il primo dei quali è la valutazione della ammissibilità da parte della Consulta. Poi ci sarà poi la prova del nove: bisognerà andare ai seggi.
Quali sono i motivi di questa partecipazione?
Il primo, a me sembra, è quello che si mette in pericolo la sopravvivenza della Costituzione nella sua interezza. Il secondo è che tutti, anche chi si oppone al referendum, continuano a riconoscere che la riforma del Titolo V voluta dal centro sinistra per contrastare le prospettive federaliste della lega e fatta in gran velocità, è stata un disastro. Questa legge ne ripropone gli stessi difetti. Di fronte all’errore commesso allora non era il caso di insistere. Errare humanum est ma perseverare è ancor più preoccupante.
Intanto non si vedeva da tempo un fronte così compatto come per il referendum.
Questo mi pare importante e positivo, perché testimonia un desiderio di cambiare registro, di far rivivere la partecipazione, di non andare avanti con leggi prive di organicità, incomprensibili, di difficile attuazione, delle quali non sono chiari costi e conseguenze. Ci sono forti perplessità sulla valutazione dei costi, anche da parte della Banca d’Italia e dell’ufficio di bilancio del Senato oltreché da parte di chi si è dimesso dalla commissione per l’indicazione dei Lep (Livelli essenziali di prestazione) pur avendo un notevole esperienza in materia. La mobilitazione dei partiti e dei sindacati mi sembra opportuna: è un modo di collegare questo discorso a tutte le altre istanze che devono essere attuate in Parlamento e nel Paese e quindi può avere un effetto propulsivo per la partecipazione E può aiutare soprattutto perché oggi tutto quello che è l’intervento di mediazione dei corpi intermedi ha finito per essere quasi eliminato.
Lei ha messo la sua biblioteca a disposizione del carcere di Rebibbia.
Ho fatto questa scelta alla luce dell’esperienza di ministro della Giustizia e soprattutto nei nove anni in cui sono stato alla Corte Costituzionale. Sono convinto che la drammaticità del carcere renda assoluta necessaria un’apertura tra carcere e realtà esterna; faccia capire a chi è fuori che cosa c’è nel carcere e a chi è dentro quali sono le attese che la società ha per riammetterlo in essa. Ci sono rivolte in continuazione, suicidi e si continua ad andare avanti con piccoli interventi nella logica dell’emergenza mentre il governo introduce reati nuovi per rispondere in apparenza a domande di sicurezza. Non ci siamo proprio. Il decreto Nordio e la legge di riforma del sistema giudiziario in approvazione non affrontano e non risolvono in alcun modo il problema del sovraffollamento, mentre all’abolizione dell’abuso di ufficio si sostituisce la reintroduzione di un reato cancellato nel 1971 perché presentava gli stessi problemi (il peculato per distrazione).
All’orizzonte c’è anche il premierato.
Premierato e autonomia differenziata sono due questioni molto diverse ma si tengono per mano perché c’è una contraddizione in termini nel fatto di modificare la Costituzione per rafforzare al vertice il centralismo del Presidente del Consiglio (che viene eletto non più dal Parlamento ma viene eletto direttamente dal popolo) e la posizione del Capo dello Stato che invece è eletto Parlamento; mentre alla base si attenta alla coesione attraverso la differenziazione delle regioni in modo generalizzato. Questo abbinamento delle due riforme da un lato può essere interpretato come un do ut des interno alla maggioranza, per rafforzala superando le divisioni che ci sono in essa; dall’altro come una contraddizione logica che si introduce tra il vertice e la base dello Stato.
L’abuso delle decretazione di urgenza la preoccupa?
L’indebolimento del Parlamento non è una novità. È cominciato, ad esempio, con la riduzione del numero dei parlamentari con la motivazione che costano troppo; un discorso che non si dovrebbe mai avviare in una democrazia rappresentativa. E questo indebolimento trova una conferma ulteriore nella procedura dell’autonomia differenziata che prevede per il Parlamento un ruolo pressoché notarile: prendere o lasciare senza possibilità di intervenire nel contenuto dell’intesa e della sua trattativa chiusa tra lo Stato e ogni singola regione. È preoccupante che la Repubblica venga smembrata attraverso una serie di negoziazioni di tipo essenzialmente politico.
