Questo testo forte e commovente mi è stato fatto conoscere da Giulia Marcucci, che insegna Lingua e traduzione russa nella mia università, la Stranieri di Siena. Lo ha scritto ieri un coraggioso cittadino russo: un poeta, di cui Giulia ci parla nella breve nota che segue il testo.
Pubblicarlo oggi, in italiano, ci pare abbia un significato profondo.
Sono parole di Tomaso Montanari che, con questa premessa, pubblica su "Volerelaluna.it" un testo "Russia e Ucraina: le parole e la realtà" di Lev Rubinštejn
Mentre ci viene chiesto di schierarci con una delle nazioni in guerra, a me pare più giusto stare accanto a chi – dentro ognuna delle due nazioni – si oppone alla guerra, la contesta, la denuncia, spesso a costo della vita stessa. Il nostro collettivo ripudio della guerra, scolpito nella Costituzione da chi dovette farla una guerra giusta (quella della liberazione partigiana dai nazifascisti), rimane vivo e vero solo se non accettiamo il gioco di chi dice che parteggiare vuol dire parteggiare per una bandiera, una nazione, un capo.
Non accettiamo di dover scegliere tra la politica zarista e omicida di Putin e quella imperialista e diversamente omicida della Nato e dell’America di Biden. Siamo incondizionatamente solidali con le cittadine e i cittadini dell’Ucraina che sono ora sotto il fuoco russo, senza per questo appoggiare il governo, inquietante e filofascista, del loro paese. Siamo vicini alle donne e agli uomini della Russia, trascinati in guerra da un autocrate sanguinario.
Ci si dice che dovremmo difendere i valori e gli interessi occidentali. Ma quali sono questi valori: quelli scritti nelle Costituzioni o quelli perseguiti dai governi? E di chi sono questi interessi? «L’interesse nazionale – ha scritto Simone Weil – non può essere definito né da un interesse comune delle grandi imprese industriali, né dalla vita, dalla libertà e dal benessere dei cittadini, perché questo interesse comune non esiste». È dunque nel dissenso interno, nelle ragioni del conflitto sociale, nel rifiuto di ogni nazionalismo, nella difesa dei diritti che va cercata la forza per ripudiare l’idea stessa della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e come mezzo di costruzione del consenso interno ai singoli Stati.
La guerra è sempre e comunque una inutile strage, promossa, provocata, agita dai pochi che la ritengono invece utile ai loro interessi di potere, e che sono separati da abissi sociali e ormai quasi antropologici da coloro che in quella guerra perderanno libertà, beni e vita. Così, più che dalle mille analisi geopolitiche tutte orientate a priori, in queste ore una luce sembra venire dalle parole di un poeta, che riflette sullo strazio delle parole e del loro significato, eterna premessa allo strazio dei corpi nella guerra.
(Tomaso Montanari)
25-02-2022
Il testo lo potete leggere sul sito a questo link: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/02/25/russia-e-ucraina-le-parole-e-la-realta-con-una-premessa-di-tomaso-montanari-e-una-nota-di-giulia-marcucci/
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Oggi la Pace in piazza. Ora che la drammaticità di un confitto armato è entrata dirompentemente nelle nostre vite (e schermi) è importante capire che tipo di azioni di natura politica per la pace possiamo mettere in pista. Perché la strada della pace non deve mai interrompersi
Ora che la drammaticità di un confitto armato è entrata dirompentemente nelle nostre vite (e schermi) è importante capire che tipo di azioni di natura politica per la pace possiamo mettere in pista. Perché la strada della pace non deve mai interrompersi.
E deve trovare risorse di nonviolenza ogni volta. Ovviamente nel momento in cui sono i bombardamenti a farla da padrone (prendendosi tutto lo spazio mediatico) è difficile far capire che la risposta deve essere sensata, ragionata, non emotiva. Pena una escalation che potrà portare la guerra ad un livello ancora più devastante. E vicino.
