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Cento cene. Al Centro Costa di Bologna, nel piatto la partita per la regione

Un’affollata cena in sostegno del manifesto al “Centro Costa” di Bologna, di fronte alla Cineteca in cui, negli stessi momenti, avveniva la conferenza stampa di Ken Loach. Una cena particolarmente importante, dato il momento politico legato alle prossime elezioni in Emilia Romagna.

Poche ore prima l’Istituto Cattaneo aveva presentato un suo studio sulle intenzioni di voto per la Regione, evidenziando alcuni dei temi che interrogano la sinistra, non solo a livello locale.

La distanza tra le percezioni in ordine alla buona amministrazione del Partito democratico nelle aree urbane e quella invece di segno diverso espressa dai segmenti periferici che si sentono per certi versi abbandonati alla loro marginalità. Come le aree della montagna, le differenze generazionali tra conservatorismo degli anziani e voglia di cambiamento nei ragazzi, anche recentemente intercettate e rese plasticamente dal movimento delle Sardine, nato a Bologna, e via enumerando. Un insieme di riflessioni molto articolate, che però sfociano chiaramente sull’evidenza di una contendibilità della Regione da parte della destra, con circa mezzo milione di voti ancora ondeggianti.

Temi elaborati in uno dei brevi interventi che hanno animato la cena, nello specifico quello del Presidente del Cattaneo Piergiorgio Ardeni, anche collaboratore del manifesto, che ha preso spunto dall’animata discussione del suo tavolo, avvenuta nel più puro stile della militanza politica engagé: volti accalorati, brindisi al passato ed al futuro, vecchie divisioni che venivano rievocate in nome di nuove unità di fronte all’avversario comune. Chi scrive ha discretamente girato tra i tavoli, oltre che per assicurarsi che la cena fosse di gradimento dei commensali, cogliendo segmenti di vissuti che oggi, a cinquanta anni dalla strage di Pizza Fontana, hanno ancora un valore che va ben oltre la semplice testimonianza personale. Diversi ragazzi si sono infatti appassionati a queste storie, potendo così collegare il loro presente ad un passato che, per quanto recente, non era nella loro memoria.

Tra i convitati molti volti storici della sinistra bolognese, dallo psichiatra Gianni De Plato a Sergio Caserta, animatore del circolo del manifesto ed impegnato in una difficile campagna elettorale con la pattuglia di “Emilia Romagna Coraggiosa”. Difficile per una sinistra di alternativa che si trova a fronteggiare a livello locale, sia la critica al modello di sviluppo che il Pd ha prediletto negli ultimi anni, più vicino alle classi medie urbane e produttive che alle periferie, sia la necessità di arginare una destra che può seriamente aspirare alla vittoria. Tra gli altri collaboratori del giornale, Franco Farinelli, il geografo autore di diversi saggi accademici su una disciplina che ha sempre definito come tutt’uno con la filosofia, ed esponenti del pacifismo di matrice libertaria come Horst Wiedemann mediatore culturale già in tempi non sospetti.

Alla fine della serata il ringraziamento di Tommaso Di Francesco, che ha riassunto brevemente la fase che attraversa il giornale, sottolineando la prospettiva di inserire il sostegno alla testata nell’ambito di un impegno politico ed anche culturale orientato dalla necessità di dare voce a strumenti critici ancora in grado di saper leggere la complessità del mondo contemporaneo senza pericolose semplificazioni.

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Ho letto e riletto le parole dette dal senatore Taviani in un occasionale raduno democristiano, che confessano la verità sulla prima delle stragi che hanno insanguinato questo paese: la strage di Milano, capostipite di una lunga stagione di politica criminale, prima in ordine di tempo e seconda, dopo quella di Bologna, per crudeltà e numero di vittime.

Una verità tranquilla. Quella della bomba fu messa «con la copertura dei servizi segreti». Ci fu un errore di calcolo, non c’era l’intenzione di uccidere tutta quella gente. Ma quella bomba fu messa e fatta esplodere «con la copertura dei servizi segreti», organi dello Stato e strumenti del potere politico.

Dunque ora lo si può dire con semplicità, prendendo il caffè: quella fu una strage di Stato. Quei ragazzi estremisti che allora scandivano nelle piazze questo estremo giudizio avevano ragione. Loro non erano credibili, ma il senatore Taviani è un responsabile massimo della politica italiana e lui può essere creduto.