La maggioranza è in difficoltà nell’esprimere parole chiare contro il fascismo e il neofascismo stragista.
Un Paese diventa e rimane civile quando ha non una memoria condivisa, ma una memoria comune. La condivisione sarebbe bella se ci fosse, ma è molto difficile che vi si arrivi. Soprattutto in un paese come il nostro che è uscito da una sconfitta disastrosa con la Resistenza e la Liberazione che hanno rappresentato una doppia valenza: la lotta contro il tedesco occupante e le sue atrocità e quella contro il fascismo e contro il rischio di una frammentazione drammatica come quanto si è cercato di fare quella che si è cercato di fare con la Repubblica Sociale Italiana. Le conseguenze che ci sono state sono state superate solo grazie alla Costituzione e all’unità che essa ha portato
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Sant'Anna di Stazzena. Il disconoscimento delle radici fondative della Repubblica pone le basi per il superamento del paradigma valoriale che ha preso corpo dentro la nostra Costituzione
Il monumento per le 560 vittime di Sant'Anna di Stazzema foto GettyImage
Tanto Piero Calamandrei invitava i giovani a recarsi sui luoghi della Resistenza per capire dove fosse nata la nostra Costituzione, quanto oggi quei luoghi subiscono attacchi. Diretti e virulenti, assai spesso, ma anche e non meno minacciosi attacchi carsici e silenziosi.
L’assenza di esponenti del governo alla manifestazione di ricordo della strage di Sant’Anna di Stazzema, nel giorno dell’80esimo anniversario, segnala senz’altro l’incapacità del personale politico contemporaneo di misurarsi, all’interno della sfera pubblica, con i propri limiti, le proprie mancanze e le contraddizioni del vissuto storico dei partiti d’origine.
Restano impietosi, in questo senso, i confronti con i dirigenti della Democrazia Cristiana che, pur sistematicamente contestati e fischiati dalla folla a piazza della Loggia a Brescia come ai funerali delle vittime dell’Italicus o della stazione di Bologna, non rinunciarono a rappresentare il profilo istituzionale che incarnavano da ministri, capi di governo o inquilini del Quirinale.
Più grave ancora, tuttavia, resta il non detto sotteso a questa condotta pubblica.
Il disconoscimento delle radici fondative della Repubblica non è finalizzato “soltanto” ad una revisione strumentale della storia. Non è una battaglia per riscrivere il passato ma è un’azione volta al controllo del tempo contemporaneo ovvero al governo di un presente senza storia. È, anche, attraverso questa pratica pubblica (che parla e comunica con le parti più profonde ed identitarie del postfascismo) che si pongono le basi per il superamento del paradigma valoriale che da luoghi come Sant’Anna di Stazzema ha preso corpo dentro la nostra Costituzione. Quest’ultima è il vero e dichiarato obiettivo finale di questa offensiva.
La matrice: dieci e più storie che legano il Msi alle stragi
Come ha ricordato il capo dello Stato Sergio Mattarella, le radici della Repubblica trovano la loro origine in luoghi come Sant’Anna di Stazzema, teatro di una delle più efferate stragi nazifasciste compiuta durante l’occupazione tedesca in Italia nella Seconda guerra mondiale. Per questo l’assenza del governo, guidato dagli eredi del Msi, alle cerimonie dell’80esimo anniversario dell’eccidio mostra, ancora una volta, l’estraneità del corpo politico post-missino dalla storia della nazione repubblicana. La relazione ostile tra la vicenda della democrazia italiana ed i figli politici di Almirante si è andata manifestando fin dall’insediamento dell’esecutivo tanto sul terreno del fascismo storico (rispetto al lascito della dittatura) quanto su quello del neo e post-fascismo in età repubblicana (rispetto all’eredità missina estranea alla Costituzione fin dalla sua nascita).
