Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Partito Ambientalista i Verdi (Svezia) - Wikipedia

Sabato parteciperò all’Assemblea ecologista convocata a Firenze. Quanto segue è l’intervento che intendo fare.

Mi trovo qui con sentimenti contrastanti: in parte speranza in parte disperazione. Trovo che la necessità di un soggetto spiccatamente ecologista sia una necessità urgente. Questo per la parte speranza. In quota disperazione non mi resta che affidarmi alla mia biografia. Proverò a spiegarmi con un solo ma chiaro caso: il nucleare.

Sono andato a votare il primo referendum del 1987. Avevo i capelli, peraltro lunghi, e mi sarei laureato due anni dopo. Sono andato al secondo referendum, del 2011: i capelli erano un lontano ricordo, in compenso lavoravo da 20 anni come giornalista e una decina di anni prima avevo chiuso definitivamente i miei rapporti con il mondo dei motori. Oggi mi ritrovo a sentir parlare di nucleare, la pelata è sempre quella ma il pelo è grigio, e comincio a intravedere la pensione, a quanto sembra. Mi auguro lunga vita ma il più sembra fatto, non credo di arrivare a 116 anni. E il nucleare torna a farsi sentire.

Nel frattempo una fetta sempre maggiore di società ha preso coscienza del cambiamento climatico e iniziano a farsi sentire le prime azioni globali, forse insufficienti ma è un inizio. A farsi sentire con sempre maggior autorevolezza sarà il pianeta, quindi la presa di coscienza non può che aumentare.

La persistenza, che sembra quella delle scorie radioattive, dell’ipotesi «nucleare», di cui si fa portavoce un ministro se possibile peggiore del non compianto Galletti, è dovuta all’assenza di una coscienza politica ecologista in qualsiasi formazione politica di maggioranza o minoranza.
Ci sarebbero i Verdi, ora Europa Verde, ma non vengono votati: caschi il mondo le X non arrivano. Eppure sono conosciuti: affondano le loro radici nell’anno del primo referendum antinucleare. La Federazione è del ’90 (la Lega Nord, che si usa citare come partito più antico, è del ’91), tutti sanno che esistono, sulla scheda è facile riconoscerli. Il perché non importa qui, il dato è quello che vediamo. E’ anche vero che parte dell’ambientalismo è stato drenato dal M5s, ma quello è un partito generalista e molto confuso sui valori essenziali. Io posso anche votare qualcuno che ha le mie stesse idee sulla ciclabilità ma se poi dà lo sfratto alla Casa Internazionale della Donna mi ha perso per sempre. Non è un’opzione.

Come vedete la disperazione è argomentata. Torno alla speranza, che avrà ampi modi per essere vanificata. Uno di questi è la costruzione di un soggetto nuovo con dinamiche vecchie: una nuova generazione di dirigenti, non importa l’età, che vede i movimenti attivi della società, di cui io sono parte, solo come vasche di consenso elettorale. Nella mia esperienza i soggetti strutturati si sono sempre posti nei confronti dei movimenti dal basso come la spugna che assorbe, senza dialogo – se non sovraordinato – con le novità sociali. Il rischio c’è sempre e solo le dinamiche dei prossimi tempi diranno se verrà disinnescato. Probabilmente questo appuntamento è l’ultima chance per un cambiamento vero, profondo, come diceva Alex Langer.

Commenta (0 Commenti)

Mattarella all'altare della patria © LaPresse

Questa volta hanno vinto i peones. Non si può dubitare che i voti “spontanei” per un Mattarella-bis, cresciuti progressivamente fino a 387 nella settima votazione, abbiano dato una indicazione resa irresistibile dal confuso affannarsi dei leader in candidature incaute, come quella della Casellati, e indicazioni velleitarie o di bandiera.

Alla fine, la rielezione di Mattarella è il risultato migliore nella situazione data. Ma tutti hanno in vario modo perso.