Nonostante tutto quindi occorre mantenere la calma e la consapevolezza che la pace non si può fare mentre il conflitto divampa: il primo obiettivo deve essere quello di fermare la guerra. Ed è da qui che parte la proposta della Rete Italiana pace e Disarmo, che sarà la base della manifestazione di oggi, sabato 26 febbraio a Roma e di decine di altri eventi, mobilitazioni, ore di silenzio, iniziative di solidarietà che sono in programma in tutta Italia. [e anche a Faenza]
A partire da una chiara condanna della scelta di aggressione operata da Putin (ma sempre con in mente la differenza tra un governo e il suo popolo) noi come sempre pensiamo che occorra partire dalla solidarietà alle popolazioni e alle comunità. Che sono quelle che muoiono, e soffrono. Una pace (e poi un disarmo) di natura “umanitaria” nel vero senso della parola, non in quello distorto troppe volte utilizzato a sproposito. È per questo che sosteniamo tutti gli sforzi della società civile pacifista in Ucraina e Russia per arrivare ad una cessazione immediata delle ostilità e poi intraprendere una strada di vera Pace e riconciliazione.
Per tali motivi chiediamo all’Italia, all’Europa, alle Istituzioni internazionali di chiedere una cessazione degli scontri con tutti i mezzi della diplomazia e a partire da principi di neutralità attiva (quindi evitando qualsiasi pensiero di avventure militari insensate, anche solo come escalation di postura).
Cruciale in questa fase sarà anche garantire un passaggio sicuro alle agenzie internazionali e alle organizzazioni non governative per una assistenza umanitaria alla popolazione coinvolta dal conflitto, che già sta soffrendo troppo. Le reti internazionali della società civile per il disarmo umanitario hanno già sottolineato i problemi legati all’uso di armi esplosive negli ambiti urbani, o anche di armi proibite calle convenzioni internazionali come le cluster bombs. E soprattutto con il pericolo nucleare dietro l’angolo.
Una volta arrivati al cessate il fuoco è fondamentale operare concretamente per una de-escalation della crisi nel pieno rispetto del diritto internazionale, affidando alle Nazioni Unite il compito di gestire e risolvere i conflitti tra Stati con gli strumenti della diplomazia, del dialogo, della cooperazione, del diritto internazionale. Spesso si dice che l’Onu è debole… ma il motivo vero è che non le si dà mai la forza per potere concretizzare quanto previsto dalla sua Carta. E oggi l’Onu potrebbe fare da guida in maniera positiva, durante questo conflitto: va ricordato infatti come il Segretario Generale Guterres abbia basato la propria agenda politica su una proposta di Disarmo (per l’umanità, per la vita, per le future generazioni). È quindi importante che in seconda battuta si possa favorire l’avvio di trattative per un sistema di reciproca sicurezza che garantisca sia l’Ue che la Federazione Russa.
La Rete Italiana Pace e Disarmo lo ha detto chiaramente nella sua presa di posizione sulla crisi dell’Ucraina: «Come è possibile la costruzione di una Europa con “sicurezza condivisa” tra e per tutti gli Stati ed i popoli, come auspicava lo svedese Olof Palme, se si continua con questa politica di contrapposizione militare che, vista dall’altra parte, è sinonimo di accerchiamento, di minaccia alla propria sicurezza?»
Noi pensiamo che la strada da intraprendere sia invece quella della cooperazione, degli investimenti, dei contratti e del commercio equo, della mobilità, degli scambi, della solidarietà, del disarmo climatico, della neutralità attiva per costruire un’Europa di benessere, di sicurezza, di cooperazione, nel rispetto delle diversità. Solo così si potrà vivere in pace.
Per costruire un’Europa smilitarizzata dall’Atlantico agli Urali, di pace, di sicurezza per tutti, di libertà e di democrazia. Un’Europa allargata ed aperta al mondo, dove l’Alleanza Atlantica sia una collocazione culturale, di emancipazione collettiva, di condivisione di un progetto globale di pace.
Tutto questo significa dire «Sì alla pace» e «No alla guerra».
*Coordinatore Campagne – Rete Italiana Pace e Disarmo
Commenta (0 Commenti)Scenari. Il «fatto compiuto» nel breve periodo vince, ma il costo potrebbe essere molto alto: la Russia si allontana dall’Europa in una deriva tragica per gli europei e per gli stessi cittadini russi
Protesta all'ambasciata ucraina di Roma © Ap
Un continente che per la verità non era mai scomparso. Credevano, gli europei, inebriati dal crollo del Muro di Berlino nell’89, di essere usciti dal Novecento ma Putin ieri li ha fatti rientrare nel secolo dei massacri europei, visto che quelli più recenti, nella ex Jugoslavia, li avevano dimenticati. Eppure sembra che sia stato proprio Putin a chiedere di inviare dalla Bosnia i parà russi a sfilare a Pristina, in Kosovo, mentre nel ’99 Usa e Nato bombardavano Belgrado, come già aveva fatto il Terzo Reich nel 1941.
