States/Ucraina La rapida trasformazione dell’Ue in una potenza militare non sembra molto più realistica del “piano per la vittoria” sbandierato irresponsabilmente solo poco tempo fa da Zelensky
Quella geopolitica è una dimensione schematica, ripetitiva e povera di varianti. Con diversi nomi, relativi a luoghi geografici e contesti storici differenti, (come vietnamizzazione, irakizzazione o afghanizzazione) gli Stati Uniti hanno sempre indicato il proprio ritrarsi dai teatri di guerra che avevano imposto, costruito o inglobato, lasciando agli alleati la gestione dell’ultima perdente resistenza, dell’inevitabile crollo e dei suoi costi umani ed economici.
Con il conflitto in Ucraina sta accadendo qualcosa di simile: una “europeizzazione” della guerra con esiti altrettanto drammatici e fallimentari a carico di Kiev e della Unione europea, prima sospinti dagli Stati uniti a una linea che non contemplava soluzioni diverse dalla vittoria militare totale contro Mosca, poi lasciati in prima linea a constatare la patente assurdità di una simile pretesa e trarne le dovute conseguenze. Dopo aver abbandonato tutti quei criteri di prudenza (adottati soprattutto da parte di Berlino) volti a chiarire che la Ue non era in guerra con la Russia, né intendeva disporsi a una simile eventualità.
L’Europa non è certo paragonabile per storia e peso economico ai teatri asiatici e medio orientali nei quali Washington ha applicato questo schema facendo perdere ad altri le guerre che aveva incominciato. Trump aggiunge però in questo nuovo scenario una buona dose di azzardo e di brutalità imperiale ritirando il suo aiuto militare a Kiev e minacciando in prospettiva di lesinarlo anche a un alleato storico come l’Europa. La guerra, in questo caso, è stata voluta e iniziata dalla Russia, l’America l’ha però alimentata e virata a proprio favore fino al voltafaccia filorusso. All’Ucraina e all’Unione europea non resta che il compito di perderla nel miglior modo possibile.
Per l’Europa si tratta di un colpo inatteso, di una realtà quasi inconcepibile, qualcosa di abnorme che mette in questione la stessa autorappresentazione degli europei, da sempre convinti che esista l’Occidente e che questo feticcio politico-culturale sarebbe tramontato tutto insieme o tutto insieme fiorito. L’alleanza “occidentalista” con gli Stati uniti e il processo di costruzione dell’Unione europea avevano inoltre illuso i cittadini d’Europa che il nazionalismo che aveva funestato e insanguinato la storia del Vecchio continente non avrebbe mai più preso il sopravvento. Si è invece aggressivamente riaffacciato sulla scena oltre ad essersi saldamente insediato alla Casa bianca e nel governo di alcuni paesi europei.
La risposta della Ue non è delle migliori. Con grande enfasi retorica, ma badando a non offendere il suscettibile Trump, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen dichiara giunta l’«ora dell’Europa» annunciando un gigantesco piano di riarmo da 800 miliardi di euro. Per il rafforzamento militare della Ue saranno attivati fondi comuni, previste deroghe al Patto di stabilità, concessi prestiti, mobilitati i capitali privati. Tutto quello insomma che per l’Europa sociale, per la difesa del clima, per la salute, la ricerca o l’istruzione è stato sdegnosamente escluso.
Tuttavia anche la rapida trasformazione dell’Unione europea in una potenza militare non sembra molto più realistica del “piano per la vittoria” irresponsabilmente sbandierato solo poco tempo fa dal presidente ucraino Zelensky.
L’Europa politica non è mai giunta a compimento, gli interessi economici al suo interno divergono quando non confliggono aspramente come durante la crisi dei debiti sovrani e le sue istituzioni faticano perfino a imporre lo stato di diritto ai paesi membri più inclini all’autoritarismo di regime. Può esistere un esercito comune senza una razionalità politica unitaria che lo governi? E non è forse un pericoloso rovesciamento dell’ordine di priorità conferire all’elemento militare una tardiva funzione fondativa? Il riarmo, tuttavia, fa gola a molti: la spesa militare otterrà le sue risorse con devastanti effetti sul bilancio degli stati (e l’industria bellica le sue commesse) ben prima che gli infiniti problemi della difesa comune europea e del rapporto tra eserciti nazionali e forze armate comunitarie possano essere risolti, semmai lo saranno. Da scommettere c’è solo che sulle bombe e sui missili non graveranno dazi.
L’Europa ha nemici ben più insidiosi e diretti di quelli da cui un esercito, comunque mai all’altezza delle superpotenze nucleari, potrebbe difenderla. Si tratta delle destre nazionaliste che insediate direttamente nei governi, o comunque in grado di condizionarli e ricattarli, avversano da sempre l’evoluzione dell’Europa politica e sociale. Sono queste forze le sponde e gli interlocutori di Putin e di Trump che, ben più realisticamente di un’improbabile invasione dell’armata zarista, lavorano alla disgregazione dell’Unione. C’è in realtà un solo grande movimento europeista che abbiamo visto formarsi nelle ultime settimane: è quello che in Germania ha portato in piazza più di due milioni di persone contro il rischio che l’ultradestra di Afd potesse accedere al potere. È questo il modello che si deve seguire senza nascondere, sventolando la bandiera ucraina, ciò che più direttamente minaccia la democrazia in Europa.