E così anche per la non cancellazione dei decreti sicurezza, nonostante le raccomandazioni del Colle. Non ce la fanno le forze al governo a invertire la rotta tracciata da Salvini che, anche dall’opposizione, resta il punto di riferimento della politica italiana. Sembra infatti che per avere successo e vincere le elezioni bisogna competere sullo stesso suo infido terreno, come insegna Bonaccini che pure governa una regione rossa o Boccia sostenitore del progetto di autonomia differenziata: tatticismi senza strategia. Così si finisce per governare tirando a campare, imitando il nemico. I cittadini, prossimi elettori, ne hanno consapevolezza e non mancheranno di manifestarla al momento opportuno, come già fatto in Umbria, votando per l’”originale”.
Per il momento si è sdoganato il razzismo; una “conquista” della destra ben oltre il risultato di aver istituito la Commissione Segre. Ora quel sentimento appena mormorato di “prima gli italiani” può essere invocato da chiunque ad alta voce; non solo non è reato ogni manifestazione di xenofobia, ma da oggi costituisce un motivo di “orgoglio” e di ritrovata identità italica.
È facile prevedere che alle prossime elezioni, regionali o nazionali, i 5Stelle si troveranno sull’orlo della loro estinzione avendo rinnegato qualsiasi istanza di cambiamento, vera o vantata, che era nelle loro intenzioni originarie. Il Pd, nonostante le buone intenzioni di Zingaretti, non si capisce perché , solo per citare un esempio, non abbia da subito messo nell’agenda di governo la cancellazione dei famigerati decreti sicurezza.
Alle prossime elezioni ci troveremo, noi di sinistra, a scegliere, come sempre, se non andare a votare o, disincantati, votare ancora questa sinistra, nonostante tutto. Non è una bella prospettiva, rasenta la depressione, farà crescere ancora l’individualismo di chi pensa che bisogna preoccuparsi solo di tirare a campare perché dalla politica non arriva alcun segnale di rinnovamento; e a molti torneranno a mente le parole della Thatcher: non esiste la società, ma solo individui, padri, figli e mogli alla ricerca di escamotage personali per sopravvivere o caduti nella trappola illusoria del consumismo che, per qualche attimo, regala una felicità effimera.
Del nuovo umanesimo non c’è traccia; nessun Leon Battista Alberti appare all’orizzonte. Nessuna iniziativa concreta sulla lotta alla disuguaglianza e inizio di una transizione ecologica. Possiamo solo dire: meno male che non c’è Salvini (per ora) altrimenti sarebbe molto peggio. Ma il “cacciato” dalla porta si prepara a rientrare dalla finestra se il governo continua su questa strada.
Eppure dappertutto, in Italia, si moltiplicano esperienze di comunità virtuose, generose, fatte di giovani che non vogliono più sentirne di politica, che promuovono pratiche collaborative, che lottano e manifestano contro i cambiamenti climatici, che dimostrano come al sentimento di odio si può opporre quello di solidarietà, che propongono un’altra narrazione della realtà, che diffondono amore e reciprocità. Ma non hanno voce, spesso, anzi, rifiutano intenzionalmente di confrontarsi con la politica del Palazzo. Sono enclave di resistenza naturale, primitiva, che pure coltivano progetti di comunità; piccoli nuovi mondi dove nascono esperienze di lavoro diverse e lontane da quelle tradizionali che conosciamo. Possono queste esperienze cambiare lo stato delle cose esistenti, se non ora almeno nel prossimo futuro?
Molti conoscono la parabola sul regno messianico riportata da Agamben nel suo libro, La comunità che viene. Un rabbino, un vero cabalista, disse una volta: per instaurare il regno della pace, non è necessario distruggere tutto e dare inizio a un mondo completamente nuovo; basta spostare solo un pochino questa tazza o quest’arboscello o quella pietra, e così tutte le cose. Ma questo pochino è così difficile da realizzare e la sua misura così difficile da trovare che, per quanto riguarda il mondo, gli uomini non ce la fanno ed è necessario che arrivi il messia.
