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Intervista. Parla il capomissione della ong umanitaria italiana Stefano Sozza

Khan Yunis (Ap) Khan Yunis - Ap

Dopo mesi in attesa del permesso umanitario, Emergency è entrata a Gaza per offrire assistenza sanitaria di base alla popolazione martoriata dalla guerra. Abbiamo intervistato il capomissione Stefano Sozza.

Quali sono gli obiettivi più immediati di Emergency nella Striscia?
Le motivazioni che hanno spinto Emergency a questo passo sono molteplici. Partirei elencando le oltre 40mila vittime tra cui 16.500 bambini e gli oltre 93mila feriti che ci sono stati dall’inizio del conflitto. Questi numeri si vanno ad inserirsi in un contesto che è caratterizzato da condizioni di vita estreme. Due milioni e 300mila persone sono soggette a continui ordini di evacuazione e costrette a ritirarsi in quella che è chiamata la zona umanitaria in cerca di sicurezza e di rifugio. Abbiamo visto che la guerra ha portato a una grave mancanza di elettricità, di cibo, acqua, medicinali per tutta la popolazione. La malnutrizione è sempre più diffusa così come le malattie trasmissibili e c’è sempre meno acqua potabile. Per quello che concerne Emergency, (i palestinesi di Gaza) non hanno accesso alle cure mediche di base in quanto il sistema sanitario è collassato. E sono gravi i danni subiti dalle strutture sanitarie in seguito ai bombardamenti. Sin dall’inizio del conflitto ci siamo attivati per valutare la possibilità di un intervento nella Striscia. Per noi essere qui è un dovere ed è anche un onore cercare di dare il nostro contributo a questa popolazione. Emergency era già stata tra il 2003 e il 2004 a Jenin, dove abbiamo inviato una squadra chirurgica all’unità ospedaliera pubblica. A Gaza invece è la prima volta.

In quale area sarete operativi?
Al momento il nostro progetto è composto da un capomissione e un logista che hanno lo scopo di individuare un luogo adatto dove poter costruire una clinica per l’assistenza di base alla popolazione. Le zone identificate sono tra Deir al Balah e Khan Yunis, nella parte centrale di Gaza, in particolare la parte ovest di questi due governatorati indicata dalle autorità israeliane come una zona umanitaria, una zona sicura dove i palestinesi devono dirigersi se non vogliono correre il rischio di essere possibili vittime delle operazioni militari. Partendo dal presupposto che comunque a Gaza non ci sono zone sicure, in questa piccola porzione di terra che tendenzialmente costeggia il mare, di 46 chilometri quadrati e che rappresenta il 12% della Striscia, si concentrano più di due milioni di persone. Il nostro fine è quello di aiutare nel primo soccorso i sovraffollati ospedali locali, diminuendo la pressione dei pazienti. Quindi la clinica offrirà un primo soccorso, stabilizzeremo possibili emergenze mediche e chirurgiche e trasferiremo il paziente in pericolo di vita agli ospedali. Ci occuperemo anche di chirurgia di base per i bambini e di salute riproduttiva per le donne che devono partorire in condizioni pericolose. Avremo uno staff in prevalenza locale, supportato da operatori internazionali. Prevediamo di avere a Gaza otto internazionali e 20-25 colleghi gazawi tra medici, infermieri e farmacisti e personale non sanitario. Questo è un punto fondamentale perché quasi tutti gli abitanti di Gaza hanno perso il lavoro ed è importante cercare di sostenerli.

Cosa hai potuto vedere e ascoltare andando in giro per la Striscia?
Siamo riusciti a entrare il 15 di agosto superando non poche difficoltà. L’unico valico per Gaza attualmente percorribile per gli operatori umanitari è quello di Kerem Shalom ed è obbligatorio coordinarsi prima con Nazioni Unite. La prima sezione di strada dentro Gaza infatti viene percorsa tramite un convoglio blindato. Salta subito agli occhi la distruzione che la guerra ha provocato: edifici distrutti, strade dissestate e deserte, pochissima gente in giro e tanta desolazione. Non appena si entra in una zona umanitaria il contesto cambia completamente. Colpisce la concentrazione di persone, la presenza di tende e di strutture semplici e fatiscenti praticamente ovunque. Ogni spazio che una volta era libero è stato utilizzato dalle famiglie sfollate come base. Non c’è elettricità, non c’è copertura Internet e se c’è è minima, il sistema di smaltimento dei rifiuti è collassato, le reti fognarie sono danneggiate e scaricano direttamente sulla strada. Una cosa che mi ha impressionato è come l’economia di guerra abbia fatto salire alle stelle i costi dei beni primari. Un litro di benzina, ad esempio, oggi costa 12 euro, ieri costava 17 e prima della guerra solo 1 euro. È una fluttuazione continua che riguarda anche i generi alimentari, e le famiglie che hanno perso il proprio lavoro, i propri averi e non hanno i soldi per garantirsi un sostentamento minimo, non possono che affidarsi alle distribuzioni di cibo e acqua garantite dalle organizzazioni umanitarie. Su questo sfondo c’è la violenza della guerra, i bombardamenti, i droni che pattugliano incessantemente il cielo, le operazioni militari, gli ordini di evacuazione che spostano migliaia di persone già stremate da quasi 11 mesi di guerra. La situazione è catastrofica. In dieci anni di lavoro umanitario ho vissuto diversi contesti come il Sudan, la Siria, l’Afghanistan e l’Ucraina, ma questa è senza ombra di dubbio la peggiore crisi umanitaria che abbia mai visto