Parigi e noi. Chi può credere, guardando a quello che avviene in Francia, che l’elezione diretta sia sinonimo di «farla finita con i giochi di palazzo» come continua a ripetere Meloni? Il sistema […]
Chi può credere, guardando a quello che avviene in Francia, che l’elezione diretta sia sinonimo di «farla finita con i giochi di palazzo» come continua a ripetere Meloni? Il sistema istituzionale francese non è quello che la destra al governo sta provando a far passare qui da noi, ma ne contiene i difetti. Del resto Meloni e meloniani presentano il loro cosiddetto premierato, creatura sconosciuta al resto del mondo, come una versione attenuata del presidenzialismo: quella sarebbe stata la loro prima scelta se non fossero stati costretti a fare dei compromessi (ma compromessi non ne hanno fatti e il premierato se lo sono votati da soli).
Come prova drammaticamente la Francia e come scopriremo qui da noi – ammesso e non concesso che la riforma costituzionale passi definitivamente – elezione diretta di un capo e parlamentarismo non stanno insieme. A Parigi ha più o meno funzionato fino a che il doppio turno ha assicurato una maggioranza certa e il presidente della Repubblica francese ha compiuto scelte obbligate, così tenendo in secondo piano la sua natura che è quella del giocatore non dell’arbitro. Ora Macron sta giocando, pesantemente, con l’obiettivo evidente di tenere lontana la sinistra dal governo. Anche se per riuscirci dovrà definitivamente far cadere l’inganno in forza del quale si è lungamente presentato come barriera alla destra estrema.
Questo è il vantaggio, tattico, di Mélenchon, che lo sfida a votare insieme a Marine Le Pen la sfiducia a Lucie Castets, e per questo ne pretende l’incarico a prima ministra. D’altra parte anche il capo insoumise ha le sue contraddizioni, perché non è possibile battersi per un ritorno del parlamentarismo e insieme chiudere a ogni mediazione sul programma ed esigere la guida del governo in nome della «vittoria» alle elezioni. In un sistema parlamentare, appunto, chi arriva primo alle elezioni non le ha «vinte» se non mette insieme una maggioranza per governare.
Eppure, per tornare ai paragoni con casa nostra, se criticammo il presidente Napolitano perché nel 2013 non volle dare l’incarico a Bersani al quale mancavano solo pochi voti in una sola camera, a maggior ragione è criticabile Macron tantopiù che in Francia non esiste lo scoglio della fiducia iniziale al governo e non sono mancati, anche recentemente, governi di minoranza. Napolitano aveva una sua agenda non dichiarata (ma riconoscibile e purtroppo realizzata, le larghe intese), Macron ne ha una dichiarata proprio in virtù del diverso sistema istituzionale. Sistema che ha ancora tanti estimatori qui da noi ma che evidentemente non funziona.
Quanto al premierato, non si tratta affatto di una versione soft del semi presidenzialismo, ma di un sistema nuovo, ibrido, che prende il peggio dai sistemi puri.
La cervellotica riforma firmata dal governo che approderà presto alla seconda lettura non esclude affatto l’eventualità che entrambe le camere o una soltanto non siano in sintonia con il capo eletto direttamente. Per escluderlo la riforma avrebbe bisogno di essere accompagnata da una legge elettorale sulla quale permane il mistero, ma talmente maggioritaria da andare certamente a sbattere contro i paletti fissati dalla Corte costituzionale. Anche in quel caso la disciplina sarebbe imponibile solo in partenza, la riforma contemplando ogni possibile sgambetto e ribaltone successivo.
