Niente scuse Il caso del generale libico a capo della «polizia giudiziaria» di Tripoli, fermato a Torino per un mandato di cattura della Corte penale internazionale, che lo considera un torturatore, e […]
Migranti in un centro di detenzione in Libia - foto Medici Senza Frontiere
Il caso del generale libico a capo della «polizia giudiziaria» di Tripoli, fermato a Torino per un mandato di cattura della Corte penale internazionale, che lo considera un torturatore, e in appena 48 ore scarcerato e trionfalmente riportato in patria da un volo di stato italiano è semplice. A complicarlo sono le giustificazioni del governo Meloni.
Arrestato in base all’ordine esecutivo della Corte dell’Aja, avrebbe dovuto essere consegnato ai giudici internazionali «al più presto» per essere processato, lo prevede lo statuto della Corte che proprio a Roma è stato firmato nel 1998.
Rischia una condanna all’ergastolo per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, compresi omicidi, torture e stupri. Il ministro Nordio, invece, dopo 24 ore di silenzio ha fatto sapere – con un comunicato stampa – che stava studiando «il complesso carteggio». Nel frattempo il volo che avrebbe riaccompagnato Osama Najeem Elmasri a Tripoli era già partito da Roma per recuperarlo a Torino. Studia studia, Nordio non deve essere riuscito a inventarsi nulla, così la via d’uscita l’ha trovata qualche ora dopo la solerzia della procura generale e della Corte di appello di Roma: il ministro della giustizia (piegato sulle carte) non era stato consultato prima dell’arresto (che però era obbligatorio in forza di un mandato esecutivo, emesso dopo che le consultazioni c’erano state). L’ingombrante “tifoso” libico (era a Torino per Juve-Milan, aveva in programma di proseguire per Roma) è stato così non solo scarcerato, ma anche riaccompagnato con tante scuse a Tripoli dove lo aspettavano caroselli e fuochi d’artificio.
La ricostruzione governativa evidentemente non sta in piedi e la storia è assai più semplice. Quello che per la Corte penale internazionale è un aguzzino, è un valido collaboratore delle autorità italiane. Un protagonista di quella «politica mortale» (New York Times, non il manifesto) per la quale i flussi migratori dalla Libia verso l’Italia si aprono o si chiudono, e i migranti rischiano di morire di torture nei centri di detenzione in terraferma o di affogare in mare, sulla base di logiche di puro guadagno e di ricatto. Non c’è alcuna differenza nelle modalità di azione dei trafficanti e carcerieri libici, ufficiali (come Elmasri) o ufficiosi che siano, lo denunciano da sempre le Ong e lo ha certificato una missione promossa dal segretario generale delle Nazioni unite.
È tutto scritto, è tutto noto, oltre ai rapporti e agli atti di accusa della Corte penale internazionale ci sono video, foto, migliaia di testimonianze: le più terribili violenze sono pratiche ordinarie nei centri libici. L’ipocrisia delle formule è una patina che viene via immediatamente, come una scusa di Nordio o il nome dell’apparato di repressione che dirige il fortunato generale libico che ha risparmiato anche sul biglietto di ritorno: «Istituto di riforma e riabilitazione». Parole vuote, come «diritto» e «legalità internazionale»: per il nostro paese non contano niente. Più importante è tutelare chi può continuare a farci il favore di limitare le partenze, altrimenti ci tocca mandare i migranti in Albania – cosa che come si è visto non è affatto semplice.
Conosciamo anche i nomi di chi ha promosso e firmato il «memorandum d’intesa» con la Libia che regge tutto questo sistema e giustifica i trasferimenti di denaro e mezzi dall’Italia e dall’Europa che lo sorreggono: il ministro dell’interno Minniti e il presidente del Consiglio Gentiloni nel 2017, la ministra Lamorgese e il presidente Conte che lo hanno prorogato nel 2020 e il ministro Piantedosi e la presidente Meloni che lo hanno ancora prorogato nel 2022 fino, per il momento, al 2026. Proprio la presidente Meloni che aveva promesso di scatenare una caccia mondiale ai trafficanti di esseri umani ma si accontenta di far arrestare qualche disperato tra i sopravvissuti in mare, identificato come «scafista». I veri criminali invece li proteggiamo e li riaccompagniamo a casa, purché continuino il lavoro. In silenzio.
