Una lucida analisi della diffusione del virus Covid19 che chiude la bocca a molte dietrologie e mette il dito nella piaga delle inadempienze dell'Occidente, ma si conclude con uno scenario di speranza: dipende da noi.
AM
(da “il Manifesto del 22.03.2020)
Nelle grandi città o nei piccoli centri, in Europa e nel mondo, ci stiamo addentrando di giorno in giorno in una sceneggiatura da film distopico, come se le strade vuote, i guanti di lattice, le mascherine e l’autoisolamento fossero la nuova normalità. Domani in India (oggi per chi legge), la prima prova di totale chiusura nazionale che la storia umana abbia mai sperimentato, dalle ore 7 alle 21, coinvolgerà 1 miliardo e 300mila cittadini in un paese dove si stimano 1,8 milioni di persone senza casa e 73 milioni prive di una abitazione decente (v. Habitat, 2019). Mai era accaduto prima che tutto l’ingranaggio del mondo si fermasse a causa di un virus. Sars-CoV2 ha fatto il salto di specie in un luogo imprecisato della città di Wuhan, e da quel momento attraversa inarrestabile confini nazionali che la globalizzazione ha cercato di smussare quanto più possibile negli ultimi decenni.
E mentre ci rammenta quanto siamo interconnessi e interdipendenti su questa terra, pur nelle nostre fragilità funzionali ed esistenziali, il primo paradosso è che il multilateralismo esce a pezzi dai primi mesi di contagio mondiale.
La comunità internazionale, che oggi si trastulla con gli impegni, sempre rimandati, dello sviluppo sostenibile, non ha mai imparato dai corrosivi segnali che le sono giunti dall’inizio del millennio – l’attacco alle Torri
Gemelle del 2001 e la mai veramente conclusa crisi finanziaria del 2008.
Non ha mai voluto imparare per rivedere a fondo l’impianto estrattivo e inefficiente dell’economia planetaria, che divora l’ambiente e crea ingiustizia. Inoltre, nell’era della conoscenza, non ha mai valorizzato quanto prodotto dalla comunità scientifica. Gli esperti dell’Oms annunciavano da anni una pandemia come la Grande Influenza del 1918. Il rapporto 2019 del Global Preparedness Monitoring Board della Banca Mondiale riferiva di «un rischio molto reale di una pandemia veloce e altamente letale causata da un patogeno in grado di colpire le vie respiratorie». Tale da azzerare il 5% dell’economia globale. Adesso che nella crisi ci siamo dentro, Sars-CoV2 ha tutta l’aria del virus che stavano aspettando. Più difficile da contenere del primo coronavirus del secolo a fare il salto di specie, la Sars in Cina nel 2003, Covid19 ha già causato 10 volte più casi in un quarto del tempo.
Ma la comunità internazionale, che non lesina risorse e uomini nell’arte della guerra, con cicli di esercitazioni e forze di intervento rapido, non ha mai fatto nulla per prepararsi alle pandemie. Nulla. Negli Usa, l’ultima simulazione di una pandemia risale al 2001 (Dark Winter Exercise). L’Europa sta conciata pure peggio. Non ha neppure uno straccio di politica comunitaria sulla salute, sicché non esiste programma comune per un’emergenza sanitaria.
Piuttosto, mentre il primo focolaio del virus metteva a soqquadro Wuhan, i paesi europei guardavano con distanza alla Cina, convinti che l’epidemia, non si sa bene perché, non avrebbe investito il mondo occidentale.
Meglio avrebbero fatto a studiare i dati epidemiologici condivisi dalla Cina dal 7 gennaio (giorno della dichiarazione dell’epidemia) in poi. Avrebbero capito che il mondo intero si sarebbe trovato coinvolto da Covid19, in fasi diverse della stessa evoluzione virale. Invece, contravvenendo ai vincoli di cooperazione previsti dal Regolamento Sanitario Internazionale adottato dall’Oms nel 2005 dopo la Sars, i paesi europei (come il resto del mondo) si sono fatti prendere da una forma virale di sovranismo sanitario, spesso nel segno dell’inazione.
Come dire, la formula più che perfetta per trasformare l’Europa nell’epicentro globale del virus.
E Covid19 ha avuto presa facile in Italia: qui il Servizio Sanitario Nazionale – fondato su valori universali -, uno dei dispositivi istituzionali più rivoluzionari ed efficaci in Europa nel settore del welfare, la politica pubblica che più di ogni altra ha contribuito allo sviluppo economico e sociale del paese, è stato affossato con periodici round di tagli. In meno di dieci anni, dal 2010 al 2016, sono stati abbattuti 70.000 posti letto, chiuse 175 unità ospedaliere, ridotte le Asl da 642 negli anni Ottanta a 101 nel 2017. Tutto a vantaggio della sanità privata e dell’industria sanitaria delle assicurazioni, che non proteggono dalle pandemie. L’esborso privato per la salute è aumentato del 9,6% nel 2017, forzando 7 milioni di italiani a indebitarsi.
Ora con il Covid 19 ne abbiamo viste di tutti i colori. In molti paesi si è continuato a vivere come se nulla fosse – ancora oggi diversi governi nordeuropei consigliano di evitare assembramenti, ma il distanziamento sociale resta un concetto ambiguo. Molti si mettono in quarantena per scelta personale. I principi di solidarietà sono un ricordo lontano, se pensiamo alle reazioni di Germania e Francia alle richieste di fornitura medicale da parte dell’Italia. E la vecchia ruvida tensione tra diritto alla salute e logiche dell’economia, ancora una volta, ha fatto oscillare troppo a lungo il pendolo dalla parte del mercato. Ci sono voluti tre mesi dalla dichiarazione dell’Oms sull’emergenza sanitaria internazionale perché le istituzioni europee comprendessero la magnitudine della sfida. La Bce ha finalmente adottato pochi giorni fa il piano di acquisti di emergenza pandemica da 750 miliardi di euro, cui si aggiungono 1.800 miliardi per nuovi crediti a famiglie e imprese. La Commissione ha sospeso il patto di stabilità.
Il post Covid19 sarà come un dopoguerra, con le sue macerie e purtroppo con le sue vittime. E con l’esigenza di ricostruzione. Ma abbiamo condizioni nuove e nuove consapevolezze per ripensare politiche di un’Europa più forte perché più giusta e fondata sui contenuti dell’eguaglianza. Nella sua sconvolgente, dolorosa apparizione sul continente il silente e invisibile coronavirus è, paradossalmente, la nostra unica chance.