Più che un capo plebiscitato per governare con certezza, la riforma Meloni rischia così di creare la figura dell’eletto dal popolo che può a lungo lamentarsi perché lo ostacolano. In pratica una figura di «prima vittima» che può agevolmente ricordare qualcuno, o qualcuna. E in tutto questo la nostra Costituzione continuerebbe a prevedere la figura di un presidente della Repubblica, a quel punto svuotato di reali funzioni e probabilmente dedito a pettinare i crini dei corazzieri
Commenta (0 Commenti)
Immigrazione. Dunque come raccontato dal manifesto il tribunale di Palermo ha convalidato il provvedimento del questore di Agrigento che dispone la detenzione amministrativa di un richiedente asilo della Tunisia – «paese […]
Dunque come raccontato dal manifesto il tribunale di Palermo ha convalidato il provvedimento del questore di Agrigento che dispone la detenzione amministrativa di un richiedente asilo della Tunisia – «paese sicuro» – nel Centro di trattenimento di Porto Empedocle.
La convalida conferma l’avvio dell’attività, sembrerebbe in via sperimentale, per un numero limitato di posti (dieci, e si ha notizia di altri cinque trasferiti ieri), del centro ubicato negli «appositi locali» della struttura hotspot già esistente. Un tentativo quasi simbolico, per nascondere il fallimento del piano rimpatri e il rinvio dell’apertura dei centri di accoglienza/detenzione previsti dal protocollo Italia-Albania.
Non sono note le generalità del richiedente e neppure del suo difensore di ufficio, rimasto silente nel corso dell’udienza svolta con modalità telematica a distanza. Il tunisino era giunto in frontiera a Lampedusa e, a differenza di migliaia di persone giunte nell’isola, avrebbe tentato di sottrarsi ai controlli di frontiera, prima gettandosi in acqua da un barchino e poi tentando di fuggire su un traghetto. Un caso particolare dunque, che permette di profilare il «rischio di fuga» ma che non costituisce un precedente.
A fronte del calo degli arrivi infatti l’hotspot di Lampedusa opera ormai come un centro chiuso, dunque una vera struttura di trattenimento amministrativo, e i trasferimenti avvengono più rapidamente che in passato.
Il giudice del tribunale di Palermo che ha convalidato la detenzione amministrativa del richiedente asilo tunisino prospetta un’interpretazione particolare del decreto del ministro dell’interno del 5 agosto 2019, che prevede la provincia di Agrigento tra le zone di frontiera dove si possono predisporre centri per l’esame delle domande di asilo con procedura accelerata.
Vale a dire che per quanto fisicamente l’ingresso nel territorio dello Stato sia avvenuto a Lampedusa, si ritiene possibile considerare Porto Empedocle (luogo di successivo trasferimento del richiedente asilo) «zona di frontiera o di transito» dove «decidere … sul diritto del richiedente di entrare nel territorio». La forzatura si collega a quanto previsto dal «decreto Cutro» (legge n.50/2024) e apre una serie di dubbi sul rispetto del dettato costituzionale e delle leggi europee in materia di protezione internazionale. Sembrerebbe che il tribunale di Palermo, con riferimento a trasferimenti forzati interni alla provincia di Agrigento, sulla base di decreti ministeriali che non hanno forza di legge, applichi la «finzione di non ingresso nel territorio dello Stato», che non è ancora prevista dalla normativa euro-unitaria, pur essendo richiamata nel nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo e nei Regolamenti che saranno applicabili entro il 2026 – che a oggi non hanno valore normativo. Tale finzione incide direttamente sulla libertà personale, con una enorme discrezionalità attribuita al questore che trasferisce il richiedente asilo da un centro a un altro (sia pure all’interno della stessa provincia e non tra diverse province, come si era verificato nei casi decisi dai giudici Apostolico e Cupri di Catania). Appare violato il principio della riserva di legge (articolo 13 della Costituzione) e manca la base legale del trattenimento amministrativo imposta dall’articolo 5 della Cedu. Sembreranno orpelli inutili per chi si occupa soltanto del contenimento dei richiedenti asilo, ma sono principi base dello Stato di diritto, dunque della nostra democrazia.