Così non stupisce l’impressionante serie di incredibili esternazioni, presto derubricate nel dibattito pubblico nella più bonaria forma delle «sgrammaticature», che dal presidente del Senato Ignazio Benito La Russa alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni; dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano fino al presidente della commissione Cultura Federico Mollicone hanno temerariamente attraversato l’azione partigiana di via Rasella, la strage delle Fosse Ardeatine, (rappresentata come attacco a bande musicali di anziani), la nazionalizzazione della strage delle Fosse Ardeatine (il cui movente sarebbe stato l’italianità delle vittime e non la loro identità politica antifascista), l’equiparazione antifascismo/anticomunismo come nucleo valoriale della nostra Costituzione (dimenticando che a simbolo del contributo essenziale dei comunisti italiani la nostra Carta è firmata da Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente) e infine lo stragismo neofascista degli anni ’70 e ’80, su cui è calata l’interpretazione complottista del «teorema della magistratura contro la destra»
Commenta (0 Commenti)Il rovescio della medaglia. . Un contro-diario olimpico. Cosa succede a Parigi mentre il mondo ha gli occhi puntati sui Giochi
Oggi, giorno di conclusione delle Olimpiadi parigine, è d’uopo ricordare qualche nome. Amara Dioumassy, operaio di 51 anni, padre di 12 figli, è morto a giugno 2023 investito da un camion sul cantiere di Austerlitz, dove si è costruita un’enorme piscina per contenere le fogne della capitale e permettere lo svolgimento delle gare di nuoto nella Senna.
Maxime Wagner, lui, è morto a 37 anni nel 2020, sul cantiere della metropolitana 14, che è stata estesa fino al villaggio olimpico, al nuovo «polo Saint-Denis Pleyel». Per costruire questo nuovo polo modale sono morti nel 2022 Abdoulaye Soumahoro, 41 anni, e Joao Batista Miranda, 61 anni. Jérémy Wasson è morto nel 2020 a 21 anni, sul prolungamento dell’interurbana E. Era in stage.
Franck Michel, camionista di 58 anni, è morto l’8 marzo 2023 sul cantiere della nuova linea metro 16. Seydou Fofana, operaio di 21 anni, è morto qualche giorno dopo, stritolato da un blocco di cemento sul cantiere della linea 17. L’inaugurazione delle nuove linee 15, 16 e 17 era inizialmente prevista per le Olimpiadi. A parte il primo citato, si tratta dei cantieri del Grand Paris Express, il cui completamento era uno dei pezzi forti del dossier che Parigi ha presentato al Cio. Per quanto riguarda i cantieri olimpici «ufficiali», l’azienda titolare ha comunicato che vi sono stati 181 incidenti sul lavoro, dei quali 31 gravi.
Secondo la Cgt, i cantieri olimpici sono luoghi nei quali si è operato un «super sfruttamento dei lavoratori sans papiers». Un fenomeno per il quale «la responsabilità dello Stato è centrale, giacché quest’ultimo rifiuta di metterli in regola» si legge in uno studio pubblicato a dicembre. Sono molte le vicende legate alle Olimpiadi a essere occultate dal carrozzone mediatico che sorregge lo «spirito olimpico». Il 6 agosto, per esempio, mentre un pubblico selezionato si godeva il beach volley sotto la Tour Eiffel, a Bastille la polizia sgomberava manu militari un accampamento di centinaia di famiglie senza casa e minori non accompagnati, lasciati da mesi senza un tetto sulla testa. Una goccia nel mare delle decine di migliaia di «indesiderabili» sgomberati nel corso degli ultimi due anni per fare spazio alle Olimpiadi, che verranno ricordate come un successo dal pubblico e dalle migliaia di giornalisti che hanno potuto assistervi.
Ma per tutti gli altri, non resterà che il rovescio della medaglia: le morti sui cantieri messi sotto pressione dall’evento globale, gli sgomberi per fare spazio alle telecamere del mondo intero, il controllo dello spazio sociale, la repressione, lo sfruttamento.
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Un articolo della testata israeliana 972. Il motivo per cui gli attori internazionali si sono attivati è lo stesso per cui la guerra sta entrando nella fase più pericolosa: alcune vite, e alcuni interessi, contano più di altri
Teheran, una donna passa davanti a un manifesto governativo - Vahid Salem/Ap
Il duplice assassinio del comandante di Hezbollah, Fuad Shukr, a Beirut, e del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, sono stati atti di follia strategica o di deliberata piromania. Mentre Israele ha rivendicato la propria responsabilità per il primo e mantenuto un certo mistero sul secondo, non vi è alcun dubbio che abbia orchestrato entrambi – e persino alcuni dei suoi alleati credono che, questa volta, gli israeliani abbiano esagerato.
