Autonomia. L’esito favorevole non riguarderà l’abrogazione della norma costituzionale cui si riferisce, l’articolo 116 comma terzo, e men che meno dell’intero Titolo V. Avrà l’effetto di evitare il peggio, lasciando al campo largo di chi si è opposto a Calderoli la responsabilità di costruire il meglio: un modello di regionalismo solidale
Firme per il referendum contro l’autonomia differenziata - LaPresse
Il referendum contro l’autonomia differenziata ha natura dichiaratamente abrogativa. Almeno da questo punto di vista assolutamente in linea con quanto imposto dall’articolo 75 della nostra Costituzione. Nessuna manipolazione del quesito, nessun ritaglio della normativa a fini di introdurre surrettiziamente una nuova regolamentazione, puntuale la ratio che la ispira e la matrice razionalmente unitaria del quesito posto, che, pertanto, risulta «chiaro, univoco ed omogeneo», come richiede la giurisprudenza costituzionale. La domanda è secca: «Volete voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86» (la legge Calderoli)? Si poteva fare altrimenti?
Si poteva fare altrimenti? Certamente: si potevano proporre referendum di abrogazione parziale, si poteva tentare di far cambiare il senso alle parole della legge. Si poteva seguire il suggerimento manzoniano del «sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire», magari al buon fine di superare il vaglio della Consulta, che molti temono data la sua giurisprudenza ondivaga. La scelta dei promotori del referendum è stata un’altra, per una volta improntata alla chiarezza della domanda da sottoporre al corpo elettorale. Un ritorno allo spirito del referendum e alla sua logica dicotomica, Sì o No alla legge vigente.
Ma quali sarebbero gli effetti se si riuscisse ad ottenere l’abrogazione secca della legge Calderoli per mezzo del referendum? Qualcuno ha provato a immaginare gli scenari futuri e in molti hanno utilizzato argomenti ingannevoli o comunque ultronei. Atteniamoci ai fatti. L’abrogazione cancella la legge sottoposta a referendum: nulla più, nulla meno.
NE CONSEGUIREBBE l’abrogazione anche della norma costituzionale cui si riferisce (l’articolo 116, terzo comma)? Ovviamente no, purtroppo essa potrà trovare una diversa attuazione. Certo, il legislatore futuro dovrà tener conto dell’abrogazione intervenuta che definisce sì un vincolo, ma – come ha spiegato la Consulta – meramente «negativo» e certamente non in grado di incidere sul piano costituzionale. Tanto più che la legge Calderoli – a dispetto di quanto viene immaginato da alcuni nella speranza di rendere inammissibile il quesito – non è certamente l’unica possibilità di dare attuazione alla disposizione costituzionale; pertanto, non è qualificabile come costituzionalmente «necessaria» ovvero «obbligatoria».
L’esito referendario tantomeno riguarderà, neppure implicitamente, l’intero Titolo V, come qualcuno paventa (altri auspicano, in verità). Dal punto di vista strettamente costituzionale è necessario ricordare che i referendum abrogativi non hanno la forza di definire un indirizzo politico alternativo ed autonomo, a maggior ragione se quest’indirizzo coinvolge espressamente il piano costituzionale. Tra i maggiori problemi del nostro sistema di democrazia partecipativa v’è proprio quello del seguito dei referendum, che sono stati troppo spesso «traditi».
Già agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso ci si interrogava su come assicurare l’«innesto» dei referendum nella forma di governo parlamentare. In caso, dunque, ciò che si deve auspicare è che dopo il referendum forze politiche responsabili riflettano su quale diverso regionalismo si può attuare in nome della Costituzione vigente, magari cominciando a guardare agli errori commessi e prospettando un modello più solidale e meno competitivo così come chiaramente definito nei primi articoli e nello spirito complessivo della nostra Costituzione. Un modello mai attuato, che – ahimè – non sarà solo un’abrogazione di legge ordinaria a poter direttamente realizzare.
