Tavolo riservato Nel paese del Golfo il primo passo di un cambio di regime globale: Washington e Mosca vanno da soli, la pace ha un valore in dollari. L’immobiliarista Witkoff e il banchiere Dmitriev uomini chiave: «Discusso progetti anche nell’Artico»
Il vertice Usa-Russia di Riad: primo a sinistra il segretario di Stato americano Marco Rubio, ultimo a destra il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov – Ap
Un grande tavolo scintillante con un principe della corona Saud a capotavola, tre negoziatori americani da una parte e due russi dall’altra (con un terzo giusto fuori dalla porta), Donald Trump sempre e comunque al centro di tutto.
Il vertice russo-americano al Diriyah Palace di Riad scrive un’altra pagina nel manuale mondiale di regime change che il presidente americano sta freneticamente componendo a ogni livell, negli Stati uniti come nel resto del mondo, che si tratti di guerre o di commerci planetari – in questo caso, si tratta abbastanza della stessa cosa.
IL PRIMO INCONTRO russo-americano dopo anni comincia quando il principe e ministro degli esteri Faisal bin Farhan abbandona il tavolo insieme al consigliere per la sicurezza nazionale saudita Musaed al Aiban, e lascia sole le due delegazioni. Durerà quattro ore, interrotte solo da un pranzo di agnello e “sinfonia di capesante”, qualsiasi cosa sia.
E al termine diventa chiarissimo che l’Ucraina è solo uno dei temi abbordati, forse nemmeno il più importante. In ballo c’è il ritorno di Mosca nel mondo che conta davvero, la centralità di Washington che passa sopra ad amici e parenti, i volumi d’affari reciproci che si possono costruire quando la guerra sarà indirizzata verso una conclusione che sì, certo, «dovrà essere accettabile da tutte le parti coinvolte» e sì, certo, ci sarà «un impegno costante con l’Ucraina e con i partner europei», ma sono parole di circostanza che leniscono appena la ferita inflitta all’Ucraina – che i sauditi avevano invitato ma Usa e Russia rifiutato espressamente, rivela Bloomberg – e all’Europa.
Se le basi sono quelle gettate ieri a Riad, la pace in Ucraina – se e quando arriverà – sembrerà la
premessa di un accordo tra democrazie imperiali ma ne sarà invece il sottoprodotto, ciò che resta nella zangola dopo aver preso tutto il burro. Imperiale la Russia lo è da anni, gli Usa ne hanno assunto l’evidenza da quattro settimane ma stanno recuperando alla svelta.
AL TERMINE dell’incontro, Trump viene citato 18 volte da otto interventi diversi, sia americani che russi. Il segretario di Stato americano Marco Rubio annuncia che «è solo l’inizio di un lungo e difficile cammino», spiega che Usa e Russia hanno deciso di creare team di alto livello per supportare i negoziati di pace «e per esplorare le opportunità economiche e di investimento che emergeranno dalla positiva conclusione del conflitto in Ucraina». Eccola, la goccia di veleno che avvelena il pozzo: per le aziende americane ci saranno praterie spalancate in un enorme mercato di materie prime che da tre anni è chiuso. In serata Rubio telefonerà ai ministri degli esteri di Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Ue, la bugia che saranno al tavolo non la ripete neanche più.
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L’inossidabile ministro degli esteri russo Sergei Lavrov – fa il ministro degli esteri da più di vent’anni – afferma che ora «gli Usa hanno compreso meglio la nostra posizione» e chiarisce che per Mosca «è inaccettabile l’apparizione di forze armate dei paesi della Nato, anche sotto bandiera dell’Unione europea».
Ma Rubio e Lavrov non sono i negoziatori più importanti a quel tavolo, e nemmeno il secondo americano, il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, che pure dice che gli Usa «meritano qualche tipo di ricompensa», e neanche l’altro russo, il consigliere di Putin per la politica estera Yuri Ushakov. Nemmeno convocato l’inviato ufficiale di Trump per l’Ucraina, Keith Kellogg. I veri protagonisti sono due che apparentemente non c’entrano niente con guerre e diplomazia e molto con gli affari.
Team di alto livello per supportare i negoziati di pace e per esplorare le opportunità economiche che emergeranno dalla conclusione del conflittoMarco Rubio
STEVE WITKOFF è formalmente l’inviato di Trump per il Medio oriente, e ha visto per la prima volta Putin la settimana scorsa a Mosca, dove era andato a negoziare il rilascio di un prigioniero americano (Mosca ne ha rilasciato un altro ieri, giusto prima del vertice di Riad, anche lui detenuto per possesso di sostanze illegali). Nella vita fa il miliardario immobiliarista, come già Trump ma con maggior successo. È spesso compagno di golf del presidente, che lo considera il suo uomo delle trattative – di qualsiasi trattativa, e se ha a che fare con cifre a molti zeri, meglio. Kirill Dmitriev – il russo fuori dalla porta – è invece il capo del Fondo sovrano di Mosca, riserve per 10 miliardi di dollari, in parte surgelate dalle sanzioni americane (che hanno colpito lo stesso Dmitriev, che in Ucraina è nato e ha fatto il banchiere da Goldman Sachs).
Insieme hanno fatto i conti: Washington ha speso circa 300 miliardi per assistere l’Ucraina, e sta già cercando di farseli ridare da Kiev attraverso un accordo su terre rare, idrocarburi e uso di infrastrutture che fa sembrare un buon affare i danni di guerra inflitti alla Germania dopo la prima guerra mondiale. E le opportunità di business reciproco sarebbero di altri 300 miliardi di dollari l’anno, «abbiamo discusso progetti anche nell’Artico», precisa il russo. Sono Witkoff e Dmitriev a dare l’impronta a questo primo contatto Usa-Russia.
IL PRESIDENTE UCRAINO Zelensky strepita da Ankara, «nessun negoziato sull’Ucraina senza l’Ucraina», dice. Ma il regime change globale sta passando sopra di lui, e sopra il suo paese.