I politici israeliani sono stati rapidi a cogliere il pretesto per un attacco di alto livello contro Hezbollah – un attacco missilistico dal Libano che ha ucciso 12 bambini e giovani drusi siriani nelle alture del Golan occupate, per il quale Hezbollah ha negato il proprio coinvolgimento – nonostante i residenti locali protestassero vigorosamente contro gli appelli alla rappresaglia. Shukr e Haniyeh erano certamente membri chiave dei loro rispettivi gruppi, ma Israele sa bene che entrambe le organizzazioni hanno meccanismi interni e piani di emergenza per sostituirli; dopotutto, questi non sono certo i primi omicidi che i due movimenti hanno subito.
Fondamentale è che, come hanno dichiarato Hassan Nasrallah di Hezbollah e l’Ayatollah Ali Khamenei dell’Iran, l’uccisione di due figure di spicco in capitali straniere, eseguita nel giro di poche ore, è stato un messaggio inequivocabile che ha infranto le cosiddette “linee rosse” stabilite tra le parti in lotta negli ultimi 10 mesi. Ora, il mondo trattiene il fiato in attesa di una ritorsione a un gioco di potere non necessario, avvicinandoci sempre più a una conflagrazione come non ne abbiamo viste da decenni.
Gli effetti volatili dell’arroganza militare di Israele sono stati chiari fin dai primissimi giorni dell’“Operazione Spade di Ferro”, la brutale campagna lanciata sulla Striscia di Gaza dopo il mortale attacco del 7 ottobre di Hamas. Ma la politica internazionale ha sempre dato più peso all’uccisione di leader simbolici che a quella di civili.
Infatti, sebbene il 7 ottobre abbia trascinato l’intero Medio Oriente in un vortice violento, ci è stato ripetutamente detto che la soglia di una “guerra regionale” non è stata ancora superata. Gli attori in lotta, insistono gli esperti, stanno ancora giocando un gioco rischioso ma calibrato per ristabilire la “deterrenza” reciproca, consentendo certi livelli di violenza che possono ancora essere letti come un tentativo di evitare il caos totale.
In molti modi, tuttavia, questo è un trucco discorsivo che sminuisce l’orribile verità sul campo: siamo già nel pieno di quella guerra regionale da mesi. La prova è nei corpi e nei detriti che si accumulano a Gaza e nel sud del Libano, e nell’attivazione delle alleanze guidate dall’Occidente e dall’ “Asse della Resistenza” su più fronti – dalle navi da guerra statunitensi nel Mediterraneo alle milizie Houthi nel Mar Rosso, dai raid aerei israeliani in Libano a un attacco missilistico dall’Iran.
Questo conflitto può diventare infinitamente peggiore. Tuttavia, il motivo per cui gli attori internazionali si sono improvvisamente messi in azione la scorsa settimana è lo stesso per cui la guerra sta entrando nella sua fase più pericolosa: che alcune vite, e alcuni interessi, contano più di altri.
Per i governi occidentali, il principale pericolo posto dagli assassinii di Shukr e Haniyeh non è il numero imprecisato di arabi o iraniani che potrebbero essere uccisi in un’escalation delle ostilità. Se non altro, gli ultimi 10 mesi hanno dimostrato che finché i palestinesi erano le principali vittime, una guerra prolungata era uno stato di cose tollerabile, sebbene deplorevole. Di conseguenza, le capitali occidentali, in primis Washington, hanno rifiutato di fare tutto il possibile per frenare i combattimenti, preferendo invece guadagnare tempo affinché Israele tentasse di portare avanti i suoi obiettivi dichiarati a Gaza e in Libano, nonostante fosse chiaro che gli israeliani avrebbero fallito.
Ora, tuttavia, i governi occidentali stanno entrando nel panico. Non temono solo ciò che una escalation potrebbe comportare per l’ordine globale, incluso alimentare il caos della sicurezza e interrompere le catene di approvvigionamento economico. C’è anche la prospettiva molto reale che una tale guerra possa comportare un enorme bilancio di vittime israeliane – e con essa, l’indebolimento senza precedenti dello stato di Israele.