Commenta (0 Commenti)Il segretario generale Cgil: “Confermiamo il no all’autonomia differenziata. Coi cinque quesiti cancelliamo le leggi che hanno esteso la precarietà”
"Confermiamo la nostra netta contrarietà alla legge sull’autonomia differenziata e riteniamo assolutamente necessario che il Parlamento e il governo non procedano nella direzione seguita finora”. Così il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, il giorno dopo il pronunciamento della Consulta a margine della conferenza stampa della Flc.
“Tutti i rilievi di costituzionalità che sono stati fatti – ha spiegato - vanno garantiti in questa discussione: parleremo con i soggetti che hanno raccolto le firme con noi per decidere come far vivere nel Paese questa battaglia”.
Il leader di Corso d’Italia quindi aggiunge: “Poi capiremo meglio le ragioni che hanno portato la Consulta ad assumere questo orientamento. L’altra notizia importante è che si apre una primavera di diritti e di voto: i quesiti che sono stati raccolti offrono la possibilità di cancellare quelle leggi balorde che hanno ridotto i diritti ed esteso la precarietà”.
Per Landini “definire i Livelli essenziali di assistenza, mantenere la scuola la pubblica restano elementi fondamentali e necessari per arrivare al cambiamento”.
Nei prossimi giorni, infine, “col mondo associativo e le forze politiche che hanno sostenuto i quesiti, discuteremo su come avviare una grande campagna per portare a votare il 50+1 dei cittadini e delle cittadine italiane”.
Commenta (0 Commenti)Autonomia Incredulità e delusione imperversano in queste ore in alcune componenti del comitato referendario sull’autonomia differenziata. Soprattutto tra coloro che non hanno mai dubitato dell’ammissibilità referendaria e della travolgente vittoria nelle […]
Incredulità e delusione imperversano in queste ore in alcune componenti del comitato referendario sull’autonomia differenziata. Soprattutto tra coloro che non hanno mai dubitato dell’ammissibilità referendaria e della travolgente vittoria nelle urne.
E anche noi, pur nutrendo non poche preoccupazioni sulla riuscita della consultazione referendaria, nell’ammissibilità del quesito abbiamo sempre creduto. O meglio, lo abbiamo creduto fino al 14 novembre, quando la Corte, cambiando le carte in tavola, decise di riaprire su un altro fronte la partita. Un precedente che non può essere eluso, né circoscritto nella sua portata: la sentenza di inammissibilità è figlia della sentenza di legittimità dello scorso dicembre. Ecco perché, pur rifuggendo da inutili trionfalismi, si è indotti a ritenere che questa sentenza d’inammissibilità costituisca l’ennesimo colpo sferrato dalla Corte all’autonomia differenziata.
I giudici con questa decisione hanno inteso ribadire che la legge Calderoli è stata in gran parte demolita, smontata nei suoi congegni più urticanti, nei suoi istituti più significativi, nelle sue parti essenziali. E quel che della legge è rimasto non sta più in piedi. E non può essere più coerentemente applicato: per assicurare la «piena funzionalità della legge» – aveva già detto il comunicato della Corte costituzionale del 14 dicembre – sarà pertanto necessario un nuovo intervento del parlamento, un diverso percorso legislativo che dovrà necessariamente dipanarsi in assoluta coerenza con i principi costituzionali e lungo la scia tracciata dalla sentenza 192/2024.
Con questo non intendiamo di certo affermare che siamo oggi di fronte al migliore dei mondi possibili. Sappiamo tutti che ci troveremo, a breve, di fronte a un mare di insidie. E che la sentenza della Corte è destinata a innescare crescenti difficoltà sul piano politico e sul terreno dell’offensiva sociale: i referendum sociali, seppure dichiarati ammissibili, una volta espunto il quesito sull’autonomia differenziata, hanno perso la loro testa d’ariete. E questo renderà il raggiungimento del quorum di partecipazione ancora più ostico. Anche in parlamento, le opposizioni si troveranno a percorrere una strada tutta in salita. Il (contro)riformismo compulsivo delle destre (attuazione dell’articolo 116 della Costituzione, premierato, giustizia) non ammette soste, né cedimenti. Alle opposizioni toccherà allora provare a porre un argine a questa spirale, pedinare la maggioranza, denunciarne l’immobilismo strisciante e le manovre insidiose che molto probabilmente continueranno ad essere escogitate per eludere vincoli e principi costituzionali.
