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Kurdistan/Italia Il dirigente di Rifondazione Comunista racconta l'arrivo del leader del Pkk in Italia e il ruolo del governo italiano, in risposta all'intervista dell'ex presidente del Consiglio uscita sul manifesto

Abdullah Ocalan incontra una delegazione di Rifondazione Comunista. Ramon Mantovani è alla sua sinistra Abdullah Ocalan incontra una delegazione di Rifondazione Comunista. Ramon Mantovani è alla sua sinistra

Mi fa estremamente piacere, lo dico sul serio, che Massimo D’Alema tenga ad apparire come amico del popolo kurdo e a cercare di autoassolversi dalle responsabilità che ebbe nella vicenda che portò al sequestro illegale del presidente Abdullah Ocalan. Significa, che nonostante tutto, il corso degli eventi e la statura politica di Ocalan lo hanno indotto ad esternare le cose che ha detto nell’intervista rilasciata a Chiara Cruciati sul manifesto del 14 febbraio 2025.

Mi corre però l’obbligo, per il rispetto che si deve al presidente Ocalan e al popolo kurdo, di fare alcune precisazioni su quanto dichiarato da D’Alema.

Ho più volte, ed anche recentemente a una agenzia kurda, detto che a Rifondazione Comunista, attraverso il sottoscritto, fu richiesto di aiutare il presidente Ocalan a venire nel nostro paese in quanto si trovava in pericolo di vita in Russia, dove i servizi di intelligenza di Eltsin, divisi al loro interno, potevano consegnarlo da un momento all’altro alla Turchia. Per farlo non esitammo a usare tutta la nostra capacità di relazioni interne ed esterne all’Italia e a mantenere, come chiunque sappia come funzionano queste cose può ben immaginare, il riserbo e la confidenzialità su tutti i nostri contatti.

IL NOSTRO AIUTO e la mia personale partecipazione nelle nostre intenzioni erano e dovevano rimanere riservate, sia perché non siamo mai stati abituati, come altri, ad usare lotte e drammi di altri popoli e movimenti per motivi di “visibilità”, sia per evitare che la provincialissima stampa italiana usasse il nostro coinvolgimento per miserabili polemiche interne che avrebbero nuociuto alla causa kurda. In altre parole, non fummo noi ad avere l’idea di “portare” (come scrissero e dissero tutti i giornali e tutte le tv) Ocalan in Italia per dare fastidio al governo o per altri strampalati obiettivi di politica interna. Come se il leader di un popolo di trenta e più milioni di persone si facesse “portare” dal sottoscritto come un pacco.

Anzi, mi preoccupai di spiegare bene ad Ocalan che l’Italia, fra i paesi Nato europei, era sempre stata il paese più servile ed obbediente agli ordini Usa. Ma il presidente Ocalan insistette per venire in Italia sostanzialmente per due motivi. Il parlamento italiano era stato un anno prima, approvando una mia risoluzione, l’unico parlamento europeo a riconoscere l’esistenza di un conflitto armato in Turchia e a impegnare il governo italiano ad adoperarsi per una soluzione negoziata e pacifica.

Il primo effetto che ebbe la risoluzione fu che vennero concessi da quel momento in poi migliaia di status di rifugiati a cittadini kurdi con passaporto turco. Lo stesso ministro degli interni Napolitano, rispondendo alla Camera ad interrogazioni della destra, disse che così si doveva fare in seguito a una decisione della commissione esteri.

Il secondo effetto fu un invito di Ocalan d incontrarlo in Siria al quale andammo Alfio Nicotra, Walter De Cesarias e io. Incontro di cui Liberazione dette notizia con tanto di fotografie. Ocalan era convinto che l’Italia, per questo e anche perché paese della Nato e sede del Vaticano, era il luogo migliore per proclamare un cessate il fuoco unilaterale da parte del Pkk e proporre alla Turchia di aprire un negoziato.