KIEV NON FA PARTE della Nato, ha sottolineato più volte in queste settimane l’Alleanza Atlantica e Putin ha afferrato il messaggio dando via libera all’invasione. Ricordiamoci quanto detto dallo stesso Biden il 20 gennaio il quale aveva dichiarato che in caso di «piccola incursione» in Ucraina la risposta non sarebbe stata automatica. È come se Washington, pur di non negoziare con Mosca, avesse affermato pubblicamente di essere pronta ad «accettare» questa «piccola incursione», diventata adesso un’invasione.
Insomma tanta solidarietà a parole ma in pratica un nulla di fatto. Sentire in queste ore che l’Occidente intende ancora «preservare l’integrità dell’Ucraina» sembra soltanto un battuta di pessimo gusto. Ecco perché se Putin perde ogni credibilità internazionale, rafforza, come voleva, la sua immagine di violenta superpotenza, si impadronisce dell’Ucraina e riporta nella casa madre anche la Bielorussia di un Lukashenko che oggi appare poco più che il sindaco di Minsk. Nel breve periodo vince, a un costo però che potrebbe essere molto alto per la Russia che si allontana dall’Europa in una deriva tragica e deprimente per gli europei e gli stessi cittadini russi.
GLI STATI UNITI E L’EUROPA al momento ne escono male, sia sotto il profilo politico che militare. Che in prospettiva: la Germania conta nulla e rischia di perdere la centralità che aveva con Merkel, Macron è un gesticolatore, gli altri non esistono, se non quelli dell’Est, in prima linea come i polacchi. L’Europa ha imbastito iniziative diplomatiche senza alcuna speranza di incidere mentre gli Usa hanno preso soltanto tempo: i leader europei escono rimpiccioliti come cagnolini tra le gambe di due lottatori di sumo.
ANCHE BIDEN non se la passa bene. Dopo il disastro del ritiro nell’agosto scorso dall’Afghanistan, incassa uno schiaffo sonoro da Mosca. Prima i talebani, adesso i russi: rischia di dovere pagare un costo salato in vista delle elezioni di mezzo termine. E in termini più ampi di geopolitica vede Mosca scivolare sempre di più nelle braccia di Pechino, che mantiene comunque una linea prudente: la Cina, maggiore partner commerciale di Kiev, non hai riconosciuto l’annessione russa della Crimea e nonostante i grandi accordi economici e sul gas con Putin invita «le parti a esercitare moderazione e a evitare che la situazione vada fuori controllo». Parole che suonano venate di umorismo nero.
IL RIDIMENSIONAMENTO europeo e della Nato appare ancora più evidente se si esamina il caso della Turchia, membro della Nato, che ha espresso il suo appoggio all’integrità territoriale dell’Ucraina ma è anche legata alla Russia di Putin da cui riceve la maggior parte del gas, con cui ha in costruzione centrali nucleari e dalla quale ha persino acquistato le batterie anti-missile S-400. Se è vero che Mosca e Ankara si confrontano in Siria, Azerbaijan e Libia (dove si sarebbero accordate per un nuovo governo), i due autocrati sono più inclini all’intesa che allo scontro. Tanto è vero che Erdogan ha evitato di chiudere lo stretto dei Dardanelli, ovvero il Bosforo, al transito delle navi da guerra come potrebbe fare in caso di conflitto e come aveva chiesto il leader ucraino Zelenski.
È SU QUESTA AMBIGUITÀ del fronte occidentale che conta Putin per mettere le mani sull’Ucraina, farla a fettine e, se ritiene conveniente, insediare un regime filo-russo. Non facciamoci illusioni, le conseguenze saranno gravi. Quando Putin parla di «denazificazione» dell’Ucraina sembra di tornare al 1945 quando l’Europa era sepolta sotto le macerie del più devastante conflitto della storia. È a questo che punta l’attuale zar mescolando storia vera e falsi storici?