Questo processo di decadimento o è probabilmente cominciato all’inizio del 2023, durante le battaglie interne del paese sulla riforma giudiziaria dell’estrema destra, ma è stato rapidamente accelerato dal 7 ottobre e dall’operazione a Gaza. I pieni danni dell’attuale intervento militare di Israele e la sua perdita di prestigio globale devono ancora emergere, ma un grave attacco di Hezbollah o dell’Iran probabilmente peggiorerà quel declino.
Anche se alcuni in Israele ammettono che l’esercito potrebbe aver esagerato, l’ego nazionale potrebbe costringerli a rispondere di nuovo; il ministro della Difesa Yoav Gallant sta già ordinando all’esercito di prepararsi per una “rapida transizione verso l’offensiva”. Il costante desiderio di regolare i conti e rivendicare una qualche forma di vittoria può prevalere su qualsiasi motivazione per deporre le armi.
Ci si sarebbe potuti aspettare che i leader israeliani riconoscessero l’avvitamento della spirale, con l’economia del paese in calo, l’esercito stanco e lo sfollamento della sua popolazione del nord e del sud. Ma questi leader sono troppo accecati dalle ambizioni ideologiche, dall’arroganza nazionalista e dalla paura per la propria sopravvivenza politica per considerare una via diversa dal militarismo e dalla retorica bellicista.
Non è solo Benjamin Netanyahu, il cui stesso gabinetto per la sicurezza ammette che il primo ministro sta direttamente sabotando un accordo con Hamas per il rilascio degli ostaggi. Da Gallant al Capo di Stato Maggiore delle Idf Herzi Halevi, gran parte della classe politica e militare ha un interesse in una qualche forma di prolungamento del conflitto. Tutti loro erano in carica il giorno in cui Israele ha subito il suo peggior fallimento nel campo della sicurezza da decenni, e tutti stanno combattendo per ripristinare le loro reputazioni, se non le proprie carriere; credono che un’emergenza senza fine possa aiutare a prolungare i loro giorni in carica.
Nel frattempo, i ministri di estrema destra del governo, guidati dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, stanno abbracciando la crisi per perseguire i loro obiettivi messianici. I loro elettori sul campo, principalmente coloni in Cisgiordania, stanno abbinando progressi legislativi per l’annessione formale a pogrom sostenuti dall’esercito contro le comunità palestinesi, consolidando la loro visione della Grande Israele e promuovendo piani per reinsediare Gaza.
Sono proprio questi funzionari che il presidente Joe Biden e altri leader occidentali hanno dotato di quasi totale impunità, nonostante ogni indicazione dei loro scopi ulteriori, dei loro crimini di guerra palesi e persino del crescente risentimento da parte dello stesso pubblico israeliano. Per 10 mesi, i governi più potenti del mondo hanno fatto finta di nulla e si sono dichiarati impotenti, fingendo di avere poca influenza su uno stato che è alla ricerca di più armi, fondi e sostegno diplomatico per la sua offensiva. E Biden, anche se sta rendendosi conto di quanto sia stato “ingannato” da Netanyahu, ha comunque mantenuto aperti i rubinetti degli Stati uniti, assicurando che le redini del potere restino nelle mani dei pazzi e dei piromani.
Ora, Washington e, tra l’altro, i firmatari arabi degli Accordi di Abramo, stanno raccogliendo i frutti amari di uno dei loro più grandi errori: abbracciare l’idea che bypassare i palestinesi avrebbe spianato la strada alla pace regionale. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha frantumato quella convinzione errata, ma l’amministrazione Biden non ha ancora imparato la lezione.
Infatti, gli Stati uniti hanno preferito lanciare attacchi aerei nello Yemen e in Iraq, minacciare i tribunali più alti del mondo e assecondare Netanyahu a Washington con ovazioni, piuttosto che costringere Israele a un cessate il fuoco a Gaza. Il fatto che milioni di manifestanti in tutto il mondo siano scesi per le strade delle città e nei campus per chiedere la fine della guerra fin dai suoi primi giorni, e che l’amministrazione Biden non lo abbia fatto, mostra quanta più lungimiranza abbiano i cittadini comuni rispetto ai decisori seduti alla Casa bianca.