Perde il parlamento, non tanto per il numero delle votazioni, alla fine contenuto, quanto per l’incerta e confusa gestione di gruppi dirigenti che non governavano il proprio partito. Ora, il centrodestra è in pezzi, il centrosinistra non è in buona salute, e si avviano le rese dei conti. Meloni attacca a testa bassa, Salvini è in palese difficoltà, e tra Conte e Di Maio volano scintille. Qualche mugugno affiora anche nel Pd.

Perde il governo, nonostante Letta si affanni a dichiarare il contrario. L’esecutivo non si rafforza quando due dei maggiori partiti che lo sostengono sono in piena bagarre e vedono più o meno apertamente contestate le leadership.

Perde infine Draghi, perché un premier pluri-osannato che si autocandida e riceve un no da forze che lo sostengono a Palazzo Chigi non esce bene dalla competizione. Non recupera riciclandosi come sponsor della rielezione di chi avrebbe voluto sostituire. Né basterà per cancellare l’onta battere i pugni sul tavolo in Consiglio dei ministri.

Vince Mattarella, con un profluvio di ringraziamenti. Ma la rielezione, per come è andata, garantisce continuità, non stabilità.

Come ho scritto, i veri contendenti in campo per il Quirinale erano dall’inizio solo due: Mattarella e Draghi. Qualunque scelta diversa sarebbe stata un minus. Dunque, il recupero di Mattarella realizza uno dei (buoni) risultati possibili. Ma il quadro politico generale si è indebolito, e nei mesi che verranno le turbolenze si riverseranno nella competizione inevitabile in vista del turno elettorale del 2023. Non si fermeranno certo alla soglia del Consiglio dei ministri.

Per non appesantire un carico di problemi di per sé gravoso, sgombriamo il campo dalle questioni inutili, a partire dai dubbi sulla piena conformità alla Costituzione del secondo mandato.

Come ha scritto Gaetano Azzariti su queste pagine, la Costituzione non pone alcun divieto, e sarebbe sbagliato pensare che la mancata previsione sia una disattenzione dei costituenti. Fu una scelta voluta. Lo dimostra la inclusione nel testo originario dell’articolo 88 del semestre bianco, che aveva senso solo assumendo la rielezione come possibile. E non c’è uno “spirito” dei costituenti che indichi il contrario. La mancanza di un divieto si deve leggere piuttosto come un margine di elasticità del modello, che è un connotato essenziale di tutta la parte relativa alla forma di governo, ed offre, a mio avviso, un pregio della Costituzione vigente. Che mandi in sofferenza i costituzionalisti non deve impressionare oltre misura.

Diciamo poi no alle pulsioni per l’elezione diretta. Un presidente eletto da una maggioranza sulla base di un programma politico presentato in una campagna elettorale formale non potrebbe mai essere un rappresentante dell’unità nazionale nel senso che oggi la Costituzione assegna al capo dello Stato. In specie nel momento storico attuale l’elezione diretta di un capo di stato o di governo è divisiva. Mentre l’esperienza di altri paesi dimostra che non necessariamente garantisce maggiore stabilità e governabilità. Meglio tenere quel che abbiamo.

Invece, il voto per il Quirinale ha messo in piena luce lo stato-semi-comatoso dei partiti politici. Qui è il vero ventre molle del sistema italiano. Dovremmo allora puntare a interventi volti in prospettiva a rivitalizzare i partiti. Fra questi, spicca la legge elettorale, che Letta fa bene a riprendere. Ma si convinca per il sistema proporzionale, il solo che può contribuire a stimolare nei soggetti politici una ricerca di identità e di progetto, e già indicato come necessario correttivo dello sciagurato taglio dei parlamentari.

A questo si potrebbero utilmente aggiungere una legge sui partiti, e una sul finanziamento pubblico da ripristinare.

Speriamo che i pruriti costituenti recedano, e che la politica italiana ritrovi una buona salute. Auguri a Mattarella, che ha contribuito almeno per il momento a contenere la febbre.