LE MISURE «paralizzanti» annunciate dagli Usa investono il sistema finanziario ma se colpiranno come pare evidente anche il settore energetico arrivano tempi duri. L’Italia e l’Europa importano oltre il 40% dei loro consumi di gas dalla Russia e il 25% del petrolio, in pratica la guerra di Putin contro l’Ucraina finora l’abbiamo finanziata anche noi. Così siamo al punto che non ci restano altre alternative che sopportare le conseguenze di un conflitto che arriva diritto dentro le nostre case colpendo il portafoglio e le speranze di pace.
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Gli Usa erano stati avvertiti da George Kennan, artefice della politica di contenimento dell’Urss, nel ’97: «L’espansione della Nato è l’errore più grave degli Usa dalla fine della guerra fredda. Spingerà la politica russa in direzione contraria a quella che vogliamo»
Anche quando è diventata indipendente nel 1991, l’Ucraina era rimasta assente fino al 2014 dall’immaginario europeo. Un’Europa non totalmente Europa. A Putin, riconoscendo le repubbliche del Donbass, è riuscita un’operazione magistrale: farne una nazione “martire”, nonostante le componenti fasciste e neo-naziste.
Un Paese dai dubbi contenuti democratici, con governi manovrati dagli oligarchi e un’amministrazione corrotta, oggi è il simbolo della nuova frontiera europea.
Una nazione che si distingue per avere sulla coscienza un milione e mezzo di ebrei sterminati con i nazisti durante la seconda guerra mondiale e che non ha mai neppure processato un criminale di guerra. Eppure questa è la nuova Europa, dove sul calendario è stato strappato il giorno della Memoria e cancellata la secolare lingua russa tra gli idiomi ufficiali.
NON È UNA BELLA EUROPA, anzi è assai minimale nei princìpi e nei valori che però Putin con le sue decisioni ha reso accettabile e da difendere, negandone nel suo discorso l’esistenza come nazione sovrana. Se l’è presa, come rilevava ieri Tommaso Di Francesco, persino con Lenin, senza accorgersi che il risveglio dell’Ucraina non l’aveva inventato lui ma esisteva già da tempo nella storia e nel mito.
A Putin oggi sono attribuite le colpe maggiori ma la guerra o la “quasi guerra” è un crimine con dei complici. In primo luogo gli Stati uniti che hanno lasciato degradare i rapporti con la Russia fino ai minimi termini: sono quasi tre anni che si sono ritirati dal trattato sui missili intermedi in Europa e hanno rifiutato di negoziare un altro accordo che tenesse conto di una Russia ben diversa da quella in disfacimento di trent’anni fa. Le stesse richieste di Mosca per contenere l’allargamento della Nato sono state trattate in maniera sprezzante, come se gli Usa e l’Alleanza Atlantica avessero inanellato gloriose vittorie militari invece di una serie di disfatte, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria alla Libia, per finire recentemente con il Mali, dove Bamako ha preferito affidarsi alla Compagnia di mercenari russi Wagner piuttosto che agli ex colonialisti francesi e all’Europa.
Eppure gli Usa erano stati avvertiti da George Kennan, artefice della politica di contenimento dell’Urss, nel ’97: «L’allargamento della Nato è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda… questa decisione susciterà tendenze nazionaliste e militariste anti-occidentali… spingendo la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo». E a questo pessimo risultato si è arrivati con la crisi ucraina, il dispiegamento dei missili ai confini della Russia ma anche con la vicenda della Nato in Kosovo nel’99 e i raid su Gheddafi in Libia nel 2011: in entrambi i casi la Nato e gli Usa non si sono limitati a “proteggere” la popolazione come promesso ma hanno attuato dei cambi di regimi e di status politico di intere regioni, affondandone altre nel marasma.
MA FORSE IL PEGGIO è toccato all’Europa. Essendo latitante una politica estera dell’Unione – Borrell è una sorta di ectoplasma – la Nato si è completamente sovrapposta a Bruxelles. I Paesi europei come un gregge si sono accodati al cane pastore americano di cui hanno accettato le iniziative finendo come in Afghanistan per condividere con gli Usa una disastro orchestrato essenzialmente da Washington. Del resto l’obiettivo degli americani in questa crisi è quello di mandare agli europei due messaggi;: 1) devono pagare sempre di più il conto della Nato 2) devono smettere di acquistare gas russo.
