Roma, 14 marzo – Questa mattina, presso la Presidenza del Consiglio, Cgil, Cisl e Uil hanno sottoscritto con il Governo e le parti datoriali un “protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”. (Scarica il protocollo)
È un risultato molto importante in una fase che impone a tutti massima responsabilità nel garantire, prima di ogni altra cosa, la sicurezza e la salute dei lavoratori e delle lavoratrici. La salute di chi lavora è per noi un’assoluta priorità che deve precedere qualunque altra considerazione economica o produttiva.
L’accordo che questa mattina abbiamo sottoscritto consentirà alle imprese di tutti i settori, attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali e la riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro.
Nell’accordo è stato previsto il coinvolgimento dei lavoratori e delle loro rappresentanze a livello aziendale o territoriale per garantire una piena ed effettiva tutela della loro salute. Per questo è importante che in tutti i luoghi di lavoro si chieda una piena effettività dell’intesa che è stata raggiunta.
Sappiamo che il momento è difficile e sappiamo che i lavoratori e le lavoratrici italiane sapranno agire e contribuire, con la responsabilità che hanno sempre saputo dimostrare, nell’adeguare l’organizzazione aziendale e i ritmi produttivi per garantire la massima sicurezza possibile e la continuazione produttiva essenziale per non fermare il Paese.
Importante è la sottoscrizione del testo da parte del Governo che, per quanto di sua competenza, favorirà la piena attuazione del protocollo.
Commenta (0 Commenti)L' infettivologa Alessandra Govoni: «Non è sbagliato ipotizzare un mese di blocco totale, assembramenti culmine di irresponsabilità»
Una cura contro l'«adolescenza infinita» di chi nei giorni scorsi ha continuato ad agire irresponsabilmente, incurante del contagio da coronavirus. È quella che invoca provocatoriamente Alessandra Govoni, infettivologa faentina oggi impegnata all' ospedale di Imola, dove lavora dal 2006, dopo sette anni trascorsi in quella che è la prima linea di trincea dell'Italia contro le malattie infettive: l' ospedale Spallanzani di Roma.
Lavorava lì quando infettivologi e virologi furono mobilitati per l' epidemia di Sars del 2002, causata anch'essa da un coronavirus.
«Fummo messi in allerta per ciascuna delle grandi epidemie scoppiate nel mondo», ricorda Alessandra Govoni. «Non potrò mai dimenticare la prima epidemia di ebola: una pediatra romana fu contagiata e morì in Africa. Dovemmo mettere mano agli 'scafandri' e sottoporre agli esami tutti i colleghi che l'avevano frequentata. Fortunatamente nessuno di loro risultò positivo».
E' bene ricordare che il coronavirus non è la p r i m a e p i d e m i a c u i i l m o n d o g l o b a l i z z a t o f a f r o n t e , g i u s t o ?
«Esatto. Quando cominciai questo mestiere, a Modena e poi allo Spallanzani, l' Hiv concentrava la quasi totalità degli sforzi di noi infettivologi, come del resto accade tuttora. Ricordo ancora il vuoto che si allargava attorno a me e alle mie colleghe sul bus, al ritorno dall' ospedale, quando inevitabilmente ci trovavamo a parlare di lavoro, e dunque di Aids. Era vera psicosi».
Il mondo doveva aspettarsi un coronavirus? «Non era difficile prevedere che prima o poi ci saremmo trovati a fare fronte a un nemico di questo tipo: sono pochi ormai coloro che non hanno mai preso aerei, e quasi nessuno non ha contatti con persone abituate a viaggiare.
In tanti ci chiedono: perché in Cina? Perché l'ebola in Africa? L' espansione delle aree urbane e la contestuale riduzione di quelle naturali hanno portato l' uomo, e i suoi animali domestici e d'allevamento, a vivere a stretto contatto con specie selvatiche. Ecco allora che un virus può effettuare il cosiddetto salto di specie. Essere causa di elevata mortalità per un virus è un fallimento biologico: uccide il corpo che lo ospita, condannando se stesso. Questo perché il virus si trova in un organismo che non conosce. Alcuni hanno fatto notare come dall'India, dove il consumo di prodotti animali è minore, non partano epidemie. In realtà nessun paese è al riparo dal pericolo».