Quel che mi sembra necessario mettere ora, e con realismo, in evidenza sono i due aspetti certi e fondamentali, tra loro collegati, che potranno derivare dall’eventuale successo referendario.
IL PRIMO EFFETTO «diretto» è che si sarà evitato il peggio, anche se non si sarà (ancora?) potuto costruire il meglio. In fondo, sotto questo profilo – solo sotto questo profilo – si possono affiancare i referendum «abrogativi» di legge ordinaria e quelli «oppositivi» sulla legge costituzionale approvata dal Parlamento in via definitiva, ma che può essere oggetto di consultazione popolare ai sensi dell’articolo 138 della nostra Costituzione. Nel 2005 o nel 2016 si è evitato il peggio costituito delle riforme di Berlusconi prima e di Renzi poi, ma non si è certo potuto realizzare il meglio rappresentato dall’attuazione della Costituzione.
Così ora si vuole evitare il peggio espresso dalla legge Calderoli, da tutti – da Italia Viva a Rifondazione comunista – ritenuta non difendibile, ma certo non in grado di definire il meglio di un regionalismo solidale al posto di quello competitivo. Cionondimeno, già questo – la creazione di un campo largo in opposizione al peggio – mi sembra un risultato tutt’altro che da sottovalutare.
Il secondo aspetto è «indiretto», ma forse ancor più rilevante. Riguarda la necessità di dare seguito alla decisione espressa direttamente dal corpo elettorale. Un seguito incerto, ma che potrà contare su dei paletti che possono segnare una profonda inversione di rotta rispetto all’attuale stato delle cose.
Anzitutto, come già accennato, non si potrà ripristinare la normativa abrogata (vincolo negativo), inoltre il riformatore rispettoso dell’esito referendario dovrà ispirarsi a quelli che la Consulta ha avuto modo di chiamare i «principi ispiratori» ovvero non potrà porsi in palese contrasto con l’intento perseguito mediante il referendum. Dal referendum abrogativo non nasce un obbligo di risultato, ma la creazione del vuoto normativo – la distruzione del peggio – favorisce e promuove il cambiamento in direzione contraria, con un potenziale effetto espansivo di straordinaria portata. Non è tutto, ma è molto. Di questi tempi il massimo che si può ottenere per fermare il lungo regresso e ricominciare a pensare altrimenti il futuro. Un fatto «rivoluzionario»
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Nell’affaire Arianna Meloni c’è qualcosa che lascia sbigottiti. Si era abituati, da tempo, ad avvisi di garanzia che uscivano sui giornali prima di arrivare ai diretti interessati, e alla reazione di questi ultimi che gridavano al complotto giudiziario. Schema visto e rivisto dai tempi di Mani Pulite e poi proseguito negli anni della guerra di Berlusconi alla magistratura.
Uno spettacolo poco edificante (soprattutto da parte dei politici indagati) ma almeno comprensibile. Questo caso sembra invece un teatro dell’assurdo: la first sister si dice «scossa» perché un giornale amico ha scritto che forse qualcuno potrebbe indagarla.
L’avviso di garanzia non c’è, neppure il Giornale di Sallusti ne ha notizia. Eppure Arianna Meloni denuncia di essere «vittima di un metodo». Di chi? Non certo di Sallusti, che prima di sollevare il polverone sulla falsa indagine l’ha avvertita. Dunque quale sarebbe il metodo? Quello dei giornalisti che raccontano la sua legittima attività di dirigente di primo piano di Fdi, da lei ampiamente rivendicata? E perché mai sulla sua azione dovrebbe scendere la nebbia?