Ma l’opposizione parlamentare non può farcela da sola. Dovrà farsi paese e rafforzare i legami con l’opposizione sociale che inizia a prender corpo, soprattutto fra i più giovani (si pensi alle crescenti mobilitazioni contro il pacchetto sicurezza).
D’altra parte, è vero che l’opposizione non ha oggi i numeri in parlamento per incidere. Ma è anche vero che la maggioranza non può più continuare a forgiare un modello di autonomia differenziata a sua immagine e somiglianza, dovrà farlo a immagine e somiglianza della Costituzione.
Nel prossimo futuro, opposizione e maggioranza dovranno, pertanto, sforzarsi di operare lungo il solco tracciato dalla sentenza della Corte. Un esito che spiazza alcune componenti dell’opposizione (anch’esse, in passato, avvezze a cedimenti su questo terreno) e che oggi inchioda le forze di governo a precise responsabilità (per aver prodotto una legge intrisa di incostituzionalità). Se la strada dell’opposizione è in salita, quella delle destre non è in discesa. E la maggioranza lo sa bene. Non è un caso che presidenti di regioni, ministri, leader di partito nelle ultime settimane di fronte alla prospettiva referendaria abbiano rinverdito il motto craxiano «tutti al mare» (l’esecutivo ha anche evitato di partecipare all’udienza in Corte).
Di qui il tentativo, messo in campo dalle destre, di trasformare il referendum in una sorta di actio fìnium regundorum, una sorta di verdetto popolare inappellabile. E, per questo, in grado, di fare piazza pulita di giudici, opposizioni e di tutte quelle centinaia di migliaia di donne e uomini che quest’estate si sono mobilitati a raccogliere le firme. Un patrimonio che non può essere dissipato. E dal quale è necessario ripartire, perché la lotta per il regionalismo solidale e contro l’autonomia «disgregata» non solo non è terminata, ma è appena iniziata.
America First L’insediamento di Donald Trump alla Casa bianca a qualcuno è potuto sembrare uno spettacolo euforizzante. Mai si era visto un tale avanspettacolo della politica se non in certe rappresentazioni grottesche […]
L’insediamento di Donald Trump alla Casa bianca a qualcuno è potuto sembrare uno spettacolo euforizzante. Mai si era visto un tale avanspettacolo della politica se non in certe rappresentazioni grottesche del cinema o del teatro, con il braccio teso di Elon Musk che sembrava una parodia di Fascisti su Marte, dove Trump – ci ha avvertito lunedì – vuole piantare la bandiera stelle e strisce.
Ma in un mondo tragico, percorso sempre più da guerre e da miseria, le pagliacciate sono di breve durata e dobbiamo farci una domanda: chi abbiamo davanti e dove vogliono portare il mondo? Su Le Monde Diplomatique (anche nell’edizione italiana del manifesto), prova a dare una risposta il professor Michael Klare dell’Hampshire College.
Mentre Biden e i suoi consiglieri – spiega Klare – immaginavano il mondo come un grande scacchiera, sulla quale le pedine amiche e nemiche cercavano di procurarsi un vantaggio geopolitico nelle regioni contese, Trump considera il pianeta come un grande Monopoli in cui i diversi rivali lottano per il controllo dei beni preziosi, delle tecnologie, dei mercati, delle proprietà immobiliari. Se per Biden il collante ideologico era «l’adesione ai valori occidentali» – visione per altro tragicamente smentita dalle stragi israeliane a Gaza – per Trump la politica estera deve essere mossa dalla sfrenata rincorsa di un primato economico, strategico e, ovviamente, militare.
Hollywood non basta più a rivestire la parte di intrattenimento del complesso militare-industriale come diceva un tempo Frank Zappa. Oggi servono di più i social media: così invece degli attori sono stati invitati i miliardari delle piattaforme digitali, dal fondatore di Amazon Jeff Bezos, al capo di Meta Mark Zuckerberg, fino al Ceo di Apple Tim Cook e l’ad di Google Sundar Pichai. Siamo in pieno Monopoli perché questi signori, insieme a Musk, detengono una ricchezza maggiore del Pil di molti stati. Tutti comunque, nell’ottica trumpiana, sono chiamati a perseguire quattro obiettivi: la supremazia mondiale degli Stati uniti, contenere la Cina, manovrare le alleanze in funzione filo-americana, mettere le mani sulle risorse più importanti anche a spese degli altri stati, che siano alleati o meno.