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Un excursus delle maggiori pandemie influenzali che, a partire dal secolo scorso, hanno terrorizzato l’Italia. Come quella volta, nel 1957, che tutto il Milan finì in quarantena
Nella primavera del 1918 una devastante influenza emorragica comincia a mietere vittime in Europa, arrivando in pochi giorni in Francia, Spagna, Italia, negli Stati Uniti, in Russia, in India e in Africa. Nel giugno del 1918 i giornali iniziano a parlare di influenza “spagnola”, anche se la nuova malattia di spagnolo aveva ben poco (la Spagna è banalmente la prima a parlare dell’epidemia, a differenza della grande maggioranza dei paesi europei la cui stampa è sottoposta a censura a causa della guerra). Sarà “il più grande olocausto medico di sempre”, mutuando le parole della storica Catharine Arnold. In un’Europa prostrata dalla guerra, in assenza di antibiotici e ossigenoterapia si stima abbia portato alla morte milioni di persone, colpendo un individuo su tre, con una letalità maggiore del 2,5% e circa 50 milioni di decessi, alcuni ipotizzano fino a 100 milioni.
Anche nel 1918 il governo chiederà agli italiani di “ridurre al minimum gli affollamenti in genere e i contatti dei sani coi malati (ad esempio nelle visite agli ospedali)”, arrivando anche a “misure estreme di contenimento e comportamento” come quelle emanate dalla Prefettura di Reggio Emilia il 22 ottobre 1918: “Da oggi e sino a nuovo avviso sono proibiti tutti i cortei funebri. Tutti i feretri, di qualunque categoria, dovranno essere trasportati direttamente dalla casa del defunto al Cimitero e sarà in permanenza un sacerdote per le assoluzioni di rito. Potranno seguire il feretro soltanto un sacerdote e i rappresentanti della famiglia dell’estinto. Tutti i Cimiteri resteranno chiusi al pubblico dal 27 Ottobre corrente all’11 Novembre inclusi, rimanendo così soppresse tutte le funzioni e le onoranze alle tombe, solite a farsi nei primi di Novembre per la commemorazione dei defunti”.
A Reggio Emilia, riporta Michele Bellelli, “veniva presentato un vero e proprio decalogo che i cittadini dovevano tenere alla presenza di altre persone, come prima difesa contro un possibile contagio: non starnutire e non tossire senza essersi coperta la bocca con un fazzoletto; non sputare in terra; non baciare, non dare la mano; non frequentare caffè, ristoranti e osterie affollati; salire in carrozza meno che si può; tenere aperte le finestre con qualunque tempo e in ogni luogo. Vivere più che si può all’aria libera; non fare visite né riceverne. Evitare soprattutto di recarsi negli Ospedali e in quei luoghi ove sono, o sono stati, dei malati; non viaggiare; respirare possibilmente attraverso il naso ed evitare di volgere la bocca a chi vi parla; disinfettarsi le mani prima di mangiare; fare mattina e sera sciacqui alla bocca e gargarismi con acqua e tintura di iodio. Pulirsi regolarmente i denti; non sollevare polvere nelle case. Lavare il pavimento con disinfettanti”.
Dopo la pandemia del 1918, l’influenza ritorna al suo andamento abituale per tutti gli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, fino al 1957, quando si sviluppa la nuova pandemia: l’Asiatica. In contrasto a quanto osservato nel 1918, le morti si verificarono soprattutto nelle persone affette da malattie croniche e meno colpiti furono i soggetti sani. L’epidemia non conquisterà le prime pagine dei giornali, ma Il Corriere dell’Informazione del 12 giugno 1957 dedicherà un titolo in prima pagina al Milan in quarantena probabilmente per epatite, con un virus preso (forse) in una vasca da bagno, quattro giocatori infettati – fra cui Juan Alberto Schiaffino – uno scudetto appena vinto, due partite ancora da giocare in campionato e una finale europea.
Si arriva così al 1969. Un anno difficile e straordinario durante il quale si incrociano le canzoni dei Beatles e quelle di Lucio Battisti, il drammatico gesto di Ian Palach e l’arrivo alla Casa Bianca di Richard Nixon, le immagini dell’uomo sulla Luna e le battaglie sindacali per le quaranta ore lavorative. Un anno di transizione che si chiude con la strage di Piazza Fontana e l’inizio della strategia della tensione. La “spaziale” – il nome che le fu dato era davvero il segno dei tempi – si abbatte sull’Italia un anno e mezzo dopo essere partita da Hong Kong. La città italiana più influenzata sarà, ancora una volta, Milano. Il 12 dicembre, giorno della strage di Piazza Fontana, il Giorno così descriveva la situazione generale: malati 1.004 tranvieri (e solo 21 vetture in strada nelle ore di punta), 40 vigili del fuoco su 540, 60 poliziotti su 3 mila. Assente dalla fabbrica della Innocenti il 25% degli operai.