C’è un’altra domanda che resta senza risposta. Perché la premier di fronte alla notizia di una indagine che non c’è si premura di definirla «molto verosimile», parlando di uno «schema visto e rivisto con Berlusconi? Il Cavaliere di processi ne ha avuti tanti, le sorelle Meloni nessuno. È forse a conoscenza di indagini segrete, o di reati ancora non commessi, come gli infelici sensitivi di Minority Report?
https://ilmanifesto.it/nessuna-indagine-su-arianna-meloni-e-ora-la-destra-vacilla
Quaranta anni dopo. C’è silenzio, un silenzio di tomba. Missili da crociera Tomahawk, missili SM-6 e missili ipersonici vengono dispiegati in Germania, il paese rimane in silenzio, l’Europa tace. Nessuna protesta, nessuna manifestazione
Un murale di Justus Becker a Francoforte «Peace for all mankind»
C’è silenzio, un silenzio di tomba. Missili da crociera Tomahawk, missili SM-6 e missili ipersonici vengono dispiegati in Germania, il paese rimane in silenzio, l’Europa tace. Nessuna protesta, nessuna manifestazione.
La Germania è l’unico Paese in Europa a cui questi sistemi d’arma statunitensi sono destinati. Sono puntati contro la Russia.
Perché c’è tanto silenzio? Perché è estate, perché ci sono le vacanze? Perché la dichiarazione di Stati uniti e Germania sul dispiegamento è incredibilmente concisa e asciutta? È lunga solo nove righe. Il silenzio ha forse a che fare con il fatto che sembra esserci ancora tempo? Dopotutto, il dispiegamento non inizierà prima del 2026. Oppure perché si è convinti che questi missili «porteranno solo pace»?
«In futuro, dal suolo tedesco uscirà solo la pace»: questa è stata la promessa fatta dai due Stati tedeschi nel 1990 con il Trattato “Due più Quattro”. La Ddr e la Repubblica federale erano i due; i quattro erano Francia, Unione sovietica, Gran Bretagna e Stati uniti. Questo trattato ha aperto la strada alla riunificazione tedesca. La pace viene dunque da questi nuovi missili, che potrebbero essere dotati di armi nucleari? Oppure questa promessa ha assunto un significato diverso dopo la guerra in Ucraina, perché la deterrenza è ora più importante del disarmo? I tempi sono diventati così guerreschi che non ha più senso parlare di disarmo? La parola pace ha perso il suo fascino?
Dietro questi punti interrogativi c’è il silenzio.
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Il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che reagirà in modo «speculare». Quando a un’azione minacciosa si reagisce con una minaccia maggiore, e gli avversari hanno contro-reazioni che si alimentano reciprocamente, questa si chiama escalation. L’escalation significherà che i missili a lungo raggio, che in teoria possono essere dotati di armi nucleari, lo saranno anche in pratica. Bertold Brecht aveva messo in guardia da questa corsa al riarmo decenni fa. «La grande Cartagine», scriveva nel 1951, «ha combattuto tre guerre. Era ancora potente dopo la prima, ancora abitabile dopo la seconda. Dopo la terza non fu più possibile trovarla». In una terza guerra mondiale, l’Europa sarebbe come Cartagine, o peggio. I cavalieri dell’apocalisse sono ora armati di armi nucleari.
Il Cancelliere tedesco Olaf Scholz ha definito la decisione di installare i nuovi missili statunitensi in Germania una «decisione molto buona». Deve dire questo perché nel suo giuramento ha promesso di evitare danni al popolo tedesco? Quanto è grande il pericolo che la Germania diventi un campo di battaglia? Era questa la paura che ha segnato le proteste contro il riarmo negli anni Ottanta, quando i missili Pershing II vennero installati nella Repubblica federale.
La guerra nucleare, si diceva allora, durante le grandi manifestazioni, diventava «più precisa e più controllabile» con i missili Pershing; la soglia di inibizione al loro uso si sarebbe quindi abbassata. I Tomahawk che vengono ora impiegati meritano davvero la parola «preciso». E, a differenza dei Pershing, possono raggiungere Mosca. Questo aumenta o diminuisce il rischio che Mosca cerchi di eliminare questi missili in modo preventivo?