Lo slogan “America First” sul piano internazionale significa questo. A partire dal Medio Oriente dove Trump è intervenuto direttamente nell’accordo di tregua ancora prima di insediarsi alla Casa Bianca e Netanyahu ha appena lanciato l’operazione Muro di Ferro a Jenin. Il suo entourage è stato il primo a esserne informato. Il cessate il fuoco non era ancora firmato che il genero Jared Kushner aveva subito raddoppiato la sua quota nella società immobiliare Phoenix, diventandone il maggiore azionista insieme ai fondi sauditi. La società, che ha già finanziato insediamenti illegali dei coloni in Cisgiordania, punta a partecipare da protagonista agli affari dell’eventuale ricostruzione di Gaza. Il percorso è quello di portare l’Arabia Saudita nel patto di Abramo, nonostante Riad continui a insistere su una soluzione della questione palestinese. Ma Trump e il principe Mohammed bin Salman sono sempre più vicini.
Durante la prima presidenza Trump, il cerchio magico del presidente si era già aggiudicato affari lucrosi con i sauditi. E ora i legami si stringono sempre di più perché il presidente appena in carica e i sauditi condividono la comune determinazione a confermare il primato dei combustibili fossili. «Perforeremo, tesoro, perforeremo», ha esclamato Trump e nei suoi primi minuti in carica ha proclamato che avrebbe dichiarato una «emergenza energetica nazionale» per contribuire ad abbassare i prezzi. Insomma musica per le orecchie degli sceicchi petroliferi del Golfo. E questo non esclude – anzi indica come possibile – che il nuovo presidente voglia intavolare qualche trattativa con gli altri grandi produttori di petrolio e di gas naturale, come Russia, Iran e Venezuela. Non è detto che questo porterà nel breve a un alleggerimento delle sanzioni contro l’Iran, visto che Trump sostiene Netanyahu nella sua ossessione anti-Teheran, ma è chiaro che il nuovo presidente ha una spiccata predilezione per gli accordi con i Paesi petroliferi.
All’orizzonte c’è anche l’accordo con Putin. «Il nostro potere fermerà tutte le guerre e porterà un nuovo spirito di unità in un mondo», ha detto Trump, secondo il quale gli ucraini continueranno a ricevere aiuto militare solo se accetteranno di negoziare un accordo di pace con la Russia che prevede la cessione di territori. E qui si lega il discorso anche con gli europei e la Nato. Trump ha minacciato che se gli stati europei dell’Alleanza non aumenteranno i propri fondi per la difesa, gli Usa ridurranno drasticamente i loro aiuti militari. L’obiettivo è di portare al 3-3,5% del Pil le spese militari europee: una manna per le industria bellica americana. Una pressione sull’Europa che include anche la negoziazione di dazi doganali: gli Usa hanno un deficit commerciale con la Ue di 240miliardi di dollari.
Con Trump le cose andranno meglio o peggio che con Biden? Il nuovo presidente non è certo uno che si diffonde in temi come la “democrazia”, il “rispetto delle regole” o dei “diritti umani”. Argomenti che disprezza, come l’Onu, il diritto internazionale e le politiche di genere. È sostanzialmente un uomo d’affari – per altro dal carattere imprevedibile – che guarda al tornaconto suo, dei suoi amici e degli Usa. Ma Biden, che faceva tutti quei discorsi alati sui “valori occidentali”, non era poi così affidabile. Basta chiedere ai palestinesi massacrati a Gaza.
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Referendum Non è finita. Dopo le due decisioni della Consulta, opporsi all’autonomia differenziata assume un significato ancor più rilevante. Preclusa la via diretta dell’abrogazione di una brutta legge, resta la necessità […]
Il Palazzo della Consulta sede della Corte Costituzionale – foto Mauro Scrobogna/LaPresse
Non è finita. Dopo le due decisioni della Consulta, opporsi all’autonomia differenziata assume un significato ancor più rilevante. Preclusa la via diretta dell’abrogazione di una brutta legge, resta la necessità di affermare un regionalismo costituzionalmente orientato.