“Che cosa ci ha portato il Natale? Le solite cose: festoni colorati, pioggia e influenza. Una vera epidemia: 13 milioni di italiani a letto, un italiano su quattro; e cinquemila sono passati a miglior vita. Le strade, le fabbriche, gli uffici, i mercati si sono mezzi vuotati. A riempirsi sono stati gli ospedali: doppi letti dunque anche se le cliniche sono sempre le stesse. Quando Mao starnuta, dice un proverbio inglese coniato da poco, il mondo si ammala. Infatti l’epidemia di questo inverno è nata a Hong Kong nel luglio del 1968 ... Ha impiegato diciotto mesi per arrivare in Italia ma in compenso ci ha colti del tutto impreparati ... L’influenza non è pericolosa? E chi lo dice. Non bastano sciroppi e supposte, gocce e iniezioni che vengono dopo. Occorre fermare il virus prima che arrivi”, recitava un cinegiornale dell’epoca reso disponibile dall’Istituto Luce che sta girando molto in questi giorni.
Corsi e ricorsi storici, situazioni diverse ma accomunate da un’unica, fondamentale costante. Direbbe Vasco Rossi: “Siamo ancora qua, e già”… L’Italia, il mondo, sono sopravvissuti alla Spagnola, all’Asiatica e alla Spaziale. Sopravviveranno, sopravviveremo anche al Coronavirus. Evitando comportamenti imprudenti e pericolosi, facendo ognuno di noi la nostra parte. “Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno”, magari, questa volta, riusciremo ad imparare questa unica, basilare lezione.
Commenta (0 Commenti)A ben guardare, l'emergenza umanitaria e il surriscaldamento climatico hanno legami con la recente diffusione globale del coronavirus. È dunque giunto il momento di cambiare, assumendo il valore del bene comune come il patrimonio più grande da difendere
Siamo alle prese con la grande emergenza sanitaria determinata dal diffondersi del Codiv-19, ormai identificato da tutti con il nome coronavirus. La sua propagazione, la cui origine risalirebbe – secondo gli esperti – al mese di novembre dello scorso anno all’interno del mercato ittico di Whuan, in Cina, oggi non ha più confini e riguarda ormai tutti i continenti, con punte di diffusione in Cina e in Europa, in particolare nel nostro Paese.
La situazione epidemiologica è preoccupante non solo per gli effetti di una malattia virale contro la quale il nostro organismo non ha anticorpi e che provoca serie conseguenze per la salute dei contagiati, in particolare per soggetti più deboli, con un sistema immunitario già compromesso; ma anche per la condizione di un sistema sanitario che fa fatica a garantire la necessaria assistenza a un numero di pazienti che cresce vertiginosamente col passare delle ore. Le autorità competenti del nostro Paese hanno attivato da giorni misure drastiche per limitare il contagio il più possibile, prescrivendo nelle aree identificate come focolaio della presenza del virus un certo numero di restrizioni nei confronti degli abitanti. Restrizioni che col passare delle ore stanno estendendosi a tutto il territorio nazionale, in considerazione dell'espansione dell'epidemia.
Un contesto di questo tipo – chiusura di tutte le scuole di ogni ordine e grado, divieti o limitazioni della mobilità, interruzione di molte funzioni giudiziarie, chiusura di luoghi particolarmente a “rischio di socialità” e molto altro – qualcuno probabilmente lo può paragonare a un altro periodo storico molto difficile: il 1943, quando il nostro Paese dovette fronteggiare i bombardamenti della guerra. Non è un paragone ardito quella tra le due epoche. Oggi, l’emergenza sanitaria, così come fu 77 anni fa durante il conflitto mondiale, sta determinando effetti sconvolgenti che potranno portare a conseguenze altrettanto nefaste sul piano sociale, economico, oltreché naturalmente sulla sicurezza delle persone.
Se l’attenzione al coronavirus è massima, tuttavia non vanno sottaciute altre emergenze che attualmente sconvolgono il nostro pianeta. La prima è quella climatica. Sebbene dichiarata con atto
Leggi tutto: Due o tre cose che la nuova crisi può insegnarci - di Giuseppe Massafra Segretario Cgil
Commenta (0 Commenti)da “il Manifesto” del 11 marzo 2020
Davvero qualcuno crede che per contrastare con successo l’emergenza sanitaria provocata dal coronavirus sia necessario un governo di “salute pubblica” che va da Salvini a Zingaretti passando per Renzi e Berlusconi? Leggendo alcuni quotidiani e stando alle posizioni espresse da alcuni esponenti politici, la riposta è sì. Ma sarebbe un governo di disgrazia pubblica.