In Germania c’è un tale silenzio che si sente ancora l’eco delle vecchie proteste, quelle di allora, quando in tutta Europa c’era un movimento per la pace. Era quaranta, quarantacinque anni fa. Allora milioni di persone scesero in piazza con lo slogan «No alla morte nucleare» e protestarono contro la «doppia decisione» della Nato di installare i missili e avviare trattative con Mosca. In Germania, questo era il tema centrale delle proteste, con la manifestazione pacifista all’Hofgarten di Bonn dell’ottobre 1981, seguita dai numerosi blocchi contro i trasporti dei missili a Mutlangen. Tra chi ha sbarrato le strade ai missili c’erano scrittori come Günther Grass e Heinrich Böll, uomini e donne di chiesa, artisti e docenti universitari, e poi grandi masse di persone senza nome.
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In quel periodo, al tempo dei movimenti per la pace, il disarmo arrivò anche nel sistema giudiziario tedesco: nel 1995, la Corte costituzionale federale stabilì che i blocchi effettuati dai sit-in non costituivano violenza. Le sentenze contro chi aveva bloccato i missili dovettero quindi essere annullate. Era molto tempo fa. Ma nel 2010 il Bundestag ha deciso a larga maggioranza che il governo Merkel avrebbe dovuto fare una campagna «vigorosa» per il ritiro di tutte le armi nucleari statunitensi dalla Germania. Anche questo era molto tempo fa. I missili Tomahawk di oggi sono meno pericolosi perché più precisi e veloci dei Pershing del passato? Oppure la situazione mondiale è così pericolosa che dobbiamo accettare di vivere con la paura che – se il peggio dovesse accadere – in Germania potrebbe non restare in piedi nemmeno una pietra?
Oggi la paura paralizza. All’epoca alimentava le proteste, ma oggi ne assorbe l’energia. Molte persone si spengono completamente quando si parla di guerra, armamenti e armi, perché hanno la sensazione di trovarsi di fronte a una montagna che non riescono a vedere perché diventa sempre più alta. Questo si chiama mancanza di speranza. E alcuni evitano di lottare per il disarmo perché non vogliono essere visti come amici di Putin.
Il ministro della difesa Boris Pistorius sostiene che c’è un «gap di capacità» per giustificare il rafforzamento militare. Ma anche il movimento per la pace soffre di un «gap di capacità». Ha perso la capacità di protestare in nome della speranza.
In Europa dobbiamo imparare di nuovo che cos’è la pace. Non c’è sicurezza con una spesa militare ancora più alta, né con un numero ancora maggiore di carri armati, né con un numero ancora maggiore di testate nucleari. La sicurezza non raddoppia se si raddoppiano le spese militari e le armi. Non si dimezza se si dimezzano le spese e le armi. Aumenterà se i due avversari imparano a guardarsi a vicenda. È così che possiamo imparare di nuovo come fare la pace.
*Heribert Prantl è editorialista del quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung. Il 3 e 4 settembre prossimi terrà alla sala concerti di Bolzano tre conferenze sulla stampa, la guerra e la pace.
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Gaza. Come nel 1948 radere al suolo città e villaggi serve a ostacolare la rinascita della comunità. Netanyahu è l’unico primo ministro israeliano, dagli anni ’70 a oggi, a non aver mai portato a termine un accordo con i palestinesi: non c’è motivo di pensare che inizierà ora
Una donna lascia Khan Younis dopo l’ordine israeliano - Ap/Abdel Kareem Hana
Nell’agosto di 76 anni fa, le autorità israeliane formalizzarono il «Comitato di trasferimento», finalizzato a impedire il ritorno dei profughi palestinesi e a favorire il loro assorbimento permanente nei paesi limitrofi. Venne accompagnato da una serie di politiche volte a ripopolare decine di villaggi palestinesi – ne vennero sfollati 418 – con migliaia di olim khadashim («nuovi immigrati») arrivati in Israele per lo più nei mesi precedenti e nei quattro anni successivi a quegli eventi.