Questo è stato scritto nella prima sentenza del nostro giudice delle leggi che è l’antecedente storico, ma anche logico, della seconda decisione sull’inammissibilità. Da qui bisogna ripartire.
A ben vedere – come abbiamo già avuto modo di evidenziare in tempi non sospetti su queste pagine – persino l’abrogazione della legge 86 del 2024 per via referendaria non ci avrebbe esentato dall’onere della prova contraria: la necessità di indicare il modello di regionalismo solidale che la nostra Costituzione pretende. Ora, la decisione della Corte costituzionale sull’inammissibilità – che non ci dà soddisfazione, ma che ci riserviamo di valutare nel merito quando leggeremo le motivazioni – ha accelerato i tempi e ci pone da subito di fronte alle nostre responsabilità.
Ripartiamo dalla vittoria e non dalla battuta d’arresto, dallo smantellamento operato dalla sentenza 192 del 2024 che non solo ha dichiarato l’incostituzionalità dei pilastri della legge Calderoli, ma che ci ha anche indicato i principi di un nuovo regionalismo non più di natura «duale», bensì – come ha scritto la Consulta – di natura «cooperativa», «che dà ampio risalto al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le regioni e che deve concorrere alla attuazione dei principi costituzionali e dei diritti che su di essi si radicano». Di più non si poteva dire, non compete infatti al giudice costituzionale scrivere le leggi. Spetta a noi, ai cittadini, alla politica e al parlamento dare attuazione ad un regionalismo solidale.
Ciò che deve essere chiarito, tanto più ora dopo la doppia pronuncia del giudice delle leggi, è che i principi ispiratori della riforma del regionalismo in Italia non possono comunque più essere quelli proposti dall’attuale maggioranza politica, ma sono quelli definiti dalla sentenza che ha stracciato la legge vigente. La legge Calderoli (i monconi che ne residuano) non può proseguire il suo iter perché definisce un modello di regionalismo in contrasto con quello prescritto dalla nostra Carta fondamentale. Spetta adesso ai soggetti che hanno contrastato questa legge indicare la rotta, ripartendo dalle chiare indicazioni della Consulta.
Si tratta in sostanza di passare dalla critica ad un disegno politico che si è rivelato contrario ai principi della nostra costituzione, alla costruzione di un progetto che sia in grado di darne attuazione. Una nuova prospettiva che ha oggi dalla sua parte una fondamentale ragione in più: la consapevolezza che è diventato indispensabile ricondurre il nuovo regionalismo nel solco della Costituzione, quello sin qui proposto non lo era. Cambiare direzione non è solo possibile, diventa necessario.
Alla realistica obiezione della mancanza di una maggioranza parlamentare che possa cambiare il modello regionale è necessario rispondere ricordando che il cambiamento, così come il necessario consenso popolare, può ottenersi solo a seguito di una lotta per l’egemonia. È da riflettere, dunque, se non sia giunto il tempo per iniziare a costruirla, magari rivoltando gli indirizzi sino ad ora dominanti: contrapponendo al regionalismo egoistico quello solidale; ma anche contrastando il modello verticistico dei poteri, che è alla base della riforma del premierato, tramite il rilancio del pluralismo politico e del parlamentarismo che è da tempo offeso; abbandonando le politiche giustizialiste e di mera contrapposizione tra politica e magistratura per adottare politiche attente alla tutela dei diritti e al garantismo penale; uscendo dalla spirale che sacrifica alla sicurezza la più ampia libertà di dissenso sociale e politico.
In tal modo, si potrebbe persino riuscire a scuotere le forze di opposizione dal torpore e dalla remissività che da tempo sta prevalendo, per farle tornare a dire «qualcosa di sinistra». È mettendo in gioco se stessi e le proprie idee che si conquista una nuova egemonia, non stando alla finestra.
Buon lavoro, dunque, alle opposizioni di oggi, con l’augurio che sappiano ritrovare il legame smarrito con il popolo in nome della Costituzione. Non abbiamo molto tempo da perdere, né è possibile farsi prendere dallo sconforto per una sentenza sgradita.