Commenta (0 Commenti)

Sergio Mattarella

Sergio Mattarella © LaPresse

L’assemblea dei “grandi elettori” sabato pomeriggio ha (ri)eletto, convinta e grata, Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Invece, dal racconto sui principali quotidiani, sembra che abbiamo confermato, con pari determinazione, Sergio Mattarella al Quirinale e Mario Draghi a Palazzo Chigi.

Non è cosi. È chiaro il fine strumentale di tali letture: si coltiva il “bis” anche per la Presidenza del Consiglio nella prossima legislatura.

Con realismo dobbiamo riconoscere che, al bivio storico al quale è l’Unione europea e date le condizioni della nostra finanza pubblica, Draghi è una risorsa per l’Italia, preziosa nel quadro della classe dirigente in prima linea. Tuttavia, la nostra democrazia costituzionale è irrinunciabile e i fatti della triste settimana passata possono aiutare a rianimarla.

Certo, dalle giornate quirinalizie, il Premier esce ingigantito nei confronti di sedicenti kingmaker e leader di carta e di fronte a partiti e schieramenti in pezzi. I consigli dei ministri avranno interferenze “esterne” meno incisive. Ma il dato politico fondamentale è l’avvio, da sabato, del movimento verso un riequilibrio costituzionalmente corretto del rapporto tra Presidente del Consiglio e Parlamento.

Le cause sono due, intrecciate.

La prima, soggettiva, è dovuta al ridimensionamento politico di Draghi per la sua insistenza istituzionalmente scomposta per arrivare al Colle: da ultimo, la convocazione a Palazzo Chigi dei segretari di partito, a urne aperte a Montecitorio, ha spostato su Mattarella anche chi ancora puntava sull’ex presidente della Bce.

La seconda ragione, sistemica, è il risveglio dei singoli parlamentari di fronte all’impasse e all’imbarazzante show di Matteo Salvini, a volte sostenuto da sponde incaute dalle nostre parti. In questo passaggio, il Parlamento, relegato da tanti anni in una sempre più angusta marginalità, ha orientato le delegazioni trattanti dei partiti e risolto un puzzle, il più difficile della storia della Repubblica italiana, in primis per l’assenza di una maggioranza politica.

Stavolta, “la centralità del Parlamento” non è stata un irritante ritornello. Il Covid ha fatto spalancare i portali del Transatlantico. La fredda volontà popolare è potuta entrare. A partire da Stefano Ceccanti, con tante colleghe e colleghi del Pd, del M5S e anche dell’altro campo, l’abbiamo interpretata. Come formichine operaie, per 4 giorni abbiamo accumulato la soluzione: 126, 166, 336, 387 voti per Mattarella e, infine, il traguardo.

Abbiamo esercitato la nostra funzione “in rappresentanza della nazione, senza vincolo di mandato” (Art 64 ). Nel voto di maggiore rilevanza costituzionale, il ruggito dei tanto disprezzati “peones” è stato decisivo. Volevamo evitare il “bis”. Non ci siamo riusciti. Ma non è stato tempo perso: ci siamo riconosciuti al di là degli schieramenti.

Ora, dobbiamo tornare ad esercitare la nostra funzione: per evitare il segno liberista nelle attese “riforme” incluse come conditionality nel Pnrr e per muovere, al riparo del Colle, i primi passi di una ricostruzione istituzionale e politica.

Innanzitutto, per la revisione dei regolamenti di Camera e Senato per connetterli al taglio degli scranni e limitare comportamenti opportunistici di singoli e gruppuscoli. Poi, per una legge elettorale proporzionale, con sbarramento adeguato, e le preferenze. Infine, per una legge sul finanziamento della politica facendo tesoro degli errori passati, ma anche delle classiste distorsioni vigenti.

Il percorso va completato nella prossima legislatura “costituente”: superare il bicameralismo perfetto, divenuto monocameralismo alternato; promuovere la stabilità dell’esecutivo con la “sfiducia costruttiva”disinnescare l’“autonomia differenziata” e ridare il primato allo Stato, a partire dalla Sanità.