LARGA PARTE dei profughi palestinesi non si riversò tuttavia nei paesi limitrofi: “preferì” accamparsi lungo la cosiddetta striscia di Gaza, con la speranza di tornare il prima possibile nelle loro case. Negli ultimi mesi, soprattutto nel nord della striscia di Gaza, dove risiedevano 1,2 milioni di palestinesi e dove ne restano circa 200mila, l’esercito israeliano ha detonato e raso al suolo intere aree e quartieri: la storia, parafrasando Mark Twain, non è mai uguale, ma sovente fa rima.
William Dalrymple ha scritto che le «operazioni di distruzione» in corso ricordano «lo stile di Gengis Khan». Al di là della provocazione, mirano anche, se non soprattutto, a convincere una larga parte dei palestinesi – almeno 115mila gazawi hanno raggiunto, previo pagamento di ingenti somme, l’Egitto – ad abbandonare ogni speranza di poter tornare nelle loro case. Queste ultime, semplicemente, non esistono più.
Ciò non stupisce. Sei giorni dopo l’attentato compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023, il presidente israeliano Isaac Herzog era stato chiaro: «Non ci sono civili innocenti a Gaza. C’è un’intera nazione là fuori che è responsabile». Già due mesi più tardi, in data 9 dicembre, un’inchiesta congiunta del Guardian e di Haaretz documentava che «la proporzione di morti civili nella Striscia di Gaza è superiore a quella di tutti i conflitti mondiali del XX secolo».
Tali dati sono peraltro in linea con quelli pubblicati cinque mesi più tardi dall’Onu, secondo cui «almeno il 56% dei palestinesi uccisi nella guerra di Gaza è composto da donne e bambini»: ad essi vanno aggiunti i giovani uomini e gli adulti che non hanno nulla a che vedere con Hamas e le altre fazioni militari palestinesi.
La ragione per la quale una parte dei 16mila bambini palestinesi uccisi negli ultimi dieci mesi non presenta ferite visibili («sembra quasi che dormano») è riconducibile all’utilizzo di bombe termobariche: queste ultime utilizzano l’ossigeno dell’aria circostante per generare esplosioni ad alte temperature.
Nonostante le chiare evidenze, alcuni minimizzano o mettono in dubbio la strage di bambini in corso: i «negatori della realtà» sono sempre esistiti e vanno inquadrati come tali. Altri giustificano l’uccisione di decine di migliaia di civili sostenendo che essi sono usati come «scudi umani» da Hamas.
LA LEGGE INTERNAZIONALE – così come il buon senso – non contempla il diritto di bombardare e radere al suolo interi edifici pieni di civili sulla base della presunta presenza di uno o più terroristi. A ciò si aggiunga che le autorità israeliane hanno nascosto armi e gruppi terroristici all’interno di ospedali e sinagoghe fin da prima della fondazione dello Stato: ciò viene ricordato anche in diverse placche commemorative esposte a Tel Aviv e altre città israeliane.
Ultimo ma non meno importante: esistono decine di video a riprova del fatto che i palestinesi – compresi giovani uomini e bambini – sono sovente utilizzati dai soldati israeliani come scudi umani durante le loro operazioni militari.
Nonostante queste considerazioni, i dati apocalittici che le sottendono, le crescenti proteste registrate nelle piazze israeliane e i timori per la sorte degli ostaggi israeliani, un cessate il fuoco appare più che mai come una chimera. Netanyahu è l’unico primo ministro israeliano, dagli anni Settanta a oggi, a non aver mai portato a termine un qualsiasi tipo di accordo – di pace o di altro tipo – con i palestinesi: non c’è motivo di pensare che inizierà ora.
Al contrario: è proprio per la sua pluridecennale avversione a un qualsiasi accordo che il primo ministro israeliano può contare sul pieno sostegno di Otzma Yehudit (Potere ebraico), il partito guidato dal ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, condannato nel 2007 in via definitiva da un tribunale israeliano per incitamento razziale e sostegno al terrorismo.