La tempistica del procedimento e la partecipazione formale del richiedente asilo all’udienza per la convalida a distanza mediante un collegamento audiovisivo, tra l’aula del tribunale e il centro di trattenimento, hanno messo in evidenza lo svuotamento sostanziale dei diritti di difesa, in contrasto con l’articolo 24 della Costituzione e con le norme procedurali stabilite dalle direttive europee in materia di protezione internazionale, In questo modo, malgrado il decreto ministeriale che modifica entità e modalità della garanzia finanziaria richiesta per evitare il trattenimento amministrativo, questo rimane una misura generalizzata che. Lo schermo della valutazione «caso per caso» è solo formale, in sostanza il trattenimento potrà essere applicata a tutti i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine «sicuri». E su questo punto critico dovranno ancora pronunciarsi la Corte di Cassazione e la Corte di giustizia dell’Unione europea
Commenta (0 Commenti)
Intervista . Marta Battaglia, presidente di Legambiente Sardegna
Parco eolico in Sardegna foto Ansa
«In Sardegna qualcuno accusa la presidente Todde di aver avuto un ruolo nel determinare l’attuale situazione, e la lettera della presidente ai sardi “risponde” a questioni molto regionali, e non mi pare riferita a divergenze o scontri con il ministero», sottolinea Marta Battaglia, presidente di Legambiente Sardegna. Il tema è la stampa sarda vicina alla destra schierata contro la presidente e le rinnovabili per proteggere gli interessi legati alle fonti fossili, come il gas.
Cosa succede?
Una logica emergenziale ha aperto alla candidatura delle imprese per la realizzazione degli impianti senza che fossero realizzati quei passaggi preliminari in capo al ministero e alla Regione sulle aree idonee, cosa che ha generato un “eccesso” ora più difficile da gestire.
A che eccesso fa riferimento?
Il numero di richieste di connessione alla rete elettrica per impianti di produzione da fonti rinnovabili, è importante sottolinearlo. C’è una narrazione, sbagliata, che guarda a questo dato e all’estensione del suolo potenzialmente interessato tralasciando che il rapporto tra le domande di allaccio e i progetti che arrivano a ottenere l’autorizzazione è ben diverso. In mezzo, c’è un lavoro impegnativo di valutazione dei progetti che può portare all’autorizzazione, al rigetto, alla messa a punto e risoluzione di aspetti critici. È l’ordinario lavoro – ma con una mole e concentrazione inusuali – che compete alle strutture pubbliche: ricondurre all’interno della cornice di regole condivise, che tutelano l’interesse pubblico, la legittima iniziativa imprenditoriale.
Qual è il vulnus?
Senz’altro, la mancata definizione per tempo dei criteri per l’individuazione delle “aree idonee”, che dovevano arrivare entro 180 giorni dal Decreto 199, cosa che ha impedito alle Regioni come la Sardegna di legiferare in materia. In merito, è però anche opportuno ricordare che la Sardegna già coordinava il tavolo Energia della Conferenza delle Regioni e che con la Giunta precedente non si è fatto alcun passo in avanti.
La Sardegna a suo avviso è davvero sotto stress da rinnovabili?
Sono diversi gli elementi che mi portano a rispondere che la narrazione intorno a questo tema è scorretta. Oltre all’eccesso calcolato sulle domande di connessione, l’altro elemento sbagliato è l’analisi relativa alla quantità di energia di cui abbiamo bisogno: «Il fabbisogno dei sardi è basso», si dice; «non sono necessari i 6,2 gw di nuova potenza da installare entro il 2030 assegnati alla Sardegna». Questa logica non tiene però conto del fatto che la domanda di energia elettrica è destinata ad aumentare se davvero siamo convinti di voler praticare la strada della transizione energetica. In un futuro prossimo andremo infatti a sostituire il parco auto con macchine elettriche; rafforzeremo le ferrovie, oggi sottodimensionate e alimentate con combustibili fossili; non bruceremo più biomassa per il riscaldamento. Dobbiamo immaginare una Sardegna diversa, che si evolve secondo le direttrici europee.
Quali azioni ritenete prioritarie, a livello regionale?