La prossima legislatura è l’ultima chance: senza ristrutturazione della Repubblica parlamentare e senza il risanamento morale, intellettuale e organizzativo di grandi partiti, su identità distintive, una forma di semi-presidenzialismo ben bilanciata sarebbe il “male minore”.

Commenta (0 Commenti)

Legge elettorale. Tre condizioni per una riforma che metta al centro il rapporto tra cittadini e politica

Un seggio elettorale a Genova

 

Un seggio elettorale a Genova © Ansa

La rielezione di Mattarella sembra proprio paragonabile a un forte terremoto, la cui onda d’urto si stenta ancora a comprendere pienamente. Il sistema politico e istituzionale italiano ne uscirà comunque molto diverso: tutto sta a vedere in quale direzione.

Tra molte altre, si riapre forse anche la questione della legge elettorale.

Non c’è dubbio che il sistema dei partiti, ha rivelato tutta la sua fragilità. Ma bisogna prima capire in che modo rispondere ad alcune domande: il sistema politico e istituzionale è in crisi perché «non sa decidere», o perché siamo di fronte ad un radicale deficit di legittimazione democratica della rappresentanza e all’assenza di partiti in grado di svolgere decentemente i loro compiti? Come si affronta questo deficit? Ci sarà ancora qualcuno che potrà parlare, senza arrossire, di bipolarismo e di «maggioritario»?

Solo una riforma elettorale proporzionale potrà aiutare a perseguire una decente ristrutturazione del sistema dei partiti, riallineando la rappresentanza politica lungo un asse destra-centro-sinistra che conserva tutta la sua rilevanza e riportando in primo piano le culture politiche presenti nella società italiana.

Dovrebbe essere oramai chiara l’insostenibilità di uno schema dottrinario «bipolare» e gli effetti di frammentazione che sono stati prodotti proprio dai sistemi che, sulla carta, avrebbero dovuto legare i partiti ad una coalizione. Ma non basta dire «proporzionale». Con la riduzione del numero dei parlamentari, diventa decisivo il modo con cui questi vengono eletti, legittimati e selezionati: e allora, si cominci a discutere nel merito.

Le «tecnicalità», in questa materia, sono forse noiose, ma sono intrinsecamente politiche. E quindi invito il lettore ad un attimo di pazienza…

In primo luogo, il ritorno al voto di preferenza sembra necessario in questo passaggio della storia politica italiana. Il voto di preferenza, in generale, presenta molte contro-indicazioni; ma queste possono essere limitate con alcune correzioni: in particolare, aumentando il numero delle circoscrizioni, eleggendo cioè non più di sei-otto parlamentari per ogni area territoriale. In tal modo, anche i costi delle campagne elettorali possono essere contenuti, e si può ridare all’elettore un potere di scelta sulla propria rappresentanza, ricostruendo un legame tra partiti, candidati e territorio.

In secondo luogo, occorre adottare un sistema di attribuzione dei seggi simile a quello della «Prima Repubblica», che preveda cioè l’elezione «dal basso», ossia il meccanismo dei quozienti pieni e poi del collegio unico nazionale per i resti.

In terzo luogo, è necessaria una soglia di sbarramento al 5%, ma prevedendo (come accade in forme diverse anche in Germania) che questa soglia possa essere «aggirata» se «scattano» alcuni quozienti pieni in almeno tre circoscrizioni.

Con questa combinazione di regole, ogni elettore può conoscere meglio i candidati, votare un proprio rappresentante, e sa di poterlo eleggere nel proprio territorio. So che una soglia di sbarramento elevata suscita reazioni negative in una parte della sinistra: ma è fondamentale introdurla. È l’unico modo per tagliare drasticamente, da un lato, nella galassia centrista, le piccole e grandi rendite di posizione che i sistemi «a premio», con il vincolo di una coalizione pre-elettorale, conferiscono a tutti i micro-partiti personali; e per costringere, dall’altro lato, le forze a sinistra del Pd, se non vogliono ridursi ad una (sempre più debole e irrilevante) testimonianza identitaria, a trovare un punto di unità realistico e credibile (quello che sta succedendo alla sinistra francese, in vista delle presidenziali di aprile, è tragico e grottesco allo stesso tempo).