E qui veniamo al paradosso: oggi siamo noi europei a finanziare gli sforzi bellici della Russia per imporre la sua sfera di influenza. Siamo infatti nelle mani di Putin che a sua volta conta su di noi come clienti di primo piano. Da quando Mosca annesse la Crimea nel 2014, la dipendenza europea dal gas russo è andata aumentando. Nel 2014 l’Unione europea importava il 30% del proprio fabbisogno di gas da Mosca ma l’incidenza è salita al 44% nel 2020 e al 46,8% nel 2021. I dati per l’Italia sono sostanzialmente in linea con quelli medi europei.
PUTIN LO SA PERFETTAMENTE, tanto è vero che Mosca si è affrettata a rassicurare gli europei, in primo luogo Germania e Italia, sulle forniture di metano indispensabili al funzionamento delle loro economie. Ecco perché, nonostante le sanzioni decise a Londra e Bruxelles, nelle capitali del continente si respira un’aria imbarazzante. La stessa decisione tedesca di bloccare il gasdotto Nord Stream 2 con la Russia ha un significato più politico che concreto: questa pipeline non è mai entrata in funzione.
Ma il bello deve venire. L’aumento dei consumi e degli investimenti nel 2021 e altri fattori hanno contribuito al moltiplicarsi per quattro-cinque volte del prezzo del gas in Europa. Così la Russia ha moltiplicato anche il fatturato della Gazprom, pur tagliando sensibilmente le forniture. A questo aggiungiamo che Mosca resta il principale fornitore singolo di petrolio in Europa con una quota del 25%. In sintesi il motore dell’economia europea è in mano a Putin e i soldi europei stanno finanziando lo sforzo bellico russo. Ne usciremo?
Energia. In Italia non è chiaro chi fa la politica energetica, e nell’interesse di chi. Il Paese ha diritto a una risposta, dall’Eni e dal governo, principale azionista
“Il direttore finanziario della compagnia petrolifera e del gas BP, Murray Auchincloss, ha detto agli investitori questa settimana: «È possibile che stiamo guadagnando più soldi di quanti sappiamo cosa farne». Le compagnie petrolifere e del gas hanno riportato profitti da capogiro, poiché la crisi del gas aumenta il prezzo al quale possono vendere i loro combustibili fossili, senza aumentare il costo della loro estrazione”. Così inizia un articolo del Guardian online dell’11 febbraio, e aggiunge che anche i profitti della Shell sono stati eccezionalmente elevati.
SPOSTIAMOCI A CASA NOSTRA. Un articolo dell’Ansa online del 18 febbraio titola: «Eni: nel 2021 Ebit +400%; utile a 4,7 miliardi, top dal 2012». Ma allora tutti i soldi che vengono drenati dalle nostre tasche a causa delle bollette gas e luce più care, vuoi vedere che vanno nelle tasche degli azionisti dell’Eni, della Bp, della Shell, e così via? Inoltre, è logico presumere che l’Eni (e con lei altre aziende Oil&Gas che operano in Italia) abbia sottoscritto contratti a lungo termine ai prezzi pre-crisi con la Russia (sostengono gli analisti che è lì il problema, il ricatto che ci prende per la gola). Ma se è così perché mai aumenta il prezzo del gas ai livelli dei prezzi spot? E che li abbia sottoscritti lo ha pubblicamente affermato Putin nel corso dell’incontro con i responsabili delle grandi imprese italiane, come riporta il Sole24Ore del 26 gennaio: «Roma, ha osservato Putin, è stata in grado di acquistare gas a prezzi più bassi, direi molto più bassi rispetto ai cosiddetti prezzi di mercato spot, che sullo sfondo della pandemia e del deficit di offerta sono notevolmente cresciuti». E questo, ha notato Putin, grazie al fatto che «le compagnie energetiche italiane continuano a lavorare con Gazprom sulla base di contratti di lungo termine».
MA ALLORA? PUTIN MENTE? Ammettiamo pure che la domanda di gas sia improvvisamente schizzata ben al di sopra dei livelli pre-covid (e così non è), tanto che le previsioni garantite dai contratti a lungo termine si sono rivelate inadeguate e si è costretti a ricorrere al mercato spot, a prezzi molto alti. Pure in questa irrealistica ipotesi, le quantità a prezzi spot sono comunque molto piccole rispetto al totale che viene acquistato, al più qualche percento. E dunque, come è possibile che i prezzi di questo piccolo percento, possano fare raddoppiare o triplicare il prezzo del tutto? Ecco, credo che gli italiani abbiano diritto a una risposta chiara, da Eni e dal governo, principale azionista, non dimentichiamolo.