Eppure, un cessate il fuoco appare più che mai necessario. Non solo in quanto garantirebbe il ritorno a casa degli ostaggi israeliani ancora in vita e porrebbe fine a una mattanza dai contorni epocali, ma anche perché costringerebbe quanti hanno votato per i partiti al governo in Israele a prendere atto del fatto che l’occupazione permanente dei territori palestinesi e l’oppressione strutturale dei suoi abitanti non porterà alla vittoria auspicata: l’unico modo per vivere in piena sicurezza passa attraverso un compromesso politico che includa anche i diritti dei palestinesi.
E TORNIAMO al contesto, troppo spesso omesso o assente. Se per discutere di ciò che sta avvenendo a Gaza si deve al contempo necessariamente parlare dei crimini compiuti da Hamas il 7 ottobre, ne deve conseguire che per discutere dei crimini del 7 ottobre sia necessario allo stesso tempo parlare del contesto vissuto dalla «controparte».
Ad esempio della pluridecennale occupazione dei territori palestinesi, del fatto che tra l’1 gennaio 2008 e il 6 ottobre 2023 sono stati uccisi 6.407 palestinesi e 308 israeliani, delle migliaia di palestinesi che sono detenuti nelle carceri israeliane senza accuse né processi, del pogrom di Huwara del febbraio 2023, oppure, tra molto altro, dei dati ufficiali forniti dall’Unicef che in data 18 settembre 2023 sottolineava che i primi nove mesi dello scorso anno erano stati quelli con il maggior numero di bambini palestinesi uccisi nella Cisgiordania occupata.
Tutto ciò per dire che il contesto o vale sempre – e sarebbe l’opzione auspicabile – o non vale mai. Studiarlo non è certo un modo per condonare crimini e violenze, bensì un antidoto alle narrazioni facili. La negazione e la disumanizzazione degli “altri” sono ben visibili tanto tra i palestinesi (Hamas ne è solo un esempio) quanto tra gli israeliani (si vedano, tra molto altro, i “principi di base” messi nero su bianco dal governo israeliano il giorno del suo insediamento).
La pluridecennale presenza di un esercito occupante e di milioni di civili sotto occupazione militare è invece una condizione vissuta, rispettivamente, solo da una delle due parti in causa
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Dopo il sabotaggio, al senato Usa Victoria Nuland aveva affermato: «Il Nord Stream 2 ora è un pezzo di metallo in fondo al mare, penso che l’amministrazione Biden sia soddisfatta di saperlo»
Un’inchiesta della magistratura tedesca indica un gruppo di ucraini come responsabili del sabotaggio nel settembre 2022 del gasdotto Nord Stream tra Russia e Germania. Secondo una ricostruzione del Wall Street Journal il presidente ucraino Zelensky era al corrente del piano ma avrebbe ritirato il suo consenso su pressioni della Cia.
La verità forse è meno fantasiosa ma sta sotto gli occhi di tutti. All’indomani del sabotaggio, in un’audizione al senato americano il sottosegretario Victoria Nuland aveva affermato: «Penso che l’amministrazione Biden sia molto soddisfatta di sapere che il Nord Stream 2 sia ora un pezzo di metallo in fondo al mare».
Perché è esattamente questo che hanno sempre voluto gli Stati uniti. Si tratta della “guerra dei gasdotti”, un conflitto tra Usa e Russia che viene da lontano. Negli anni Duemila Eni e la russa Gazprom avevano realizzato la pipeline Blue Stream che trasportava il gas dalla Russia alla Turchia attraverso il Mar Nero. E già questo agli americani era piaciuto assai poco. Poi l’Italia nel 2007 (governo Prodi) aveva sottoscritto un altro accordo tra Eni e Gazprom per realizzare il South Stream, un nuovo gasdotto per connettere direttamente Russia e Unione europea, eliminando dal transito ogni Paese extra-comunitario. Il progetto, per il quale Berlusconi aveva raggiunto nel 2009 un‘intesa direttamente con Putin, fu sospeso nel 2014 per le sanzioni a Mosca in seguito all’annessione della Crimea.