Infine, ci sono gli scenari tattici: non sarà facile condurre in porto una decente riforma elettorale. A destra stanno volando gli stracci, ma Meloni e Salvini hanno un comune interesse a tenere al guinzaglio Forza Italia, conservando un sistema che la costringa ad un’alleanza preventiva.

Nei convulsi giorni alle nostre spalle, è stato curioso vedere i piccoli gruppi centristi del centro-destra schierarsi per il proporzionale: chissà, a volte alcuni effetti benefici si possono anche produrre attraverso le vie più impreviste e meno scontate.

Ma l’interrogativo più rilevante riguarda il Pd: avrà il coraggio di lasciarsi alle spalle la retorica del «maggioritario»?

 
Commenta (0 Commenti)
Ammettiamolo onestamente: sono un vecchio Grinch. Già qualche anno fa scrissi un racconto di Natale, piuttosto amaro.
Questo è ancora peggio.
Però vuole essere il mio regalo di Natale per tutti coloro che da anni seguono, sopportano e supportano i miei sproloqui su Fb. Proprio per questo l'ho lasciato con visibilità aperta "urbi et orbi": ognuno copincolli o condivida quel che vuole, purché mi citi correttamente come autore.
Contiene sicuramente molte inesattezze: l'ho scritto in fretta, finito mezz'ora fa, ricontrollato poco.
Ah... è anche lunghissimo.
Ma visto che vi hanno tolto feste di piazza ed eventi vari, di tempo per leggere ne avrete.
 
Buon Natale a chi crede e buon futuro a tutti.
Slow Colours of Shade
 
Antonella è a Ravenna da quasi due anni.
Ma non si è mai abituata.
Al clima.
Alla città.
Ai romagnoli.
Nemmeno alla cucina: in Romagna abbrustoliscono la carne fino a bruciacchiarla.
Per lei, toscana di Palazzo del Pero, una vera bestemmia.
L'unica cosa che le piacerebbe sarebbe il suo lavoro. Se solo fosse un po' più interessante.
Ma occuparsi di cronaca locale in un giornale locale che più locale non si può non scatena certo gli entusiasmi professionali di una giovane praticante.
Ma è stato il meglio che ha trovato uscita dal corso di giornalismo.
Le alternative, anche se più vicine a casa, erano scrivere pezzi di colore sulla Sagra del Vin Santo o articoli sugli ultimi pastori del Casentino.
Non è proprio che qui non succeda un cazzo, eh... ma i femminicidi, lo spaccio, gli accoltellamenti al Porto, li copre di solito il suo collega, ravennate d.o.c., nelle grazie del caporedattore, del direttore e ben introdotto negli ambienti investigativi.
A lei le briciole: "ciclista ottantaquattrenne investito nella nebbia" o "sbanda con la moto: ne avrà per 40 giorni".
Cose così. Da due anni.
Fino alla mattina di Natale.
Quando alle 8.20 la chiama il capo.
- Vai di corsa a Faenza. Ci sono stati quattro morti in un cantiere mezz'ora fa... -
- Ma... a Natale? -

Nessuna descrizione della foto disponibile.

Questa estate, girando tra i banchetti del mercato settimanale della bella località balneare di Pollica-Acciaroli (SA), mi imbatto in un cartello su cui è scritto “reddito di cittadinanza” con sotto la foto della carta di credito PostePay utilizzata per ricevere e utilizzare il reddito mensile.

Incuriosito dall’insolito avviso, mi avvicino alla postazione di vendita che esponeva il cartello, un furgone con annessi espositori di abbigliamento, pantaloni, t-shirt, ecc. Chiedo al giovane commerciante ambulante cosa significava quell’avviso, lui mi risponde educato: “Noi vendiamo anche a chi acquista con la carta di credito, dottore, così cerchiamo di aumentare un po’ le vendite che sono modeste”.

