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Le mani sulle reti L’eccezionalismo muskiano sembra una categoria analitica fallace (come anche «tecnodestra» ma sarebbe un altro discorso) che dietro la cortina di fumo creata intorno al personaggio rischia di ostacolare la comprensione di fenomeni strutturali ben più importanti.

Elon Musk - foto Ap Elon Musk – Ap

Nel dibattito pubblico italiano ed europeo si sta affermando una sorta di eccezionalismo muskiano. Molti commentatori e politici, infatti, descrivono Elon Musk come fosse un fenomeno nuovo e totalmente a sé stante nel panorama del digitale (o, più in generale, dei grandi detentori di capitali). Alcune questioni di fondo vanno chiarite per evitare di trovarsi spiazzati quando un altro miliardario tecnocrate, come è adesso il caso di Zuckerberg, compie mosse che vanno incontro al nuovo potere trumpiano. Dove sarebbe allora questo eccezionalismo di Musk? Quello che fa veramente la differenza non sono tanto le sue parole.

Certo esterna copiosamente ma non diversamente da altri magnati come Bill Gates o George Soros che lo fanno da decenni. Eccezionale è la spasmodica attenzione dei media tradizionali a qualsiasi sospiro di Musk su X, attenzione che amplifica enormemente l’impatto delle sue esternazioni. Se le sue parole rimanessero su X, infatti, sfuggirebbero alla stragrande maggioranza dei cittadini: in Italia, per esempio, l’87% della popolazione non frequenta quella piattaforma.

Si potrebbe obiettare che Musk ha un profilo politico che altri personaggi ricchi e potenti quanto lui non hanno. È vero, Musk è più esplicito di tanti altri (ma non più di un Peter Thiel, per citare un altro magnate big tech vicino a Trump): e allora? Molti altri – basti pensare ai fratelli Koch – scelgono in genere di essere più discreti, ma partecipano comunque pesantemente alla vita politica americana, finanziando campagne elettorali, frequentando la Casa Bianca di cui sono spesso ascoltati consiglieri e in generale influenzando le scelte politiche democratiche, non da ultimo finanziando associazioni di varia natura, università e persino singoli ricercatori.

Per non parlare di chi, come Jeff Bezos, possiede direttamente mezzi di comunicazione, nel suo caso il Washington Post. Naturalmente il sistema politico nordamericano è particolarmente influenzato dal denaro, ma si potrebbero fare analisi non radicalmente dissimili per tutti i principali Paesi europei, Italia inclusa.

Dunque, potremmo dire che Musk è semplicemente molto più diretto della media degli altri personaggi della sua categoria. Ama mettersi in mostra, ama esagerare avendo capito – come il suo amico Trump – che mediaticamente il gioco funziona benissimo. Dice cose estreme, ma che non di rado sono condivise da buona parte dell’establishment statunitense, che semplicemente si guarda dall’esprimersi in pubblico con tanta rozza franchezza.

L’eccezionalismo muskiano, dunque, mi sembra una categoria analitica fallace (come anche «tecnodestra» ma sarebbe un altro discorso) che dietro la cortina di fumo creata intorno al personaggio rischia di ostacolare la comprensione di fenomeni strutturali ben più importanti.
Tra tutti, quello che mi sembra di gran lunga il più importante è il processo che ha portato tutti i principali Paesi europei, con l’Italia in prima fila, a consegnare a una manciata di imprese statunitensi il controllo di tre infrastrutture essenziali, ovvero, le infrastrutture di comunicazione, archiviazione ed elaborazione delle informazioni. Stati che non controllino, anche fisicamente, queste infrastrutture sono, per dirla in maniera delicata, a sovranità limitata.

Trent’anni fa la consapevolezza dell’importanza del controllo della rete telefonica e radio, delle torri e dei cavi, degli archivi, dei server, la materialità insomma delle infrastrutture dell’informazione, era diffusa nella classe dirigente. Negli ultimi vent’anni questa consapevolezza si è grandemente indebolita, come dimostra l’enorme ruolo assunto da aziende come Microsoft, Google, Amazon e, potenzialmente, SpaceX non solo nelle imprese, ma anche negli enti pubblici e persino nei gangli più delicati dell’apparato statale.

Come è stato possibile? Forse la classe dirigente europea, non capendo le implicazioni strategiche della rivoluzione digitale, prima si è fatta sedurre dai vantaggi economici di breve termine dell’affidarsi alle big tech, non coltivando e anzi lasciando deperire le risorse interne, e poi si è sostanzialmente rassegnata a stare sotto l’ombrello digitale statunitense.

Da questo punto di vista, l’ingresso di John Elkann, erede di una grande dinastia industriale europea, nel consiglio di amministrazione di Meta (che contestualmente vira in direzione trumpiana-muskiana abolendo il molto criticato fact checking) sembra un classico caso di «se non puoi batterli, unisciti a loro».

Ci si chiede, però, quale prezzo pagheranno i Paesi europei per aver ceduto agli Usa buona parte del sistema nervoso delle loro società, delle loro economie e dei loro apparati statali.

* Juan Carlos De Martin è un informatico italiano. Professore ordinario presso il Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino ha cofondato e co-dirige il Centro Nexa su Internet e Società presso il Politecnico di Torino