Il South Stream venne quindi sostituito dal Turkey Stream, una pipeline realizzata con l’accordo tra Putin ed Erdogan, per altro su fronti contrapposti in Siria, Libia e nel Caucaso. Putin allora fece anche a Erdogan un bello sconto del 6% sulle forniture del gas e la cosa agli americani piacque ancora meno e continua a piacere poco, visto che Ankara è un membro storico della Nato che non applica sanzioni a Mosca.
Figuriamoci poi se Washington poteva gradire il legame tra il gas russo e l’Europa rappresentato dal Nord Stream 1 e 2.
Perché per Mosca si trattava di un’opera dal valore strategico? Prima della costruzione dei due gasdotti Nord Stream, il gas russo passava via terra, attraverso i territori di Ucraina e Bielorussia. Una volta in funzione Nord Stream 2 avrebbe consentito a Mosca di trasportare verso la Germania ulteriori 55 miliardi in metri cubi di gas naturale all’anno. La sua caratteristica principale, quella che poco piaceva agli americani, era di bypassare completamente gli Stati baltici, quelli di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria), l’Ucraina e la Bielorussia, spazzando via qualsiasi eventuale pretesa da parte di questi Paesi di fare pressione al tavolo dei negoziati con Mosca.
Per far saltare il Nord Stream 2, prima ancor del sabotaggio del settembre 2022, gli Usa avevano ingaggiato l’uomo giusto, Amos Hochstein, pronto ad approfittare dell’uscita di scena della cancelliera Merkel. Sì, proprio lui, l’attuale inviato americano in Libano. Nato in Israele il 4 gennaio 1973 da genitori con doppia cittadinanza israeliana e americana. Allevato nell’ebraismo ortodosso moderno, Hochstein trascorre infanzia e gioventù in Terra Santa, servendo nelle forze armate israeliane dal 1992 al 1995, per poi trasferirsi negli Stati Uniti. Dal 2011 si occupa dell’Ufficio risorse energetiche del dipartimento di stato diventando il consulente dell’allora vicepresidente Biden sullo spinoso dossier ucraino. Hochstein così entra nel consiglio di supervisione del colosso energetico ucraino Naftogaz. E come tutti sanno il figlio di Biden, Hunter, è stato coinvolto in affari poco chiari nel settore del gas proprio in Ucraina.
Hochstein è lo stratega dell’attacco frontale ai progetti del Cremlino di trasportare il gas in Europa aggirando l’Ucraina. Nel 2021 Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, gli affida i negoziati con la Germania per congelare il gasdotto Nord Stream 2, ritenuto un’arma geopolitica del Cremlino da eliminare. La fine è nota. Il cancelliere tedesco Scholz è convocato alla Casa Bianca l’8 febbraio 2022 e Biden proclama: «Non ci sarà più un Nord Stream 2».
Una giornalista presente in sala domanda: «Ma come lo farete esattamente, dal momento che il progetto è sotto controllo della Germania?». Biden alla domanda risponde: «Ve lo prometto, saremo in grado di farlo».
Il 24 febbraio Putin invade l’Ucraina, da il via al massacro e il gasdotto, come dice la magistratura tedesca, verrà poi fatto saltare da un gruppo pro-Kiev che naturalmente non è uscito fuori dal nulla ma ha avuto una copertura politica internazionale.
La guerra dei gasdotti, oltre ovviamente ai costi umani del conflitto in Ucraina, ha avuto e avrà un prezzo economico, soprattutto se Kiev con l’ultima offensiva controllerà effettivamente la stazione di Sudzha, snodo del gasdotto che trasporta il gas russo in Europa attraverso l’Ucraina. La sintesi della guerra dei gasdotti l’ha appena fatta il presidente di Nomisma Davide Tabarelli: l’Italia e l’Europa pagano il gas 40 euro a megawattora, gli Usa solo 7. E via così, a tutto gas…
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Dopo Parigi. Roma ha questa occasione: portare un'iniziativa politica di pace quando ce n’è più bisogno e dare voce al dialogo, anche e soprattutto perché è il momento più difficile
Alla Tregua Olimpica nessuno credeva, ma i presupposti erano sbagliati in partenza: le Olimpiadi di Parigi si chiudono senza pace e neanche segnali di tregua, e mentre la guerra è entrata nelle dispute sportive sulle maglie degli atleti, nelle assenze o sui cartelli degli atleti in gara, la risoluzione delle nazioni unite del novembre scorso perché si rispettasse l’ekecheiria antica, ossia la tregua così come sancita più di 2.500 anni fa per i giochi olimpici è rimasta lettera morta. Non poteva essere altrimenti, purtroppo. Macron non ci ha mai creduto.