Questo pensiero non fa parte della nostra cultura occidentale secondo la quale il diverso implica un rovesciamento delle cose: la rivoluzione, un cataclisma, un evento eccezionale, il mai come prima. Nella parabola del rabbino, invece, il diverso implica piccoli e piccolissimi spostamenti, ma continui in modo che niente infine resti al suo posto senza che avvenga alcuna catastrofe o rivoluzione. Dalle forze politiche al governo, più che fantasmagoriche promesse e vani proclami, ci accontenteremmo di piccoli spostamenti, a sinistra
Il destino dei curdi. La Siria oggi produce una miseria di greggio, ma il suo petrolio siriano riveste un significato politico che economico: Trump vuole impedire che Assad disponga di risorse indispensabili e rendere chiaro che gli Usa impediranno la costruzione di qualunque pipeline che dall’Iran, attraversando l’Iraq, possa raggiungere il Mediterraneo
La verità su questo capitolo di guerra in Siria emerge pezzo dopo pezzo come in un puzzle e ha un nome: guerra per il potere, per il gas e il petrolio. Una verità che dobbiamo proprio a Trump.
È una partita complessa che coinvolge Russia, Turchia, Europa, Iran, Iraq e, ovviamente, gli Stati uniti. E si combatte sulla pelle dei popoli della regione: «Ogni goccia di petrolio vale una goccia di sangue», diceva il colonialista britannico Lord Curzon che negli anni Venti decise il destino sui pozzi iracheni di Mosul e Kirkuk. Fu quello il primo tradimento dei curdi misurato in barili di petrolio.
«Ci prenderemo il petrolio siriano per evitare che cada in mano all’Isis e lo daremo alle nostre compagnie», ha detto il presidente statunitense Donald Trump quando è stato ucciso Al Baghadi, schierando le truppe americane, le stesse che avrebbero dovuto proteggere i curdi, intorno ai pozzi petroliferi di Deir ez Zhor, città tristemente famosa per il martirio degli armeni nel ’900 che, guarda caso, il Parlamento Usa ha appena definito un genocidio con voto quasi unanime.
La Siria oggi produce una miseria di greggio, circa 24mila barili al giorno contro i 350mila del livello pre-bellico nel 2011, un quantitativo che anche allora era modesto e destinato in gran parte al consumo interno. Tanto per avere un’idea il vicino Iraq produce 5-6 milioni di barili al giorno: l’Iraq, con 150 miliardi di barili di riserve, è una cassaforte di energia, così come l’Iran, che ha le seconde riserve di gas al mondo dopo la Russia ma disgraziatamente è sotto embargo americano.
Il petrolio siriano, fino a quando non saranno riabilitati gli impianti di estrazione – investimenti che Damasco al momento non può fare – riveste un significato più politico che economico. E allora qual è il vero interesse americano a controllare questo petrolio, in violazione di ogni legge internazionale? In primo luogo Trump vuole impedire che Assad disponga di risorse indispensabili mettendo sotto pressione i suoi alleati Russia e Iran che lo hanno aiutato militarmente ed economicamente.
In secondo luogo intende rendere chiaro che gli Usa impediranno la costruzione di qualunque pipeline che dall’Iran, attraversando l’Iraq, possa raggiungere la Siria e il Mediterraneo, che è una delle cause della guerra per procura in Siria.
Assad aveva rifiutato nel 2009 il passaggio di un gasdotto dal Qatar dicendo che avrebbe interferito con gli interessi del suo alleato russo, il maggiore fornitore di gas naturale verso l’Europa. Ma nel 2010 Assad cominciò a negoziare una pipeline con l’Iran che se fosse arrivata alle coste del Mediterraneo avrebbe consentito a Teheran di diventare uno dei più grandi fornitori europei, irritando americani, israeliani e sauditi, gli avversari della repubblica islamica.
Fu così che gli americani, assieme al Qatar e all’Arabia saudita, e poi alla Turchia, iniziarono a finanziare l’opposizione siriana preparando una rivolta per rovesciare il regime. Il Califfato, uno Stato islamico radicale sunnita tra Iraq e la Siria, era una creatura perfetta per impedire i progetti energetici di siriani e iraniani.
