A pagare il conto del conflitto, della diminuzione della fiducia e del nuovo protezionismo, saranno soprattutto le fasce più deboli delle popolazioni del mondo. L'effetto sarà l'aumento ulteriore delle diseguaglianze
A un mese di distanza dall’entrata delle truppe russe in Ucraina, si sono moltiplicati gli interventi degli esperti e le pubblicazioni di bollettini, di previsioni ufficiali, di calcoli dei costi economici associati al conflitto. I centri di ricerca hanno delineato gli scenari possibili, hanno fatto girare i modelli di previsione e i risultati sulla possibile evoluzione delle variabili economiche hanno cominciato ad alimentare il dibattito sulle conseguenze economiche della guerra in Europa.
Le stime dell’Ocse parlano di una contrazione del Pil mondiale dell'uno per cento, dovuto per metà alla contrazione della domanda Russa, ai suoi effetti di trasmissione e alla instabilità dei mercati finanziari, e per l’altra metà al rialzo dei prezzi mondiali delle commodities. L’effetto sulla dinamica dei prezzi sarà di un rialzo dell’inflazione di 2,5 punti percentuali. In questa interpretazione, la guerra è dunque uno shock di offerta.
Chi fa previsioni economiche accetta di buon grado il margine di incertezza che il mestiere comporta. L’incertezza è tanto più ridotta quanto più la previsione riguardi il breve periodo e tanto più questa sia effettuata in condizioni di relativa stabilità delle dimensioni strutturali dei sistemi economici. Ma nel caso di una guerra? In tal caso, fare previsioni è una operazione con margini di incertezza così elevati da rendere le stime puntuali un pallido segno orientativo. Quindi prendiamo quell’1 e quel 2,5 per cento, seriamente, ma con il loro margine di incertezza. E proviamo a orientarci su quest’ultima.
La prima importante conseguenza della guerra è che la gente muore. Uomini e donne si trovano all’improvviso a convivere con la presenza continua della morte, della violenza e della distruzione. La vita di ognuno è stravolta dalla realizzazione che tutto ciò che avevamo programmato, pensato di fare, progetti di vita, tutto possa essere fatto a pezzi. E questo è tanto più vero tanto più si sia vicini, fisicamente o emotivamente, al conflitto. La fiducia nella possibilità di riprendere la propria vita com’era prima si affievolisce. Alla tragedia della morte collettiva, della cessazione del lavoro, del blocco della produzione di beni e servizi, della distruzione di infrastrutture, case, ospedali, scuole, si accompagna la recisione della fiducia, individuale e collettiva.
Una misura del calo della fiducia individuale e collettiva è l’abbandono di pratiche abituali di difesa del risparmio. La “corsa agli sportelli” bancari degli istituti di credito russi o ucraini, anche quando presenti in altri paesi, le maggiori difficoltà nell’utilizzazione di strumenti di transazione come le carte di credito o i bonifici bancari, il maggior ricorso al contante (con i costi che questo comporta) ci dice molto di come il conflitto modifichi i comportamenti economici individuali.
D’altra parte, gli studi clinici sugli effetti psicologici di lungo termine dell’esposizione al conflitto mostrano come questi comportamenti possano persistere nel tempo, come sia difficile riprendere una esistenza normale, un lavoro normale, un progetto di vita simile a quello che si aveva prima che la guerra portasse via la fiducia nelle nostre possibilità e quelle della società in cui viviamo di dare valore al futuro.
A tutto questo si aggiunge un elemento di profonda asimmetria. La guerra e la capacità di adattarsi ad essa non è neutrale. I soggetti più vulnerabili, i più poveri, i più socialmente isolati, pagano costi più elevati. La capacità di fuggire, lasciare le proprie cose, non è comune a tutti, e la guerra ha un effetto di accentuazione della diseguaglianza. Anche le sanzioni hanno effetti asimmetrici e se non adeguatamente mirate rischiano di penalizzare maggiormente le fasce più povere della popolazione.
Questi effetti non riguardano solo le popolazioni dei paesi in guerra. La distruzione degli stock alimentari, l’impossibilità di provvedere alla semina dei prodotti cereo agricoli, il blocco dei trasporti, tutto fa prevedere che il rialzo nei prezzi delle commodities durerà nel tempo e questo andrà soprattutto a discapito di quelle popolazioni con seri problemi di sicurezza alimentare. La guerra in Ucraina avrà i suoi effetti in Turchia, in Egitto o in Thailandia. L’interdipendenza tra le economie nazionali deve fare comprendere che tutte le nazioni del mondo, soprattutto nelle fasce meno abbienti della popolazione, pagheranno i costi della guerra.
Ciò può diventare una scusante per quei governi che pensino che una possibile soluzione agli effetti di diffusione dei costi della guerra sia una politica di chiusura delle frontiere, in entrata e in uscita. La perdita di fiducia nelle capacità di coordinamento delle istituzioni internazionali, come l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, può portare a estendere le misure straordinarie adottate durante la pandemia ad altri settori. Il protezionismo potrebbe diventare la facile soluzione da proporre a un elettorato smarrito e poco fiducioso.
Già si vedono i segni di questo. L’adozione di politiche di restrizione volontaria delle esportazioni di prodotti come il grano è stata proposta come una soluzione naturale. Ma la conseguenza in termini di rialzo dei prezzi ricadrà su quelle fasce della popolazione che non hanno la possibilità di sostituire questi acquisti con altri beni alternativi. Gli effetti distributivi di queste politiche si aggiungeranno a quelli della guerra.
In conclusione, a ciò che ora misuriamo in termini di costi economici della guerra in Ucraina, si dovranno aggiungere i costi generati dalla maggior incertezza, dalla minor fiducia individuale e collettiva, e dalle politiche che verranno intraprese.
Luca De Benedictis insegna Economia internazionale all'Università di Macerata