Ma la catastrofe non è inevitabile. Nel vuoto diplomatico lasciato dagli Stati uniti, altri hanno fatto passi avanti negli ultimi mesi per cercare di arginare le conseguenze. Il Qatar sta ancora mediando i negoziati tra Hamas e Israele, nonostante quest’ultimo insulti regolarmente e mini gli sforzi dei suoi ospiti, assassinando ora uno dei principali negoziatori dell’altra parte.
La Cina, che tradizionalmente si teneva lontana da un profondo coinvolgimento nel conflitto, ha facilitato gli ultimi sforzi per la riconciliazione palestinese, quando 14 fazioni, tra cui Fatah e Hamas, hanno firmato una dichiarazione di unità a Pechino il mese scorso. Il nuovo governo britannico guidato dal Labour ha invertito i tagli del suo predecessore all’Unrwa, ritirato le sue obiezioni alle richieste di mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, e sembra essere vicino a sospendere alcune vendite di armi a Israele.
Un dato importante è che la Corte Internazionale di Giustizia abbia riconosciuto la plausibilità di un genocidio in corso a Gaza, ha dichiarato senza equivoci che l’occupazione israeliana è illegale, e ha richiesto azioni decise per porre fine a essa. E il Procuratore della Cpi Karim Khan sta aspettando il via libera per ordinare a Netanyahu e Gallant di comparire al processo all’Aia, insieme al capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar (che, se i rapporti sull’uccisione del comandante Mohammed Deif sono veri, è ora l’unico sospettato di Hamas ancora in vita).
Tutte queste sono misure minime rispetto alla massiccia influenza di Washington, o alle capacità di esercitare pressioni economiche e politiche più serie che altri governi detengono ancora. Ma sono indicatori della direzione infine intrapresa dalla politica internazionale. Gli Stati uniti non devono ritrovarsi a rincorrere questi cambiamenti: per andare avanti devono accettare la verità che il loro alleato più prezioso nella regione – e il potere stesso degli Stati uniti – è stata una fonte più di devastazione che di pace.
I palestinesi, per parte loro, sono in inferiorità numerica, privi di armi e superati dalle forze regionali e globali al di fuori del loro controllo, subendo una campagna genocida più distruttiva della Nakba del 1948. Le campagne di morte di Israele hanno fatto a pezzi ogni famiglia palestinese a Gaza, trasformato gran parte della Striscia in valli di macerie, e condannato 2 milioni di persone assediate, metà delle quali bambini, a una vita di traumi fisici e psicosociali.
Hamas sta sopravvivendo attraverso la sua resistenza armata e i suoi organi politici, ma ha subito pesanti colpi militari, perso gran parte della sua legittimità internazionale dopo i massacri del 7 ottobre, e sta lottando per mantenere il controllo e il sostegno nella stessa Gaza. L’Autorità Palestinese guidata da Fatah ha dimostrato ancora una volta la sua totale incapacità di aiutare il suo popolo, incollata al suo ruolo di forza di polizia dell’occupazione mentre scivola rapidamente nella bancarotta politica e finanziaria.
Tuttavia, i palestinesi hanno anche dimostrato di avere un potere sproporzionato di fronte a queste barriere colossali – e devono esercitarlo di conseguenza. Mentre la priorità principale è garantire la sopravvivenza dei palestinesi a Gaza contro missili, fame e malattie, è anche fondamentale affermare la loro azione politica in un momento in cui attori esterni – dall’esercito israeliano agli stati arabi e occidentali – stanno elaborando piani per dettare il loro destino.
Come tale, la dichiarazione di unità di Pechino è un’iniziativa cruciale, sebbene imperfetta, su cui mobilitarsi. Sebbene il presidente Mahmoud Abbas e i suoi lealisti probabilmente cercheranno di ostacolare gli sforzi di riconciliazione, molti membri di Fatah e Hamas stanno riconoscendo l’urgente necessità di cooperare per ristabilire la loro legittimità e preservare i controllo palestinese delle proprie questioni. La società civile palestinese dovrà esercitare pressioni sulle élite affinché traducano le loro dichiarazioni in azioni concrete, insistendo al contempo sull’apertura di vie per la partecipazione popolare e democratica.