“Beh – dico io – ma avete della roba discreta, non si vende?”. “Purtroppo poco – mi risponde serio il giovane – le cose non vanno bene, a stento copriamo i costi del carburante e di un pasto”. Acquisto due pantaloni bermuda corti, di buona fattura, 15 euro l’uno, totale 30 euro, veramente poco, mi rilascia regolare scontrino fiscale e lo saluto.

Certo, pensavo, a Bologna con 15 euro ci compro massimo due paia di calze, senz’altro non un buon pantalone ben rifinito, è il mercato bellezza! I prezzi si adattano al tenore di vita. Poi è chiaro che quella fabbrica che ha fatto i bermuda, forse ha pagato a nero i suoi dipendenti, oppure dichiara al fisco un terzo del fatturato o entrambe le cose. È il circuito maledetto della marginalità meridionale: precarietà ed evasione fiscale sono i presupposti di un’economia debole e stagnante.

Si sta facendo contro il reddito di cittadinanza una campagna demolitiva, da parte soprattutto della destra: Salvini e Meloni, ma a turno anche Forza Italia, non passa giorno che non ne chiedono l’abrogazione come se da questo derivassero tutti i mali del Paese. Gli fa buona compagnia il presidente di Confindustria Carlo Bonomi e la gran cassa di pressoché tutti i media mainstream.

Ha detto bene Pasquale Tridico, presidente dell’Inps: rispetto ad altre forme di evasione, che stiamo tutte perseguendo, quella del RdC è l’1%, non si alzano grida di sdegno “al ladro” quando scoviamo tremila aziende che hanno percepito indebitamente la cassa integrazione o quelli che hanno truffato per avere il bonus Covid (anche parlamentari).

Ora si dice che l’Italia va forte, sì ma quali sono i dati reali dell’economia? Il fatturato industriale cresce ma non ha ancora recuperato ciò che si è perso nei due anni precedenti e comunque venivamo da circa vent’anni di stagnazione con cadute anche nella recessione e perfino nella depressione: dopo la “big finance crisis” del 2008, la ripresa è stata molto debole, poi è arrivata la mazzata del Covid.

Soprattutto quel che di cui non si dice nulla, riguarda la struttura produttiva del Paese: lo squilibrio Nord Sud sta diminuendo o al contrario il divario si allarga? Si riduce la precarietà nel lavoro e si contrasta lo sfruttamento dei migranti? Si sta lavorando per migliorare la struttura dei trasporti collettivi? S’interviene sul dissesto idrogeologico e per ridurre le emissioni inquinanti? Sta aumentando il controllo di legalità per recuperare sull’evasione fiscale? Si sta provvedendo a ridurre il gap digitale, per cui abbiamo ancora vaste aree del paese dove c’è scarsa connessione?

Noi non abbiamo bisogno di crescita quantitativa, abbiamo bisogno di aumentare produttività e qualità, ma soprattutto di maggiore redistribuzione della ricchezza che al contrario si è finora sempre solo concentrata. Dicono che abbiamo un Draghi nel motore ma al momento sembra più un vapore che una turbina!

“O sazio nun crere a o riuno” è una frase molto nota a Napoli. Letteralmente significa: “Chi è sazio non crede a colui il quale è invece a digiuno”. Il Paese soffre e soffrono soprattutto i poveri, che esistono e non possono essere cacciati sotto il tappeto come si fa con la polvere, così come ci sono migliaia di lavoratori che non riescono col loro lavoro a vivere dignitosamente, poi la scuola, la sanità, i trasporti e tutti i servizi pubblici devono funzionare bene, altrimenti altro che locomotiva d’Europa, resteremo un ronzino ansimante. Buon Natale!

Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 22 dicembre 2021

 

Commenta (0 Commenti)