Commenti La strategia di Trump è gangsteristica, ma invece di intravvedere la possibilità che si apre, l’Europa ragiona come se incredibilmente la pace fosse un pericolo
C’è una parola in particolare che descrive quello che è diventata la guerra ucraina. La prendiamo dal vocabolario del grande scrittore Emilio Gadda, che la mutuò da quello romanesco per il romanzo Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, ed è «gnommero». Vuol dire groviglio, garbuglio, matassa annodata, per la quale, se non si va al capo iniziale con cui il gomitolo è stato inizialmente avvolto, non c’è alcuna possibilità di sbrogliarlo. Perché è ormai proprio uno gnommero la crisi che da quasi tre anni si consuma nel sangue di tante giovani vite, ucraine e russe, una intera generazione mandata al macello nel cuore d’Europa. Ma non dimenticando, ecco il punto, l’inizio del 2014 con l’oscura vicenda di Majdan e gli otto anni di guerra civile interna tra esercito ucraino e milizie ucraine filo russe. Nei quali anni abbiamo sentito di tutto, quasi mai una parola di pace dalle leadership internazionali che dopo ben due negoziati, Minsk 1 e Minsk 2 abilmente fatti fallire, hanno abbandonato l’Ucraina al suo destino infausto. Perché bisognava, o meglio ancora bisogna, arrivare ad una «vittoria militare» dell’Ucraina, all’inflessibile ingresso di Kiev nella Nato che, dimenticando che è stata la «ragione» della guerra, è stato rivendicato e praticato fino a poche ore fa come obiettivo dall’Alleanza atlantica.
Da Zelenski da molti Paesi Ue e dai comandi militari in primis dal “nostro” Dragone, nonostante gli Stati uniti – che ne hanno la guida militare e politica – siano stati e sono contrari, prima di Trump lo stesso Biden, comprendendo che lo sbocco sarebbe quello di una guerra totale, atomica con la Russia.
Ora accade che l’isolazionista imperiale Trump – perché è chiaro che il suo isolazionismo lo paghiamo noi, con gli acquisti monopolisti di armi, di energia e sotto l’imposizione di feroci dazi economici – muova a una mediazione e trattativa con l’ultimo nemico dell’Occidente, zar Putin; dopo tre anni di combattimenti e di spargimento di sangue in Ucraina e anche in Russia. È pur vero che una pace fatta di sole imposizioni, sbilanciata e quindi ingiusta non sarebbe che l’anticamera di una nuova guerra come dichiarò Keynes per il trattato di Versailles dopo la Prima guerra mondiale. Ma resta sicuramente altrettanto vero e più accettabile che un cessate il fuoco subito e una trattativa di pace sostenuta dai protagonisti internazionali – non come quella di Istanbul, accettata sia da Kiev che da Mosca, che poteva far finire il conflitto e venne fatta fallire dall’ex leader britannico e transatlantico Boris Johnson – con la prospettiva di una accordo di non belligeranza sarebbe a questo punto meglio di qualsiasi guerra.
L’aspettativa diffusa tra i popoli è grande, come all’interno dei Paesi coinvolti, in Ucraina dove abbiamo sostenuto ogni addestramento alle nuove armi che per miliardi e miliardi abbiamo inviato a Kiev senza accorgerci che centinaia di migliaia di giovani si organizzavano per rifiutare il reclutamento, anche a rischio della loro vita e libertà; e in Russia dove solo la fine di questa guerra può aprire una prospettiva politica diversa dal neo-zarismo putiniano dando voce a quanti la guerra non l’hanno voluta e che rifiutano i processi autarchici del potere di Putin, che indubbiamente la rivendicherà come vittoria, ben misera però; perché a ben vedere a mala pena riuscirà a nascondere la ferita nel corpo sociale della Federazione russa e nel mondo con il chiaro timore della violenza sottesa ad ogni sua promessa. Una sorta di isolazionismo forzato, «rispettato» perché armato, vincente sul terreno dei rapporti di forza ma non del diritto, della civiltà e della democrazia.