Gli sforzi per stabilire un consiglio di ricostruzione di Gaza, guidato dai palestinesi e sostenuto da aiuti finanziari e tecnici dall’estero, dovrebbero essere elevati per garantire che la Striscia non diventi un campo di gioco per interferenze straniere, né da parte dell’Occidente né dell’Oriente. Sarà anche necessario elaborare un piano per sviluppare un apparato di sicurezza nazionale che integri le forze di sicurezza di Fatah, la polizia di Hamas e altri gruppi armati per avere la capacità e la credibilità per ristabilire l’ordine e la sicurezza tra la popolazione.
Le questioni di stato e i negoziati di pace non dovrebbero essere la priorità o la precondizione di questo programma nazionale: la sopravvivenza, la riabilitazione e la riorganizzazione devono avere la precedenza. E gli attori internazionali devono rispettarlo.
Ma tutto questo avrà poco significato se i palestinesi rimarranno prigionieri delle dinamiche geopolitiche che hanno ostacolato la loro causa per un secolo e portato la regione sull’orlo della calamità. Per quanto i poteri occidentali possano aggirare il problema, un cessate il fuoco a Gaza rimane la pietra angolare per la de-escalation regionale, e la liberazione palestinese il progetto per la speranza regionale.
La Palestina non è certamente il primo epicentro delle battaglie regionali del Medio Oriente, ma potrebbe essere la spaccatura finale che frantuma qualsiasi parvenza di ordine internazionale che non ha impedito una tale guerra. Ciò che accadrà dopo sarà definito da ciò che accadrà a Gaza, e i palestinesi devono impossessarsi degli strumenti per dargli forma.
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La lezione. Una, due, dieci volte, a Gaza City, a Nuseirat, a Rafah...lo schema-Netanyahu: ogni volta che si riapre il tavolo negoziale, un feroce bombardamento lo cristalizza. L’ultradestra ha un peso, ma a decidere è sempre il premier che rifugge l’accordo
La scuola dell'Unrwa distrutta da un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Al Nuseirat - Mohammed Saber/Ansa
Lo schema si ripete da mesi, modello rintracciabile anche in offensive del passato, in Libano nel 2006, nella Cisgiordania della seconda Intifada: quando un cessate il fuoco sembra concretizzarsi, quando il dialogo procede seppur a tentoni, quando i mediatori internazionali a Parigi, al Cairo, a Doha limano dettagli e misurano al millimetro le concessioni all’una o all’altra parte, il governo israeliano sgancia la sua bomba.
Bombarda Gaza e bombarda il tavolo negoziale: due in uno, con una sola azione eclatante, mortifera e umiliante. Il triplo raid sulla scuola al-Tabin a Gaza City ne è l’ultimo esempio, poche ore dopo che lo stesso Netanyahu aveva annunciato l’invio del suo team negoziale al tavolo del 15 agosto, riaperto sull’onda di una rinnovata e disperata impellenza globale.
PARTIAMO dalla fine. Il 13 luglio nella «zona sicura» di Mawasi, lungo la costa sud, una serie di missili ha centrato le tende degli sfollati. Novanta uccisi, un bagno di sangue che Israele ha giustificato con un obiettivo: il capo militare di Hamas, Mohammed Deif. Colpirne uno. Dei 300 feriti molti moriranno nei giorni successivi.
Solo il giorno prima, il 12 luglio, il presidente Usa Joe Biden dava la tregua per «quasi fatta»: «Ci sono questioni complesse da affrontare, ma sia Israele che Hamas hanno concordato sull’impianto generale dell’intesa». Boom.
Il 4 luglio, Netanyahu aveva inviato la sua delegazione al Cairo: secondo indiscrezioni, Hamas sarebbe stato intenzionato a ritirare la sua richiesta principe, il cessate il fuoco permanente come condizione per il rilascio degli ostaggi israeliani. Indiscrezioni confermate il 6 giugno: il movimento islamico rinunciava alla fine definitiva della guerra. Poche ore dopo, i caccia israeliani bombardavano una scuola dell’Onu, la Al-Jaouni di Nuseirat, 16 uccisi.