È fondamentale fare in modo che lo sviluppo delle Fer (fonti da energia rinnovabile) non vada in contrasto con la tutela dell’identità locale. La legge regionale 5/2024 (di «moratoria») in questo senso è chiara: energia e paesaggio, aggiornamento del Piano Energetico Regionale ed estensione del Piano Paesaggistico alle aree interne devono andare di pari passo (e, aggiungiamo noi, anche la pianificazione della risorsa idrica per le potenzialità inespresse sul fronte dell’accumulo di energia). È urgente comporre bene, in maniera partecipata, la mappa delle aree idonee e non idonee per orientare la realizzazione degli impianti dove non impattano sui paesaggi e sui beni identitari, dove non si sostituiscono a un’economia agricola attiva, ma anzi nei luoghi in cui possono trainare azioni di miglioramento (i suoli agricoli in abbandono, le aree da bonificare, le coperture in amianto).
L’università di Cagliari ha stimato in meno dell’1% l’estensione del territorio regionale da mettere in gioco; possiamo sceglierlo bene e insieme, di sicuro abbandonando la «corsa al vincolo» che con tutta probabilità lascerà scoperti e disponibili territori non utili. Infine, è fondamentale essere realisti e informare correttamente la collettività, ad esempio non illudendoci di poter affrontare la politica energetica di una regione con le sole Comunità Energetiche, che per quanto importanti non possono quantitativamente rispondere alle effettive necessità. Se riporteremo il dialogo su un piano di confronto costruttivo la Sardegna vincerà la sfida
Commenta (0 Commenti)
Ok, il prezzo è giusto. Il 12 maggio 1996, a un intervistatore televisivo che le chiedeva se mezzo milione di bambini morti in Iraq fossero un prezzo che valeva la pena pagare, Madeleine Albright – […]
Una famiglia palestinese piange la perdita di un figlio - Fatima Shbair/Ap
Il 12 maggio 1996, a un intervistatore televisivo che le chiedeva se mezzo milione di bambini morti in Iraq fossero un prezzo che valeva la pena pagare, Madeleine Albright – ambasciatrice degli Stati uniti all’Onu e segretaria di stato durante la guerra in Iraq – rispose: «È una scelta difficile ma pensiamo che fosse un prezzo che valeva la pena».
Il 10 agosto scorso, Kamala Harris – prossima, speriamo, presidente degli Stati uniti – ha detto che i civili uccisi a Gaza sono «far too many», davvero troppi. In modo più confuso e ambiguo, anche il presidente uscente Joe Biden ha detto la stessa cosa nel suo discorso alla convention democratica a Chicago.
RICONOSCIAMOLO: ci vuole del coraggio, con l’aria che tira, a suggerire che possa esistere un limite a quello che lo stato di Israele ha diritto di fare in qualunque momento e in qualunque parte del globo. Però forse, visto che ci sono, Harris e Biden potrebbero fare un passo avanti e, sulla scia di Madeleine Albright, chiarire: esattamente a che punto diventano «troppe» le vittime civili? Quale sarebbe un numero non eccessivo di persone ammazzate – ventimila, diecimila, cinquemila…?
Quanti morti ci vogliono per disturbare la nostra coscienza democratica? Qual è la soglia statistica oltre la quale le persone smettono di essere umane e diventano numeri? Qual è la soglia statistica oltre la quale i «danni collaterali» diventano crimini?
Riconoscendo che le cifre delle vittime fornite dal ministero della sanità di Gaza sono «generalmente accurate», un portavoce dell’esercito israeliano spiegava che però almeno 12mila erano combattenti terroristi (cito da Times of Israel). Ora, non so se dodicimila combattenti uccisi sono «troppi»; ma quello che colpisce è che le fonti israeliane dichiarano con orgoglio di avere ucciso anche almeno 25mila non combattenti. Dopo due mesi di guerra, una fonte militare israeliana citata dalla Cnn dichiarava che due civili uccisi per ogni combattente è una quota «tremendamente positiva». Ok, il prezzo è giusto?