Ora, invece di intravvedere le possibilità che si apre, si ragiona come se incredibilmente la pace fosse un pericolo, un rischio. E ogni armamentario ideologico è buono, sempre nella fretta di azzerare le nostre responsabilità e il passato, quello remoto e quello prossimo che più o meno consapevolmente abbiamo vissuto tutti noi. Si ripete dagli scranni del parlamento e dei giornali mainstream che «la sicurezza è stata rimessa in discussione dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina» e che con Tump «stiamo abbandonando il canone occidentale». Ma la domanda è: tutte le guerre che negli ultimi 30 anni l’Occidente ha condotto, con massacri di massa e spargimento di sangue in Somalia, ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia e pure in Siria quale sicurezza hanno costruito nel mondo? E quale messaggio di sicurezza e canone occidentale sono arrivati a Putin che per anni ha chiesto di non allargare la Nato a est con basi militari, sistemi d’arma, missili ai confini russi? Cosa che inesorabilmente e perfino, militarmente tronfi, abbiamo fatto contro ogni evidenza e consapevolezza, diffusa perfino nelle alte gerarchie militari occidentali e nelle analisi dei promotori bipartisan della stessa politica estera Usa?
Sarà sfuggito al cattolico presidente Mattarella che perfino papa Bergoglio per spiegare quel che è accaduto con l’Ucraina abbia azzardato la metafora pungente dell’«abbaiare della Nato ai confini russi»? E quale canone occidentale è emerso da tutte le “nostre“ guerre se non quello del «domino espansivo» – proprio come da lectio magistralis presidenziale? E poi non è singolare il fatto che mentre si azzardano paragoni con il nazismo, a fomentare nella Germania i neonazisti sia l’amico amerikano?
Ma all’occasione di una trattativa di pace, certo ambigua e pericolosa e che può risolversi in un nulla d fatto e precipitarci ancora di più nel baratro, non solo non viene colta ma si risponde con l’impegno ad aumentare i già inutili finanziamenti miliardari in armi a Kiev perché continui la guerra a nome nostro e ora addirittura con la sospensione del famigerato Patto di stabilità per produrre nuove micidiali armi. Vale a dire più odio, più vittime, più guerra. Alimentando in modo cieco l’idea che raggiungere oltre il 35% della spesa atlantica e/o un modello unificato a forza della difesa europea comune – provate a mettere insieme il controllo dell’atomica francese con il comando delle autoblinde lituane -, rappresenti la risposta alla voragine aperta dalla nuova strategia compradora-gangsteristica di Trump – questo è con chiarezza in Medio Oriente, sulla pelle dei palestinesi.
No, la risposta non sono le armi. Il vero deficit dell’Europa unita fin qui realizzata, è un deficit politico. L’Unione non ha strutturalmente una sua politica estera che è stata fin qui guidata dall’Alleanza atlantica, e a dire eterodiretta da Washington.
Prima di ogni difesa comune, dai costi impensabili, è fondamentale che l’Unione europea decida quale è il suo ruolo nel mondo e se non è ora di tornare a ragionare, oltre i troppi muri e fili spinati, degli obiettivi internazionali, inclusivi e democratici verso tutto l’Est – fin qui fatto entrare tutto nella Nato a caccia del nuovo nemico – e verso il Mediterraneo, vale a dire il segmento orientale che è fa parte della sua storia. Solo una strategia estera di pace sarà capace di togliere acqua e alimento a ogni pretesa autarchica, che cresce solo sulla base della rivendicazione nazionalista-identitaria e violenta. Altrimenti le autocrazie e l’estrema destra suprematista cresceranno nel cuore d’Europa sempre più. E a ogni rifiuto di strategia di pace dell’Europa si apriranno, come ora, crisi locali che ingoieranno ogni futuro.