È UN QUADRO, specialmente in Italia, estremamente poco limpido, inquietante, questo dell’aumento del prezzo del gas, per le manovre che si susseguono come conseguenza. Ne cito alcune.
1. Tassare i profitti dei produttori di energia rinnovabile invece di tassare gli extra-profitti delle compagnie petrolifere, Eni in testa
2. Continuare a non affrontare in modo organico e deciso lo scandalo dei 19 (o più) miliardi di sussidi ambientalmente dannosi che diamo ogni anno alle aziende del fossile
3. Investire nella estrazione delle modeste riserve di gas nazionali, che possono incidere ben poco sulla emergenza che stiamo vivendo (coprirebbero poco più del 2% del consumo totale), che è un pessimo segnale, che va contro il percorso di decarbonizzazione aumentando l’estrazione e immettendo nuove risorse finanziarie nel fossile
4. Il presidente del consiglio e il ministro della transizione ecologica invitano l’Ad dell’Eni per chiarimenti sulla possibilità di usare le riserve di gas nazionale. Ma non poteva un funzionario del Mite chiedere a un tecnico dell’Eni? Vuoi vedere che non era una informazione tecnica di cui avevano bisogno ma di indicazioni strategiche?
5. La scandalosa richiesta fatta alla Commissione Europea di allentare ulteriormente le briglie della tassonomia europea sul gas come fonte energetica “verde”, attraverso l’innalzamento del limite di 270 g CO2 eq/kWh come emissione ammissibile delle centrali a gas. Per fortuna la richiesta non è stata accolta, ma il marchio infamante rimane
6. Il nucleare IV generazione, la fusione. Messaggi da parte del governo e dell’Eni che tendono a indurre nell’opinione pubblica la convinzione che la soluzione a tutti i nostri problemi sia dietro l’angolo, e che quindi è inutile stare ad affannarsi con il solare e l’eolico, che sono pure brutti e deturpanti, mentre le centrali nucleari sono belle e moderne
7. Il piano industriale dell’Eni prevede un aumento degli investimenti nelle prospezioni, alla ricerca di nuovi giacimenti. Ma l’Iea non ha forse messo nero su bianco che se si vuole restare entro i limiti di 1,5 °C di incremento di temperature, le nuove prospezioni devono essere fermate, tutte?
Insomma, non è chiaro chi fa la politica energetica in Italia, e nell’interesse di chi.
Alcuni operatori hanno comprato a prezzi bloccati e rivendono a più del doppio. Perché non conviene estrarre altro gas in Italia
Il persistere dell’enorme incremento dei costi di generazione dell'energia sta avendo conseguenze economiche molto preoccupanti, sia lato inflazione sia per il pericolo di un rallentamento (se non addirittura interruzione) della ripresa, e ha di fatto messo in crisi il sistema produttivo italiano. Le cause intrinseche di questo aumento derivano dalla struttura del sistema energetico europeo e dalla sua dipendenza dal gas.
L’Unione europea, pur disponendo di un sistema di infrastrutture di importazione diversificato, non ha potuto sottrarsi alle dinamiche globali, non dominabili, degli aumenti di prezzo. Questo per una serie di motivi: gli approvvigionamenti si concentrano per oltre il 50% su un solo fornitore extra UE; manca una regolamentazione comune e applicata in tutti gli Stati membri sulla sicurezza, con particolare riferimento alla gestione degli stoccaggi e al relativo uso delle riserve; le barriere tariffarie determinate dalla regolamentazione degli scambi cross border (tariffe infrastrutture gas) hanno penalizzato l’Italia; i prezzi della CO2 sono aumentati, e su tutto ciò vi è una sensibile presenza di posizioni finanziarie speculative che peggiorano la situazione.
Palese, dunque, l'incremento dei costi di generazione dell'energia, ma altrettanto palesi gli extra profitti degli operatori, che non aiutano a calmierare tali costi. Circa i due terzi di combustibile che importiamo dalla Russia, infatti, vengono acquistati a valori quasi dimezzati rispetto alle attuali quotazioni, grazie a contratti a lungo termine siglati anni fa, a prezzi fissi tarati sui valori di allora. È lo stesso presidente russo, Vladimir Putin, ad affermare che le compagnie energetiche italiane stanno facendo affari d'oro con il gas russo, rivendendolo a quasi il doppio del prezzo che stanno pagando. Si parla di extra profitti che ammontano ad almeno 4 miliardi di euro: per fare due conti, un metro cubo viene pagato circa 30 centesimi e rivenduto a 50, con un profitto di 20 centesimi, che basta moltiplicare per 20 miliardi di metri cubi (fonte: dichiarazioni presidente Nomisma).