Dipende. Siamo tutti d’accordo che dei 695 civili israeliani uccisi nel raid di Hamas il 7 ottobre anche uno solo è uno di troppo (a me paiono «troppi» anche i 373 delle forze di sicurezza, e pure i dodicimila presunti «combattenti» palestinesi. Ma forse sono contaminato da residui di ideologia non-violenta). Comunque, a proposito di proporzioni: fino adesso, il rapporto fra vittime palestinesi e vittime israeliane – variabile a seconda delle fonti usate – è di circa 40 a uno. «Tremendamente positiva»?
La strage di Gaza, quello che sappiamo sul numero delle vittime
Ovviamente, tutto questo vale se continuiamo a contare come vittime solo le persone direttamente uccise in azioni di guerra. Ma – come sapeva l’intervistatore di Madeleine Albright nel 1996 e come ci hanno insegnato eloquentemente Gino Strada e Emergency – la guerra ammazza anche in tanti altri modi e continuerà ad ammazzare anche quando diremo che «è finita».
Secondo la Geneva Declaration on Armed Violence and Development del 2008, approvata da 113 paesi, nelle aree di conflitto armato «per ogni persona che muore per violenza diretta, muoiono per cause indirette da tre a quindici persone». Basta pensare alle crisi sanitarie in atto, tifo, poliomielite, fame e agli ostacoli posti agli aiuti umanitari. Su questa base una lettera pubblicata dalla rivista medica inglese Lancet ipotizzava un fattore di quattro a uno che porterebbe a 186mila il numero dei morti a Gaza. Forse esagerano. Ma se fossero la metà andrebbe bene, Ms. Harris? Novantamila sono un prezzo che vale la pena, Mr. Biden? Con i nostri soldi, con le nostre armi – che facciamo, continuiamo a mandarle?
E noi, quand’è che cominciamo a sentirci turbati? In Cisgiordania, dove in teoria non c’è nessuna guerra, dal 7 ottobre in poi esercito e coloni hanno approfittato dell’attenzione rivolta a Gaza per ammazzare 594 persone. Sono «troppi»? Per capirci: abbiamo commemorato in questi giorni la strage nazifascista di Sant’Anna di Stazzema, 560 persone uccise. Per noi, è una ferita insanabile nella nostra memoria e nella nostra coscienza civile, come ogni crimine simile.
E LA CISGIORDANIA? Persino le autorità israeliane parlano di pogrom; ma i nostri media tacciono e i governi farfugliano qualche parola di biasimo mentre continuano a mandare armi a chi li uccide. E ancora: sappiamo se qualcuno sta contando i morti – «civili» o «combattenti» – in Libano?
Nel frattempo, a proposito di antisemitismo, il più grande arresto in massa di ebrei avvenuto dopo la seconda guerra mondiale in un paese occidentale ha avuto luogo il 22 luglio scorso a Washington.
Circa duecento partecipanti a una manifestazione indetta da Jewish Voice for Peace, in occasione del trionfo annunciato di Netanyahu al Congresso, sono stati arrestati per manifestazione non autorizzata. Duecento ebrei arrestati farebbe notizia dovunque; ma questi non contano. Volevano la fine dei bombardamenti, gridavano che i morti erano troppi. Ma forse, a essere di troppo, erano loro
Commenta (0 Commenti)
Elettorale americana. La candidata dem ha disperatamente bisogno di una tregua in Medio Oriente per evitare l’emorragia di voti tra i giovani. Netanyhau ha un programma opposto
Proteste pro Palestina durante la convention democratica a Chicago foto Will Oliver/Ansa
Kamala Harris suscita, a ragione, l’entusiasmo dei democratici ma da oggi al 5 novembre l’attende un percorso di guerra irto di mine, fili spinati e trappole. Mine che potrebbero esplodere in ogni momento e rovesciare una situazione che sembra oggi positiva per lei e Walz.