Ma c’è un terzo motivo, ancora più strategico che spinge Trump a mettere la bandiera Usa sui pozzi siriani: mandare un messaggio a Russia e Turchia che hanno appena inaugurato il Turkish Stream con il quale forniranno all’Europa e ai Balcani. È noto che gli Stati uniti hanno limitato o bloccato i progetti europei delle pipeline con Mosca.
O meglio: lo hanno concesso ai tedeschi con il North Stream ma hanno fermato il South Stream di Saipem-Eni con i russi. Insieme all’acquisto da parte della Turchia dei sistemi anti-missile russi e agli accordi con Putin contro ogni logica di appartenenza alla Nato, questi sono i veri motivi di scontro tra Washington e Ankara. Qui sta il punto: gli Usa vogliono controllare il flusso delle risorse energetiche e determinare le quote di potere economico e politico degli stati della regione ma anche dalla Russia e della Turchia, che infatti hanno protestato duramente quando gli Stati uniti hanno occupato i pozzi siriani.
Anche l’Europa è fortemente coinvolta nell’operazione siriana: Bruxelles ha abbandonato i curdi senza prendere provvedimenti concreti nei confronti della Turchia ma ha deciso di imporre sanzioni ad Ankara e di mandare a Cipro navi militari, francesi e italiane – con l’approvazione americana – quando Erdogan ha lanciato la sua sfida inviando una nave da trivellazione, la Yavuz, nella «zona di sfruttamento esclusivo» di Nicosia dove ci sono già le concessioni di Eni e Total ma anche quelle dell’americana ExxonMobil, della Qatar Petroleum, della texana Noble Energy dell’israeliana Delek Drilling. Tutti insieme appassionatamente.
Il grande gioco del gas cipriota si inserisce sul progetto di gasdotto East-Med firmato con un Memorandum del 2017 tra Israele, Italia, Grecia e Cipro. Se realizzato l’East-Med, lungo 2.200 chilometri, porterà sui mercati europei il gas egiziano del giacimento di Zhor ma anche quello dei pozzi offshore israeliani di Leviathan e Tamar. Questi sono i piani che dovranno ridurre la dipendenza europea dal gas russo e da quello trasportato da Mosca in Turchia.
Altro che lacrime finto-umanitarie per il destino dei curdi: il prezzo del tradimento, come un secolo fa, si misura in barili di petrolio e metri cubi di gas.
Legge elettorale. Il rischio concreto è che, applicandolo a un Parlamento di queste dimensioni, alle prossime elezioni la destra arrivi non alla maggioranza assoluta, ma ai due terzi dei seggi. Da “il Manifesto” del 2.11.2019
La vocazione maggioritaria, ancora lei. Era il 2007, al Lingotto di Torino. Walter Veltroni, segretario in pectore del nascente Partito democratico, usò una oscura espressione: «Il Partito democratico deve avere in sé un’ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria». E continuava: «… L’elettorato è razionale, mobile, orientato a scegliere la migliore proposta programmatica e la migliore visione. Fiducia in questa vocazione maggioritaria significa oggi lavorare per rafforzare l’attuale maggioranza. Io rispetto e stimo i nostri partner della coalizione». Sappiamo bene come andò a finire: con rispetto e stima, il Pd mise i partner della coalizione sotto schiaffo del voto utile e, correndo da solo alle elezioni del 2008, ottenne il loro annichilimento. Da quelle votazioni scaturì la più grande maggioranza parlamentare della storia repubblicana:
Un'analisi e un commento di Elisabetta Piccolotti (Sinistra Italiana Umbria) da "il Manifesto" del 30 ottobre 2019
Peggio dei risultati c’è stato solo il dibattito dopo i risultati. Zingaretti, Di Maio e altri commentatori paiono fattucchiere alla ricerca della formula magica per vincere le elezioni alla prossima. Il ‘Patto Civico giallo-rosso’ continua a trattare l’Umbria non come il soggetto di un riscatto, bensì come l’oggetto di un esperimento coniato a Roma in stanze non affollate, gestito male e raccontato peggio.