Sulle decisioni assunte ieri dalla Corte costituzionale, in attesa di conoscere le motivazioni che hanno portato a inibire ancora una volta le richieste dei promotori, un solo aspetto possiamo sin d’ora con certezza rilevare. Se non si vuole rinunciare al principale strumento di partecipazione alle decisioni politiche da parte del popolo è necessario ripensare ab imis fundamentis il referendum e la giurisprudenza costituzionale che si è venuta edificando e che ha portato ormai alla assoluta imprevedibilità degli esiti. Spetta al legislatore illuminato il compito di riscrivere la legge 352 del 1970, mentre il compito della Consulta, se vuole ricoprire il ruolo che le è stato assegnato di «isola della ragione», è quello di definire pro futuro un modello chiaro, unico e semplificato di principi cui i promotori possano attenersi. Avremmo bisogno di un nuovo Livio Paladin (il grande costituzionalista che fu l’estensore della sentenza pilota del 1978).
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Meloni e i suoi ministri hanno mentito prima, durante e dopo l’operazione su che cosa stessero facendo, sui soggetti coinvolti, sugli obiettivi. Visto che Cecilia Sala è tornata sana e salva, nessuno ne chiederà conto al governo. Ma muoversi così è pericoloso
Tutto è bene quel che finisce bene, la giornalista Cecilia Sala è tornata a casa l’8 gennaio e domenica sera ha raccontato nel dettaglio la sua disavventura iraniana da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Quella storia si è evoluta nel migliore dei modi, Cecilia Sala riesce a parlarne con grande equilibrio e pacatezza, senza retorica ma anche senza minimizzare la serietà di quello che le è capitato.
Eppure. Eppure le cose sono andate diversamente da come ce le ha raccontate la premier Giorgia Meloni nell’immediato. La sua versione sembra sempre meno plausibile.
Alcuni sviluppi nei giorni successivi sono stati sorprendenti e alcune persone della comunità di Appunti mi hanno chiesto di mettere ordine.
Ero un po’ restio a tornare sull’argomento, perché il rischio è passare per uno di quelli che non sono mai contenti, che cercano la polemica anche quando non ce n’è ragione. Però poi è arrivato Romano Prodi, l’ex premier che a 85 anni è tornato la voce dell’opposizione culturale e politica alla destra vista l’impalpabilità di Elly Schlein e Giuseppe Conte.
Prodi era già intervenuto sul tema con qualche accento critico, poi a Omnibus su La7, intervistato da Alessandra Sardoni, ha detto:
“Quando io ho liberato Mastrogiacomo mica ho avuto il soccorso degli Stati Uniti. Tutto il Paese ha agito. Meloni si è fatta un obiettivo personale. Il ministro degli Esteri allora è stato molto attivo, adesso non lo so. E' stata una gran bella cosa, ma per favore mettiamola in un contesto”.
Nel 2007 Daniele Mastrogiacomo, allora inviato di Repubblica in Afghanistan, viene rapito dai Talebani. Nel 2017, dieci anni dopo il sequestro, ricordava così la sua vicenda sul suo giornale:
“La storia del nostro sequestro fa parte della cronaca. È stata vissuta con angoscia da milioni di persone. Ed è stato grazie a questa campagna collettiva, portata avanti dal governo Prodi, dal mio giornale, da mia moglie Luisella, da 100mila firme raccolte in tutto il mondo, dalla decisiva mediazione di Emergency, se sono potuto tornare a casa e oggi posso scrivere queste righe.
Sayed e Ajmal non ce l'hanno fatta. Il primo, come sapete, è stato sgozzato davanti a noi in una landa deserta che costeggia il fiume Helmand. Il secondo è stato rilasciato assieme a me, in cambio di cinque prigionieri Talebani, ricatturato, tenuto in ostaggio per altre due settimane e poi decapitato”.
Vedremo come, tra dieci anni, libera dai comprensibili vincoli di riservatezza attuali, Cecilia Sala racconterà la sua storia. Per ora tocca a noi cercare di incastrare i vari tasselli.
Vediamo che cosa si sta rivelando diverso da quanto raccontato nella prima fase. I punti da chiarire sono: il ruolo di Elon Musk, lo scambio con l’ingegnere iraniano arrestato in Italia, i rapporti tra governo, ministero degli Esteri, servizi segreti.