La prima trappola, e di gran lunga più pericolosa, si chiama Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano non fa mistero di suoi obiettivi: mantenere il suo Paese in stato di guerra non solo contro i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania ma anche con Hezbollah in Libano e, se si presenterà l’occasione, con l’Iran, dopo l’enorme provocazione di assassinare un leader di Hamas in pieno centro di Teheran.
Tutto questo serve non solo ai suoi interessi di sopravvivenza politica ma anche ad eleggere Trump: Kamala Harris ha disperatamente bisogno di una tregua in Medio Oriente, se non altro per evitare l’emorragia di voti tra i giovani che vedono sfilare ogni sera sui teleschermi le immagini di donne e bambini straziati a Gaza.
A Chicago, la notte delle stelle dem per Kamala Harris
Quindi è perfettamente possibile, anzi probabile, che Netanyahu moltiplichi le azioni militari tra oggi e il 5 novembre, magari riservandosi una qualche sorpresa particolarmente spettacolare alla vigilia delle elezioni. Kamala, fino a che Joe Biden è presidente, ha le mani legate, quindi è particolarmente vulnerabile sul fronte della politica estera. La seconda mina vagante è ben nota, si chiama Elon Musk, con i suoi 200 miliardi di dollari di patrimonio, che intende spendere con generosità per far eleggere una seconda volta Trump. Il primo passo è stato comprare Twitter per l’assurda somma di 44 miliardi e ribattezzarlo X, oltre che trasformarlo in un megafono per l’estrema destra.
X ha circa 450 milioni di utenti attivi, pochi in confronto a Facebook, Instagram o Tik-Tok. Resta però il fatto che è seguito da 95 milioni di americani e che si presta perfettamente a diffondere false immagini e fake news a raffica. Per esempio, grazie all’intelligenza artificiale nei giorni scorsi si è visto un video in cui sembrava che Kamala si rivolgesse non ai suoi sostenitori ma a un’assemblea russa o cinese, davanti a una platea addobbata di bandiere rosse con falce e martello.
Nelle stesse ore, Trump twittava che il padre di Kamala Harris era un «compagno» e un «economista marxista», insinuando che Kamala avrebbe fatto una politica economica ispirata da lui (Donald Harris ha effettivamente scritto, nel 1978, Capital Accumulation and Income Distribution, un libro critico delle teorie economiche ortodosse, ma insegnava all’università Stanford, non proprio un covo di rivoluzionari).
IL TERZO OSTACOLO sulla strada di Kamal è lo stesso, iniquo, sistema elettorale. Due degli ultimi quattro presidenti sono stati eletti da una minoranza dei votanti. Delle ultime sei elezioni presidenziali una è stata rubata al legittimo vincitore dalla Corte Suprema (2000), su una seconda pesa il forte sospetto di manipolazioni del voto che hanno rovesciato il risultato in Ohio (2004), una terza è stata vinta da Trump che aveva ricevuto meno voti della Clinton (2016), mentre l’ultima (2020) ha provocato un tentativo di colpo di stato, il 6 gennaio 2021, che solo per caso non è andato in porto. In tutte, l’integrità del suffragio non era garantita da sistemi di votazione rigorosi e affidabili. Anche il risultato del 5 novembre è quindi nelle mani degli dei.
Tutto questo è la conseguenza del fatto che l’elezione del presidente non dipende dal voto dei cittadini ma da quello dei delegati nel collegio elettorale, eletti stato per stato. È quindi possibile che il candidato che riceve meno voti su scala nazionale ottenga una maggioranza nei cosiddetti swing states, gli stati in bilico dove poche migliaia, o perfino poche centinaia, di voti possono determinare la vittoria.
Quest’anno gli swing states sono i soliti: Pennsylvania, Wisconsin e Michigan al Nord, Georgia e North Carolina al Sud, Arizona e Nevada nel Sudovest. Per il momento Kamala appare in vantaggio dappertutto tranne che in Georgia e North Carolina ma si tratta di margini ristretti, che potrebbero facilmente cambiare nei prossimi due mesi e mezzo. Dal 2000 ad oggi i democratici non hanno mai vinto un’elezione presidenziale in North Carolina, anche se lo Stato si è leggermente spostato a sinistra, e hanno vinto solo una volta, nel 2020, in Georgia, con uno scarto di appena 11mila voti.