L’alleanza 5Stelle-Pd, fin dai primi vagiti, l’estate scorsa, era stata presa di mira e non solo dalle forze di destra e di centrodestra, anche componenti o commentatori dell’area democratica sostenevano che sarebbe stato meglio andare alle elezioni anticipate. Così, per fortuna, non è stato e l’inedita alleanza giallorossa, affidata alla barra governativa di Conte, ha retto.
Nonostante difficoltà oggettive (l’economia), soggettive (gli antichi, reciproci rancori tra piddini e grillini), scivoloni, ambiguità, incertezze, incapacità. Perché se ci si pone in posizione di critica preventiva nei confronti di questa novità politica, diventa fin troppo facile trovare una debolezza di base.
Tuttavia i due partner, pur tirando, da una parte e dall’altra, una coperta fin troppo corta, sono riusciti a non strapparla e proprio in questo momento stanno dimostrando di poter guidare il paese in una situazione di inedita, imprevedibile gravità. Anche per merito della componente di sinistra che, diversamente da Renzi, ha sempre dimostrato lealtà, sostegno attivo e non acritico.
A conferma, il buon comportamento del ministro della salute Speranza, capace di gestire senza allarmismo, in maniera equilibrata una situazione che richiede misure molto forti.
Da questo punto di vista si deve riflettere su un aspetto anch’esso inedito, ovvero sul fatto che anche la nostra democrazia è in messa in quarantena. E forse non potrebbe essere altrimenti, si stanno mettendo in pratica misure draconiane con conseguenze sulla vita quotidiana di ogni singolo cittadino. E qui si apre un altro capitolo: è proprio necessario arrivare a provvedimenti drastici per tutta la popolazione al fine di riuscire a sconfiggere il nemico Covid19? Certo, se prendiamo come riferimento l’esempio cinese la risposta non può che essere positiva. Ma in Cina non c’è un sistema democratico, qui sì. E la nostra libertà, individuale e collettiva, viene messa oggi tra parentesi. Se è drammaticamente in gioco il bene del paese, la salute di 60 milioni di persone, forse possiamo accettare con responsabilità e consapevolezza, una fase difficile della nostra storia: quando si è in guerra, e contro il coronavirus lo siamo, ognuno ha il diritto e il dovere di fare la propria parte. E molti italiani, paradossalmente, oggi sono convinti di poter dare il loro contributo per portare il paese fuori da questa difficilissima crisi. Se vinceremo la sfida, il prima possibile, il paese ne uscirà più forte perché avremo dimostrato di essere capaci di gestire qualcosa di davvero incomparabile.
Ma se andiamo a rivedere le cronache dei giorni scorsi, è più che evidente come alcune forze politiche
Leggi tutto: Quel governo di disgrazia pubblica - Norma Rangeri su "il Manifesto"
Commenta (0 Commenti)Coronavirus. Anche fautori del liberismo e della disarticolazione istituzionale mettano ora sotto accusa il taglio alla sanità pubblica e la scellerata «autonomia differenziata»
Scriveva Thomas Mann che «certe conquiste dell’anima e della conoscenza non sono possibili senza malattia». Sul tema si è soffermato anche Dostoevskij, in una sorta di misticismo della malattia. Un tratto comune della grande letteratura europea a cavallo dei due secoli trascorsi.
I I Si pensi a Proust: «La Recherche è la grande opera di un malato» commentava infatti Giovanni Macchia. La malattia, dunque, come un viaggio della e nell’anima alla scoperta di una nuova relazione fra sé e la realtà esteriore che la transitoria sanità del corpo impediva di vedere con tanta vibrante lucidità. L’evento della malattia era inteso come un accadimento all’individuo, non ad una collettività. Ma quando un’epidemia che tracima in pandemia investe di fatto l’intera popolazione mondiale senza zone franche, si può immaginare un simile percorso di «redenzione»?