Il mese prima, l’8 giugno, la strage più efferata: nell’operazione per liberare quattro ostaggi, soldati camuffati da sfollati penetrano nel campo rifugiati di Nuseirat, l’aviazione copre la fuga bombardando a tappeto. Gli uccisi saranno 276. Era trascorsa appena una settimana dalla mossa a sorpresa di Biden: un accordo in tre fasi, proposto secondo il presidente dallo stesso Israele. Netanyahu smentiva, ma gli Stati uniti tenevano il punto, sperando nello scacco matto con la copertura delle cancellerie globali che si erano accodate al piano fino a votarlo al Palazzo di Vetro.
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Il mese di maggio si era aperto con Gaza in bilico: da una parte l’annunciata offensiva su Rafah, casa a 1,5 milioni di sfollati, dall’altra le speranze di un accordo. Il 4 maggio la delegazione di Hamas era al Cairo per discutere la proposta israeliana e aveva avanzato l’idea di un accordo in tre fasi di 40 giorni l’una (spiccavano la richiesta di liberazione di Marwan Barghouti, leader di Fatah, e il rilascio dei primi 33 ostaggi anche senza ritiro delle truppe israeliane). 48 ore dopo, il 6 maggio, Israele lanciava l’operazione di terra su Rafah, occupava il valico, lo dava alle fiamme e lo rendeva da allora inutilizzabile.
Il 31 marzo al Cairo riprendevano i negoziati, sullo sfondo di manifestazioni oceaniche in tutto il mondo e accampamenti nelle università che urlavano quanto la fine della carneficina fosse un obbligo morale. Il 2 aprile l’aviazione israeliana centrava il convoglio dell’ong statunitense World Central Kitchen: sette uccisi, sei stranieri e un palestinese. Le auto, ben riconoscibili, erano state prese di mira in due attacchi distinti, a distanza di un centinaio di metri.
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QUALCHE settimana prima, con il Ramadan alle porte, la rinnovata pressione globale si era arenata su due attacchi consecutivi contro i palestinesi accalcati sui camion di aiuti in transito. Stragi degli affamati che seguivano alla più terribile: il 28 febbraio 114 uccisi mentre cercavano di accaparrarsi sacchi di farina dal fuoco aperto dalle truppe di terra. Prima le pallottole, poi la calca e il sangue che macchiava i sacchi di iuta.
Quella che sarà poi definita «la strage della farina» giungeva dopo un mese intenso, la tregua a un passo. L’apice era stato raggiunto a Parigi il 23 febbraio: si annunciavano «progressi» da giorni, non scalfiti dalla strage di 74 palestinesi a Rafah in un’operazione per liberare due ostaggi.
Il 22 gennaio era stata Tel Aviv a offrire un piano di tregua: due mesi di pausa in cambio di tutti e 130 gli ostaggi in mano ad Hamas. Tempo tre giorni e Israele ha bombardato la sua stessa proposta. O meglio gli ha sparato addosso: fuoco alla rotonda Kuwaiti, nel nord isolato e alla fame, durante la distribuzione di cibo. 25 ammazzati. Il 2 gennaio l’uccisione del numero 2 dell’ufficio politico di Hamas, Saleh Aruri, cristallizzava il dialogo, ripreso appena dieci giorni prima.
NON SONO pochi quelli che leggono nei costanti deragliamenti il modo per compiacere l’ultradestra, fondamentale a tenere in piedi la coalizione di governo guidata dal Likud. Il ministro delle finanze Smotrich, due giorni fa, ha minacciato di far saltare l’esecutivo se Netanyahu fosse giunto a patti con Hamas. Se la pressione dell’ultradestra sovranista ha un peso nelle decisioni del premier (peso che le migliaia di israeliani in piazza da mesi per chiedere uno scambio di ostaggi con Hamas non hanno), è vero anche che il decisore ultimo è lui, Benyamin Netanyahu.
E Netanyahu vuole la guerra per salvare se stesso e portare a termine la missione di una vita, il conflitto aperto con Teheran e la distruzione del suo progetto nucleare. Lo dice il suo ministero della difesa, lo dicono da settimane i suoi negoziatori, costretti a presentare ai mediatori (Egitto, Qatar e Stati uniti) richieste sempre nuove e improvvisate: a far deragliare il dialogo è sempre Mr. Sicurezza
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