Il nuovo governo francese si giocherà proprio sulla pace, in Europa e in Medioriente, tra poco sapremo se sarà un governo di svolta – dopo aver rischiato il collo di fronte all’exploit nazionalista di Le Pen – o se andrà in porto un accordo di garanzia con tradimenti vari. Ma alle nostre latitudini la questione è un’altra: dove ha fallito Parigi, Roma deve tentare, deve riuscire.
Parigi, troppo interessata a una leadership tutta francese per la Nato non avrebbe, anche prima del risultato elettorale, avuto l’interesse per una conferenza di pace internazionale: una partita geopolitica troppo ambiziosa è in palio. E mentre l’Europa è silente e Ursula von der Leyen si mostra in armi per raccogliere un consenso trasversale, rimane nel vecchio mondo solo il Papa con il Giubileo di Roma ha aprire uno spazio perché la politica, la diplomazia ne approfitti.
Non esiste una pace senza i palestinesi
Roma ha questa occasione: portare un’iniziativa politica di pace quando ce n’è più bisogno e dare voce al dialogo, anche e soprattutto perché è il momento più difficile. Pochi giorni fa la scuola Al Tabin è stata bombardata a Gaza con decine e decine di vittime civili e la trattativa per gli ostaggi è resa sempre più difficile dagli assassini mirati di Netanyahu, oltre che dai bombardamenti. La morte di Ismail Haniyeh, l’uomo di Hamas impegnato nella trattativa, è il segno che il conflitto non troverà via diplomatica a meno di una scossa, nessun attore in grado di costringere a un cessate il fuoco . Dove ha fallito Parigi, Roma deve riuscire.
Un Giubileo dipace, un Giubileo che non sia solo appuntamento morale per il dialogo interconfessionale ma ambisca ad aprire ponti di pace. Spes non confundit, dice Papà Francesco per indirre il Giubileo, la speranza non delude. Ma la politica? Nella crisi degli stati nazionali, in assenza di un Europa autorevole per essere operatrice di pace, in mancanza di un governo autorevole sul piano internazionale, Roma, questo simbolo millenario di incontro, ancora un volta può battere un colpo. Chiamare una conferenza di pace internazionale e costruire un Giubileo dove la politica risponda alle urgenze etiche e morali. La pace innanzitutto. E poi l’accoglienza, la crisi climatica, il diritto a una vita degna.
Le immagini di Parigi impegnata ad espellere i senza tetto sono il riflesso condizionato di un modello di sviluppo spietato, dove vince la legge del più forte. L’amministrazione di Roma, il suo sindaco, la città tutta, possono lanciare un messaggio al mondo. Chiamare una Tavola di pace, interconfessionale, multipolare, autorevole per parlare al mondo con un’unica voce. Chiedere la fine del massacro in Medio oriente, pretendere una via diplomatica in Ucraina. Anticipare forse i nuovi conflitti che si preparano nel Pacifico o in Sudamerica.
C’è qualcosa di simbolico nel pensare a questo mentre l’Appia Antica regina delle strade che connette Roma al mondo è stata iscritta nella lista del patrimonio Unesco. Building Peace in the minds of men and women, «costruire la pace nella mente degli uomini e delle donne» è il motto dell’Unesco. Cosa dovrebbe fare Roma se non questo, dopo questo importante riconoscimento?
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