SE LEGGIAMO le migliori riflessioni che si fanno strada tra l’opprimente volume di banalità che le soffoca, troviamo forse qualche cosa di nuovo. Non solo il rafforzamento di elementi critici verso il sistema economico e l’impalcatura istituzionale del moderno capitalismo, ma sbucano elementi che alludono ad una strada diversa. Nel nostro paese la cosa è abbastanza evidente. Non passa giorno che persino fautori del liberismo e della disarticolazione istituzionale non mettano sotto accusa il taglio alla sanità pubblica e la sua regionalizzazione. Mentre appare ridicolo insistere nello scellerato progetto di una autonomia differenziata voluta e sostenuta dalle regioni del Nord, le prime ad essere travolte dalla inedita emergenza sanitaria.
QUANTE VOLTE abbiamo sentito dire, retoricamente, che «L’Europa deve parlare con una voce sola», di volta in volta riferendosi ai più diversi argomenti, quali la politica energetica o quella estera. Ora il tema si pone in modo grave, acuto, urgentissimo su due versanti: uno non nuovo, ma riproposto in modi terribili e strazianti, quello dei migranti spinti da Erdogan contro le militarizzate frontiere di una Grecia dove ben si coglie il carattere barbaricamente regressivo del cambio di politica e di governo. L’altro è quello del terreno delle politiche economiche da attuare subito per fornire strumenti e risorse contro l’ondata epidemica, almeno per contenere se non invertire gli effetti depressivi che comunque lascerà nella società e nella economia europea.
QUESTI DUE aspetti, persino brutale l’uno, drammatico l’altro, incastonati in uno sfondo di guerre e di deterioramento climatico-ambientale, non sono separati ma sfaccettature di un prisma di ottusità impermeabile a qualsiasi pratica di solidarietà fra i paesi della Ue. Ma se quest’ultima non affronta e risolve questi nodi che ci sta a fare? I fenomeni di deglobalizzazione non hanno aspettato le recenti drammatiche congiunture per manifestarsi. Da tempo sono in crisi i vecchi assetti dei rapporti commerciali. Non da oggi la curva della profittabilità delle multinazionali, che delocalizzavano intere fabbriche alla ricerca del minore costo del lavoro possibile, si è volta verso il basso o quantomeno appiattita. Il sistema economico dominante ha reagito strutturando nuove tipologie e modalità di formazione e di organizzazione delle catene del valore, abbattendo lo stato sociale, puntando sul «capitalismo delle piattaforme», su quello «della sorveglianza» ove sono abbattute le spese per impianti fissi e per personale stabile, agendo essenzialmente con il lavoro precario o addirittura gratuito in quanto nascosto nella crisalide del consumo. Tutto ciò oggi viene messo a nudo anche da fattori extraeconomici.
SE AL DI LÀ di vuote parole, verso i processi migratori, indotti da guerre e da disastri ambientali da noi stessi europei in gran parte provocati, persiste la cieca politica della negazione della vita; sul versante economico – e non a caso – si fa strada seppure faticosamente qualche barlume di consapevolezza. Il tema degli Eurobond, pur nelle sue molteplici versioni possibili, non è più un tabù e neppure l’idea stravagante di qualche Cassandra. Anzi è nato un nuovo neologismo: i coronabonds. In sostanza obbligazioni emesse dai singoli Stati nazionali ma garantite dall’insieme dei membri dell’Unione e vincolate a finanziare il contrasto alle conseguenze economiche dell’epidemia in corso. Si tratta come è noto di superare le logiche sovraniste e separatiste di diversi paesi, non «frugali» ma «tirchi» come li ha definiti il capo del governo portoghese, e soprattutto le ataviche resistenze della Germania. La suddivisione fra i vari paesi del rischio lo ridurrebbe a poco più di nulla.
Anziché discutere delle modifiche regressive al Mes, che cristallizzano la divisione dei Paesi in quelli finanziariamente sicuri e quelli no, è di questa innovazione che bisognerebbe urgentemente parlare e decidere. Tanto più che la pioggia di liquidità del quantitative easing, ha perso sempre più di efficacia, fomenta nuove bolle, non raggiunge né imprese né persone, ma si ferma nelle banche. Cosa più disastrosa che inutile in una situazione in cui, anche a causa delle recenti restrizioni, la crisi si fa sentire su entrambi i lati, quello della domanda e quello dell’offerta.
NELLO STESSO tempo una svolta solidale in economia aprirebbe spiragli per contrastare la disumanità con cui trattiamo i migranti. Anziché fili spinati, gas ustionanti, pallottole e bastonate, servirebbe aprire le porte della Ue, ridare speranza di vita a chi è stata tolta anche per nostra responsabilità, per smontare il ricatto criminale di Erdogan e per trovare insieme le strade di un nuovo modello di società.
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