Questi, e non altri, furono i motivi che fecero scegliere al presidente Ocalan l’Italia, per cercare di trasformare una difficoltà in una opportunità. Questi, e non altri, furono i motivi che ci indussero a fare tutto il possibile per aiutare il Pkk e Ocalan sia per la solidarietà internazionalista, che era ed è un principio irrinunciabile del nostro partito, sia per far compiere, se possibile, dei passi al nostro paese per contribuire alla soluzione pacifica di un conflitto iniziato con il colpo di stato fascista dell’esercito turco agli inizi degli anni ’80.

Ciò che dice D’Alema sull’arresto di Ocalan è vero solo in parte. Io stesso dissi a Ocalan, arrivati a Fiumicino, di recarsi al passaggio dei passaporti diplomatici, di dichiarare la propria identità, di consegnare il passaporto falso che aveva con sé e di chiedere asilo politico. Tempo dopo scoprii che la relazione della polizia di stato alla magistratura diceva che Ocalan aveva tentato di attraversare la frontiera con un passaporto falso e, riconosciuto, era stato tratto in arresto.

Lo venni a sapere con precisione quando fui indagato come indiziato del reato di favoreggiamento di ingresso clandestino, avendo dovuto confermare le voci di una mia partecipazione, sicuramente fatte circolare da servizi di intelligenza prima in Grecia e poi in Italia.

SEPPI ANCHE da un deputato di Alleanza Nazionale che Berlusconi in persona si apprestava a diffondere la notizia del mio accompagnamento di Ocalan in una conferenza stampa. È così vero ciò che dico che il magistrato che mi interrogò concluse il mio interrogatorio quando spiegai che quel che dicevo circa Ocalan che si diresse al passaggio dei passaporti diplomatici, cosa piuttosto bizzarra per chi volesse entrare clandestinamente nel nostro paese, lo avrebbe potuto verificare visto che c’erano numerose telecamere che dovevano per forza aver registrato il fatto.

Del resto Ocalan era atteso da un nugolo di agenti che effettivamente lo arrestarono, ma dopo aver ascoltato la richiesta di asilo, e lo condussero fuori dalla sala della frontiera insieme alla sua segretaria e al portavoce in Italia dell’Ufficio di Informazione sul Kurdistan che fungeva anche da interprete. Il magistrato nel congedarmi mi disse che le registrazioni dell’aeroporto di quel giorno e di quell’ora erano sparite. L’accusa contro di me venne archiviata per questo.

Orbene, i casi sono due: o D’Alema, o chi per lui alle sue dipendenze, si è dimenticato di aver ordinato alla polizia di stato di redigere una relazione falsa sull’arresto di Ocalan, oppure ciò è stato fatto a sua insaputa autonomamente da apparati dello Stato deviati o al servizio di un altro paese. In entrambi i casi si tratta di cose gravissime che avrebbero dovuto avere un seguito giudiziario. Inoltre mi pare di ricordare che l’allora responsabile esteri dei Ds, Umberto Ranieri, qualche anno dopo scrisse che il governo era stato informato e che aveva commesso un grave errore ad accettare che Ocalan venisse in Italia. Ma forse la mia memoria è difettosa.

Quanto alle pressioni a me risulta che vennero da più parti. Certo i più attivi furono gli Usa come dice lo stesso D’Alema. Ma a parte le telefonate riservate che cita D’Alema la segretaria di stato Madeleine Albright disse pubblicamente che l’Italia doveva estradare Ocalan in Turchia, e cioè oltre a intromettersi in una vicenda che riguardava due stati sovrani (almeno formalmente) ordinava al governo italiano di violare una legge della Repubblica, che vieta esplicitamente di estradare chicchessia verso un paese che lo potrebbe condannare a morte.

AD ALBRIGHT nessuno del governo italiano rispose adeguatamente con una dichiarazione a tutela della nostra sovranità e anche della nostra dignità come paese. Anche le imprese belliche italiane, pubbliche e private, esercitarono le loro pressioni. E a me risulta che anche alti funzionari dello Stato compirono atti tesi a condizionare il governo.