Se Trump conquistasse questi due stati, più la Pennsylvania, otterrebbe 270 voti nel collegio elettorale e tornerebbe alla Casa Bianca. Non solo: se perdesse in Pennsylvania ma vincesse in Nevada e Arizona, insieme ad uno dei due distretti del Maine (una concreta possibilità) otterrebbe 269 voti, ovvero una perfetta parità nel collegio elettorale. In questo caso la Costituzione prescrive che il compito di eleggere il presidente passi alla Camera dei rappresentanti, dove ogni Stato avrebbe un solo voto, indipendentemente dal numero dei suoi abitanti e dei suoi deputati. Purtroppo, la maggioranza delle delegazioni degli Stati alla Camera è controllata dai repubblicani, quindi un pareggio si tradurrebbe in una vittoria di Trump.
Come ha detto Alexandria Ocasio-Cortez alla Convention di Chicago, «la democrazia fa miracoli» però quest’anno i democratici dovranno davvero essere capaci di moltiplicare i pani e i pesci come accadde duemila anni fa sulle rive del lago di Tiberiade
Commenta (0 Commenti)
Ucraina/Russia. Zelenksy chiede l'adesione allo Statuto di Roma ma invoca l'articolo 124: nessuna indagine nei prossimi sette anni. A restare fuori, però, non sarebbero solo eventuali crimini ucraini: "via libera" anche a quelli russi commessi sul territorio del paese invaso. Torna l'idea di regole internazionali à la carte, buone solo quando servono contro i nemici
Il presidente ucraino Zelensky insieme alle truppe al fronte - Ansa
Nel 1945 il giudice che avrebbe servito come procuratore capo americano a Norimberga, Robert Jackson, criticando i profili di «giustizia dei vincitori» che le giurisdizioni penali internazionali avrebbero mantenuto da allora per molti decenni, dichiarò alla Conferenza di Londra: «Non possiamo codificare norme penali contro gli altri che non saremmo disposti a vedere invocate contro di noi».
Sembra questa, al contrario, la scelta del governo Zelensky, che ha ottenuto ieri dalla Verchovna Rada l’approvazione della propria proposta di legge di ratifica dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (Cpi). La legge contiene l’invocazione dell’articolo 124 dello Statuto, che stabilisce che «uno Stato che diviene parte al presente Statuto può, nei sette anni successivi all’entrata in vigore dello Statuto nei suoi confronti, dichiarare di non accettare la competenza della Corte per quanto riguarda la categoria di reati di cui all’articolo 8 quando sia allegato che un reato è stato commesso sul suo territorio o da suoi cittadini».
LA PROCURA della Cpi, giova ricordarlo, dal 2022 ha considerato la situazione in Ucraina una priorità assoluta, stanziando la più alta cifra del proprio budget (4,5 miliardi di euro) per le indagini, assegnandovi 42 investigatori, organizzando numerose visite in situ del procuratore e aprendo un country office nel paese. Un paese, però, che non aveva mai ratificato lo Statuto, essendosi limitato a una dichiarazione ad hoc di accettazione della giurisdizione della Corte sul proprio territorio e sui propri cittadini nel 2014 e nel 2015 (una sorta di invocazione di intervento della Cpi consentita anche agli stati che non ratificano il suo trattato istitutivo).
L’Ucraina si è trovata nella singolare posizione di essere al vertice delle priorità della Corte, pur non essendo uno Stato parte. La richiesta di aderire al sistema Cpi ridimensiona questa anomalia, aggiungendone però una ancor più stridente: l’invocazione della clausola dell’articolo 124, ovvero una richiesta di temporanea immunità per crimini internazionali eventualmente commessi da propri cittadini o, problematicamente, sul proprio territorio.