Di fronte al clamoroso fallimento elettorale ci aspettavamo un’altra discussione: chi di noi ha fatto campagna elettorale sa quanto sia profonda la crisi che travolge tutti i partiti del patto. Crisi di attivismo, di rapporto con la società, ma soprattutto mancanza di idee. Il passaggio epocale, quello in cui una terra da sempre rossa viene rovesciata nel suo contrario, arriva dopo un decennio di scelte neoliberiste in un territorio isolato dove le imprese producono per il mercato interno, la cui ricchezza veniva redistribuita grazie a servizi pubblici oggi decimati. In Umbria i giovani se ne vanno, le famiglie non investono più sulla loro formazione, il cemento inutile mangia la bellezza. Ne vogliamo discutere? O snobbiamo i rapporti di Banca d’Italia, dell’Aur (Agenzia umbra ricerche) e di altri che hanno segnalato le difficoltà economiche ? La tenaglia, tra crisi che cancella opportunità e il Pd che diventa un’unione di comitati elettorali attivi tra primarie ed
Elly Schlein, già europarlamentare, con questa intervista rilasciata a Bologna, alla storica radio della sinistra alternativa Radio Città del Capo, ha lanciato la proposta di un “progetto civico e politico: Regione futura, ecologista, progressista e innovativa” e l'invito a incontrarsi il 9 novembre in un’assemblea aperta a Bologna presso lo spazio Dumbo in via Casarini, 19.
"Ci troviamo davanti a sfide nuove ... l'emergenza climatica ... La crisi forte economica ha aumentato, anche nel territorio come il nostro, le diseguaglianze. Abbiamo vissuto un indebolimento dei sistemi di protezione, un calo dei salari, c'è anche da noi in alcuni territori la sensazione di abbandono, di aver perso in qualche modo il controllo sul proprio futuro ... Abbiamo un tema in questa regione di inquinamento, di consumo di suolo ....questioni che vanno affrontate con massima urgenza e a questo aggiungiamo anche la preoccupazione per alcuni rigurgiti nazionalisti e fascisti."
Riprende a quanto leggiamo la trattativa tra ministero e regioni per l’autonomia differenziata. Si parte oggi con il Veneto, seguiranno Lombardia ed Emilia-Romagna, e successivamente Toscana e Piemonte. È una notizia sorprendente, viste le prime posizioni del ministro Boccia. Sembrava delinearsi un percorso che assumeva come preliminari una legge quadro e i livelli essenziali delle prestazioni. In questo poteva concretarsi una discontinuità, desumibile anche dalla affermata necessità di coinvolgere nel confronto tutte le regioni su un piano di sostanziale parità. Assistiamo ora a un cambiamento di rotta? Si torna a una sostanziale continuità rispetto alla censurabilissima gestione della ex ministra Stefani? Allora, la trattativa per tavoli separati, in assenza di una previa discussione collegiale che potesse consolidare un indirizzo di governo sul tema, e senza un confronto parlamentare volto ad evidenziare un sentire di maggioranza, avevano favorito esiti inaccettabili. Come effetto collaterale, era anche mancata del tutto una lettura dell’art. 116, co.3, che ne chiarisse la natura di norma circoscritta a limature marginali in chiave di aderenza a realtà puramente locali. Risultando invece favorito lo shopping al supermercato delle competenze proprio del secessionismo occulto di Zaia & co. Si torna a questo? Se no, Boccia deve chiarire le differenze. Già la formula del «completare il percorso» nelle dichiarazioni di Luigi Di Maio e nel programma di governo dava luogo a perplessità e dubbi. Le diffide a non governare contro il Nord e le intemperanze degli aspiranti secessionisti sugli inutili ritardi prodotti dalla legge quadro e dai Lep (livelli essenziali di prestazione) possono aver impressionato qualcuno a Palazzo Chigi. Ancor più, probabilmente, il timore di eventuali danni alla sfida emiliana del gennaio 2020 certamente cruciale per il Pd da una sconfessione dell’attuale presidente della regione Bonaccini. Capiamo tutto. Ma alla fine in Emilia-Romagna ha sbagliato Bonaccini e mettersi all’inseguimento della Lega, e il conto dell’errore non può essere presentato al resto del paese. Ci dica allora Boccia dove punta la trattativa che si riprende, e se il governo