Si può anche facilmente verificare, consultando gli archivi delle agenzie di stampa italiane, che ci fu un giorno nel quale la mattina il presidente del Consiglio e il ministro della giustizia dissero che il governo non era competente sulla concessione o meno dell’asilo (cosa che D’Alema nell’intervista non dice raccontando, invece, di aver consultato la commissione per l’asilo) e lo stesso giorno nel pomeriggio ben tre ministri, e non ministri qualsiasi perché erano Dini, ministro degli esteri, Scognamiglio, ministro della difesa, e Fassino, ministro del commercio con l’estero dissero che il governo NON DOVEVA CONCEDERE L’ASILO, in parte smentendo D’Alema e Diliberto. Strano che la stampa italiana composta in parte da un esercito di dietrologi, di pettegoli, di incompetenti sulla politica estera e di ricercatori di piccoli e grandi scoop, non si accorse di questo piccolo dettaglio.

Infine, io non posso dire nulla su cosa avvenne dopo la partenza di Ocalan dall’Italia tranne che alla fine dopo il suo sequestro illegale in Kenya dovettero dimettersi tre ministri greci, a cominciare dal ministro degli esteri.

Però posso portare una testimonianza perché prima della partenza, quando Ocalan valutava il da farsi anche sulla base di ciò che gli avevano consigliato gli avvocati Pisapia e Saraceni (che erano anche deputati della Repubblica) i quali, al contrario di quanto afferma D’Alema, a me risulta lo avessero consigliato di rimanere in Italia giacché le accuse che gli venivano rivolte nella richiesta di estradizione erano teoremi politici più che accuse circostanziate, e avrebbero superato la prova di qualsiasi tribunale italiano che le avesse esaminate.

Vero è invece, in esecuzione di un trattato fra Italia e Turchia precedente il colpo di stato militare e mai annullato, che un minuto dopo il rifiuto ufficiale dell’estradizione qualsiasi magistrato italiano avrebbe potuto arrestare Ocalan e sottoporlo a giudizio secondo le accuse della magistratura turca.

LA MIA TESTIMONIANZA è che Ocalan mi disse che se l’avessero arrestato in Italia secondo il trattato di cui sopra, pur non temendo il processo, pensava che il popolo kurdo avrebbe vissuto il suo arresto in Italia come una sconfitta che avrebbe potuto provocare reazioni disperate e incontrollate. Io, ovviamente, mi limitai a descrivere cosa sarebbe successo se fosse rimasto condividendo l’opinione degli avvocati e rassicurandolo sulla crescita del movimento di solidarietà con il popolo kurdo, ma non mi permisi di dare consigli e tanto meno indicazioni.

Poche ore dopo il mio colloquio vennero da me esponenti di primo piano del Pkk che mi informarono, dato il rapporto fraterno fra noi e loro, che il movimento pensava che il loro presidente avrebbe dovuto rimanere in Italia ma che, ovviamente, avrebbe avuto l’ultima parola sul da farsi. Solo a quel punto dissi loro a nome del mio partito che anche noi eravamo della stessa opinione e che se poteva servire usassero questa informazione per convincerlo a rimanere. Ho detto tutto questo per testimoniare dello spessore umano e politico di Ocalan che prima che a sé stesso pensò al suo popolo. Il che è più o meno il contrario di quel che fanno i governanti europei e italiani in particolare.

Abdullah Ocalan è il Nelson Mandela (chissà come sarebbe passato alla storia chi non avesse concesso asilo al Mandela capo militare della Anc) del popolo kurdo. I suoi scritti in carcere sono una elaborazione che tutta la sinistra mondiale dovrebbe studiare e sono alla base del fatto che il Rojava è l’unico posto in Medio Oriente dove c’è democrazia, dove le donne hanno gli stessi diritti degli uomini e dove le persone di diverse etnie e religioni convivono pacificamente. Invece è tutt’oggi bersaglio di bombardamenti e di attacchi continui da parte della Turchia (con le armi fornite dalle industrie belliche italiane) e dell’Isis.

Noi combatteremo sempre per la liberazione di Abdullah Ocalan che consideriamo anche un nostro punto di riferimento politico e teorico.