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Palazzo Chigi Giorgia Meloni così come i suoi predecessori, tutti uomini, non è una «premier» se non per chi, come noi, fa i giornali e litiga tutti i giorni per lo spazio nei titoli. Eppure si muove e la lasciano muovere come tale, anche se la sua rivoluzione costituzionale, il «premierato», dorme dimenticata in senato da sette mesi

Un’opera di Luciano Fabbro Un’opera di Luciano Fabbro

«Dirige la politica generale del governo, mantiene l’unità di indirizzo politico, promuove e coordina l’attività dei ministri». Questo e non quello di “capa” del governo è il ruolo della presidente del Consiglio dei ministri per la nostra Costituzione; è una «prima tra pari» secondo la nota formula voluta per scongiurare gli eccessi di potere che nella storia del nostro paese sono diventati tragedia.

Giorgia Meloni così come i suoi predecessori, tutti uomini, non è una «premier» se non per chi, come noi, fa i giornali e litiga tutti i giorni per lo spazio nei titoli. Eppure si muove e la lasciano muovere come tale, anche se la sua rivoluzione costituzionale, il «premierato», dorme dimenticata in senato da sette mesi, potendo essere già applicata nella sostanza senza bisogno di essere approvata nella forma.

La presidente del Consiglio non solo non ha «promosso» né «coordinato» il lavoro dei suoi ministri, ma li ha tenuti all’oscuro di ogni cosa quando ha deciso di andare a chiedere direttamente lei, dall’altra parte dell’oceano a casa Trump, il permesso di provare a liberare Cecilia Sala. Non le è stata risparmiata la visione del polpettone complottista, ma almeno ha riportato a casa l’autorizzazione a perseguire l’interesse nazionale – speriamo efficacemente e vedremo fino a che punto. Intanto ha già rivendicato il «successo personale» dove «personale» è la chiave di tutto.

Che Giorgia Meloni si fidi poco dei suoi alleati non era un mistero, anche prima che cominciasse a muoversi di soppiatto per non farsi scoprire da loro o per bruciarli sul tempo. Tant’è che ogni qual volta deve scegliere qualcuno o qualcuna per un incarico comincia dal guardarsi attorno, prima i parenti poi gli amici stretti. Spesso va a finire che il premiato, fidatissimo, poi la esponga a brutte figure ed è proprio questo il rischio delle scelte «personali» mai filtrate dal confronto. Se c’è un problema, e ce ne sono continuamente, la soluzione della presidente del Consiglio è sempre accentrare. Vale per i servizi segreti come per gli emendamenti alla legge di bilancio, per la cabina di regia sul Pnrr come per l’elezione dei giudici costituzionali (ricordate «siete tutti convocati»): ogni cosa si decide a palazzo Chigi e tra pochi intimi.

Quando poi la soluzione si rivela sbagliata, anche questo succede continuamente, se per esempio si apre una crisi al vertice dei servizi di sicurezza nell’immediatezza della notizia che una giornalista italiana è stata presa in ostaggio in Iran, se interi settori fondamentali – scuole, ospedali, trasporti locali – si scoprono privati delle risorse necessarie per andare avanti, se gli investimenti effettivi del Pnrr sono fermi al 26% quando è trascorso il 70% del tempo a disposizione, se non si riesce a trovare un accordo per l’elezione dei giudici e la Corte costituzionale corre persino il rischio di non poter lavorare, la colpa non è mai del metodo «personale», cioè privato, ma di chi non lo accetta o non si adegua. O semplicemente ne evidenzia i già evidentissimi limiti.

La debolezza di Giorgia Meloni, di cui vediamo gli effetti proprio mentre altrove se ne esaltano (e si auto esaltano) i successi, sta precisamente nel suo limite iniziale, mai corretto anche se siamo quasi a metà mandato. La sindrome dell’accerchiamento che prima valeva solo nei confronti dell’opposizione, poi di parte della sua maggioranza, poi di tutta la sua maggioranza, vale adesso anche nei confronti del suo partito e dei collaboratori che ha scelto direttamente lei.

Una debolezza spacciata per forza che la riforma costituzionale del premierato può solo cristallizzare, consegnandole i pieni poteri ma non certo la capacità di saperli impiegare. Un «premierato assoluto» secondo la definizione di un grande giurista che si trovò a contrastare riforme non troppo diversa da quelle che cerca Meloni. Prospettiva preoccupante nel suo significato corrente di premierato totale e onnipotente, ma ancor più nel suo significato letterale di premierato sciolto da ogni vincolo. Solitario, come quello che nei fatti abbiamo già.