Però, a causa della riservatezza dei dati e di strategie di acquisto differenti da soggetto a soggetto, è estremamente difficile individuare chi realmente abbia subito l’aumento del costo energetico. Gli acquisti effettuati con contratti di lungo termine avrebbero dovuto azzerare, o quanto meno calmierare, l’incremento di prezzo rispetto a chi ha operato in mercati spot. Il consumatore legato a contratti di lungo periodo, cioè, non avrebbe dovuto subire incrementi di costo della componente energia, quando sembra stia accadendo il contrario, dato che il prezzo di questi contratti si sta agganciando al prezzo del mercato spot.
Le infrastrutture nazionali (i cui costi devono in parte ancora essere ammortizzati) garantiscono un approvvigionamento di provenienza diversificata che, secondo i dati sul bilancio del gas naturale forniti dal MiTE, non è sfruttato al massimo della sua capacità. Gli scenari futuri di riduzione dei consumi nazionali prevedono, infatti, un aumento della capacità dei punti di ingresso che saranno impiegati per il gas di transito, così come sta avvenendo in questo momento.
Attualmente le forniture per l’importazione in Europa sono state garantite e secondo alcuni analisti non c'è motivo di ritenere che la Russia non intenda rifornire più l'Europa, d’altronde ci guadagna. È da notare come il gas russo, nonostante le garanzie di Putin a Draghi sul mantenere stabili le forniture nei confronti dell’Italia, stia cedendo il passo a forniture di Gnl fortemente sostenute dalla diplomazia europea, disponibile ad aprire relazioni con Stati arabi, come il Qatar, e gli USA. Solo da pochi giorni, inoltre, è ripreso l'approvvigionamento anche dalla Libia.
Pensare di riprendere una produzione nazionale di gas non fa che consolidare la dipendenza del nostro sistema energetico a una fonte dalla quale dovremmo a mano a mano affrancarci, e non è un’operazione conveniente per più ordini di motivi.
Nell’ambito del mercato del gas, le regole europee di formazione dei prezzi non permettono di ricavare vantaggi diretti dall'aumento della produzione nazionale di gas naturale. Dovrebbe essere messo in piedi un complesso normativo “di emergenza”, temporaneo, che deroghi alle attuali regole di mercato, e questo non sarebbe né semplice né veloce. Nel frattempo non avremmo una riduzione dei costi energetici rispetto a quelli di mercato. Ed in ogni caso anche aumentare la produzione interna non è una faccenda veloce, ci vorrebbe almeno un anno.
Poi c’è il rispetto degli obiettivi climatici, che impongono una notevole decrescita dei consumi finali da fonti fossili e da gas naturale. Un ribasso previsto anche nel PNIEC, i cui obiettivi devono essere ancora adeguati all'European Green Deal, per arrivare a un'Europa climaticamente neutra entro il 2050. Eventuali incrementi di produzione nazionale di gas naturale potrebbero comportare anche una revisione dell’appena pubblicato Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (PiTESAI), che dovrà valorizzare la sostenibilità ambientale e socio-economica delle diverse aree, ridurre gli impatti complessivi derivanti dalle attività upstream e accompagnare il processo di decarbonizzazione (il Piano suggerisce di valutare una dismissione anticipata di alcune concessioni di idrocarburi considerate scarsamente produttive).
Ma ammettiamo che si voglia aumentare la produzione nazionale di gas naturale. Attualmente è di circa 3,3 miliardi di metri cubi. Senza ulteriori investimenti e sfruttando le attività esistenti, si arriverebbe a un incremento di soli 0,7 miliardi di metri cubi all'anno. Stando alle dichiarazioni del ministro Cingolani, si potrebbe invece arrivare a circa 8 miliardi di metri cubi. Più che raddoppiare la produzione attuale significherebbe aggiungere pozzi nei giacimenti già in produzione (infilling), procedere a un'attività di manutenzione straordinaria dei pozzi esistenti (workover), oppure sviluppare nuove concessioni (in Adriatico, e non solo, operazione quest’ultima altamente sconsigliata per gli impatti ambientali e sociali che comporta). Si tratta di manovre che, a essere ottimisti, richiederebbero almeno un paio di anni e che avrebbero anche un costo molto alto.