Relitto dei compromessi del 1998, anno in cui lo Statuto istitutivo della Corte fu approvato, l’introduzione dell’articolo 124 fu voluta dalla Francia, che minacciava di non firmare se non fosse stata inserita questa clausola, funzionale a tenere il proprio territorio e i propri cittadini «al riparo» dalla giurisdizione della Corte per sette anni dall’adesione.
L’articolo 124 apparì subito così contrario allo spirito dello Statuto che fu immediatamente destinato (come specificato nell’articolo stesso) a essere emendato nella prima conferenza di revisione del trattato. Nel 2015, quindi, l’Assemblea degli stati parte ha approvato un emendamento di cancellazione dell’articolo, che entrerà in vigore se sostenuto dai sette ottavi degli stati parte (tra quelli che hanno già acconsentito alla cancellazione figura la stessa Francia).
Nella speranza di mettere al riparo propri cittadini da possibili responsabilità per crimini di guerra, quindi, Kiev ha optato per la clausola in via di cancellazione. Tuttavia, anche se accettata, la clausola non potrebbe essere applicata retroattivamente.
QUELLO dell’Ucraina potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol: se l’articolo 124 fosse applicato, non escluderebbe solo la giurisdizione della Corte su possibili crimini di guerra commessi da cittadini ucraini, ma anche su crimini di guerra commessi su suolo ucraino, inclusi quelli contestati alla leadership e alle forze russe. L’articolo parla di crimini di cui sono sospettati cittadini dello Stato e di crimini la cui commissione è sospettata sul territorio dello stato. È indubbio che i crimini di guerra contestati a Putin, Lvova-Belova e ai comandanti delle forze russe rientrino in tale categoria.
Le implicazioni di questo tentativo, tuttavia, non si limitano ai gravi rischi di effetti controproducenti per il diritto alla giustizia delle stesse vittime ucraine. Segnalano, più profondamente, una riproduzione dell’approccio tipico degli Stati uniti al diritto internazionale penale: ci si indigna per i barbarici crimini internazionali dei nemici, proclamando a reti unificate la necessità morale della loro punizione, mentre si mantiene in vigore nella propria legislazione la cd. «Legge di Invasione dell’Aja», che autorizza all’uso della forza armata per liberare cittadini americani o di stati alleati imputati di crimini internazionali e in custodia della Corte.
Persino le norme più elementari di diritto internazionale, ovvero quelle funzionali alla prevenzione e punizioni dei crimini di massa (e di Stato) si dichiarano senza infingimenti buone solo per i nemici e simultaneamente inapplicabili a se stessi.
TRAMONTA così il nucleo di tre secoli di sviluppo della tradizione giuridica illuministico-liberale, cardine dei modelli democratici di giustizia penale, che esigono che sia il tipo di condotta, con il danno sociale che produce e non il tipo di autore, a essere al centro dell’attenzione dei codici penali e delle istituzioni punitive. Al contrario, l’enfasi sui tipi di autore – identificati di volta in volta come nemici «della razza», «della patria» o «della rivoluzione» – fu il tratto distintivo dei modelli punitivi delle esperienze autoritarie e totalitarie.
È un paradosso degno del regresso a cui la guerra ci condanna che siano proprio le forze che si proclamano a difesa delle democrazie a formalizzare e istituzionalizzare nuovi modelli di diritto del nemico, che globalizzano l’etica della diseguaglianza di fronte alla legge e forgiano politiche internazionali che riducono il diritto a strumento di guerra ibrida.
Il nemico totale, la guerra e il diritto del nemico totale sono stati i motori della distruzione della democrazia nel Novecento. Piaccia o meno, è solo l’ultimo a mancare all’appello nell’attuale discorso dominante delle democrazie occidentali. Guerra e democrazia, è una legge della storia, si combattono sempre, spesso all’ultimo sangue. Caduto il bastione dell’eguaglianza di fronte alla legge, anche crimini internazionali e genocidi potranno essere crimini buoni e giusti, purché a commetterli sia la nostra tribù, la tribù delle democrazie
Commenta (0 Commenti)