Affinché il progetto prospettato dal MiTE possa prendere corpo, lo Stato dovrà poi trovare un accordo coi produttori su come recuperare gli investimenti necessari e gli effetti delle annunciate cessioni a prezzo calmierato all'industria (non è chiaro se con prolungamenti/ampliamenti degli attuali ambiti di attività o altre forme di contropartita) e si dovrà sobbarcare ulteriori oneri, ai quali vanno aggiunti anche quelli derivanti dai maggiori impatti sanitari e ambientali sui territori e sulle economie locali interessate.
L’operazione inoltre non ha nessuna certezza di mercato. I costi del gas naturale prodotto in territorio Italiano sono superiori rispetto a quelli del gas importato. Oggi abbiamo diversificato la capacità di approvvigionamento di gas naturale, attraverso investimenti sulle infrastrutture, le quali hanno costi socializzati che, a prescindere dal loro utilizzo o meno, sono comunque scaricati in bolletta. Si tratta di costi che, auspicabilmente, in un periodo minore rispetto a quello necessario per incrementare la produzione nazionale (almeno 2 anni), potrebbero essere ammortizzati meglio.
Nella valutazione complessiva è importante tener presente che nel territorio nazionale non abbiamo riserve certe di gas naturale. Secondo i dati forniti dal MITE, esse ammonterebbero a 45,7 miliardi di metri cubi standard (Sm3) (attualmente ne estraiamo circa 3,3 miliardi di Sm3, che si vorrebbero portare a 8; in tal caso bruceremmo riserve strategiche che potrebbero esserci utili in casi di necessità e urgenza, ipotesi al momento lontane secondo i criteri di valutazione del MiTE).
Tutto questo per dire che, proprio perché stiamo pagando carissimo le scelte sbagliate degli anni passati che ci hanno legato alle fossili, al petrolio e al gas, è arrivato il momento di liberarci da questo cappio al collo e puntare alla transizione energetica come a una grande opportunità. Va riformato e completato il mercato energetico, ancora strutturato per il vecchio modello fossile, e ripensata la fiscalità, per ridistribuire equamente i sacrifici e i vantaggi. Vanno liberati da una serie di ostacoli irragionevoli le rinnovabili e gli interventi di risparmio energetico, che rimangono la migliore soluzione. Dobbiamo accelerare su autoproduzione, autoconsumo ed efficientamento energetico e rafforzare le comunità energetiche, sia nel settore privato che in quello pubblico, sfruttando i tanti fondi a disposizione. Dobbiamo sostenere le aziende che hanno subito fortemente l’aumento dei costi e supportarle verso l’innovazione tecnologica e la conversione ecologica dei processi produttivi, oltre che pensare a nuove filiere produttive.
Sono tutti interventi ampiamente descritti nella mozione appena presentata e sottoscritta da tutto il Gruppo M5S Senato, di cui sono il primo firmatario. Nei 27 impegni che chiediamo al Governo nel testo della mozione è racchiusa una cassetta degli attrezzi con la quale costruire un nuovo modello energetico efficiente, sicuro e democratico, attraverso interventi concreti con effetti immediati nel breve e lungo periodo; sono tutti strumenti di cui ci auguriamo il Governo faccia tesoro, anche nella messa a punto del nuovo decreto contro il caro bollette. E se al momento la priorità è trovare risorse per calmierare i prezzi delle bollette per cittadini e imprese, sarebbe il caso di andarle a recuperare da chi in questa emergenza sta godendo di extra profitti, anche nel settore delle fossili.
Perseverare con l’attuale modello energetico sarà un diabolico bagno di sangue, non il contrario. Gli strumenti a disposizione ci sono. Utilizzarli significa non solo ridurre i costi delle bollette, ma anche aumentare l’autonomia energetica di famiglie e imprese, affrancarci concretamente dalle fossili, rispettare in pieno gli obiettivi climatici, combattere la povertà energetica e alimentare un circolo virtuoso di lavoro sostenibile che rilancia il comparto produttivo e protegge l’ambiente, noi stessi e le future generazioni.
* Presidente Commissione Industria del Senato e coordinatore del Comitato Transizione ecologica del M5S
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