Questa è la nostra Patria, questi sono i suoi capi, questa la nostra storia recente. Per vent’anni ogni italiano è stato preso in giro da processi contro fantasmi, un anarchico vivo e un altro morto. Ora che la memoria è spenta, e il crimine ha premiato chi l’ha commesso, i colpevoli e i beneficiari possono anche farsi riconoscere. Tra qualche anno, in qualche festa amichevole, un altro capo di governo in pensione ci dirà che anche nella stazione di Bologna, come nella banca di Milano, la bomba fu messa «con la copertura dei servizi segreti».

E chi ha «coperto» i servizi segreti? Gli assassini sono tra noi, anzi sopra di noi, e lo dicono. Non è di per sé sorprendente e neppure nuovo, sebbene nessun altro paese dell’occidente europeo possa vantare qualcosa di simile. È sorprendente la tranquillità con cui ora ci vien detto. Possono farlo perché con l’arte del delitto politico, usando quelle bombe o similmente il brigatismo, hanno piegato e trasformato la democrazia italiana in un altro regime, nutrito di un moderno fascismo, nel quale siamo così immersi che non riusciamo a comprenderlo e a definirlo. E perciò alla loro tranquillità fa riscontro la nostra.

Mostruoso è una brutta parola, ma non so definire altrimenti tutto questo. Mostruoso ma secondario e irrilevante, e mostruoso per questo più ancora che per il sangue versato. Oggi nessuno si sognerebbe di fare su questo una campagna elettorale. Hanno vinto e sotto accusa non sono loro, siamo noi, è la sinistra italiana e quanto di essa bene o male resiste.
(il manifesto 28/ 2/ ’92)

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Le sardine di Roma Oggi parliamo noi non sar una sfilata di vip

 

Oggi a Roma la grande nuotata delle sardine, l’Italia che «non si Lega» e «non abbocca» al populismo e all’odio.

«A piazza San Giovanni non sarà una sfilata di vip, parliamo noi. Saremo un corpo intermedio fra politica e mondo civico».

Flash mob anche in altre città italiane e in dodici capitali internazionali. E da domenica si lavora al dopo.

 
 
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Sinistra. Gli operai tornano in piazza e chiedono una politica industriale, e una programmazione. Non serve evocare lo stato imprenditore solo quando esplode l’ennesima crisi

 

Non si vive solo di sardine, ma meno male che ci sono. Le operaie e gli operai tornano a popolare le piazze. Cosa che stupisce solo chi pensava che non esistessero più. Dall’ex Ilva, da Almaviva, da Alitalia, da Whirpool, da Bosch, solo per citare alcuni luoghi di lavoro in crisi, in molti sono arrivati nella capitale per protestare contro la “desertificazione industriale”.

I rapporti dell’Onu, quanto quelli della Ue hanno spietatamente registrato la contrazione di almeno un quarto della produzione industriale italiana dal 2007 ad oggi. Le valutazioni dell’Istat hanno documentato nello scorso novembre la settima flessione produttiva consecutiva e prevedono per fine anno una diminuzione del 2,4%. Al Mise sono aperti 160 tavoli sulle crisi industriali, oltre 250mila lavoratori coinvolti, ma non se ne chiude uno.

Dopo sei anni di riduzione delle ore di cassa integrazione, i primi dieci mesi del 2019 hanno fatto segnare una totale inversione di tendenza: +18,30%, con una media di oltre 20 milioni di ore mese. E’ come se si fosse registrata un’assenza completa di attività produttiva per oltre 121.800 lavoratori, mentre i “tutelati” dall’ammortizzatore sociale hanno visto crollare il loro reddito per complessivi 878 milioni di euro.

Se andiamo più indietro nel tempo, quando arrivò la grande ondata delle privatizzazioni, scopriamo che dal 1993 ad oggi sono spariti circa 700mila posti di lavoro. Si sono rivelate profetiche le parole che Luciano Gallino scrisse nel 2003: “La settima economia del mondo – cioè quella italiana – pare essere diventata un nano industriale”. Ma, come nel più classico dei casi, non sono state ascoltate. E Landini può ben gridare nel comizio di ieri che “Né i governi di destra né quelli di sinistra hanno fatto la politica industriale di cui abbiamo bisogno”.

Le crisi industriali colpiscono quasi tutti i settori e la situazione è grama anche a livello internazionale. Per l’Ocse il 2019 sarà l’anno a minor crescita media globale dalla grande crisi. In Europa la locomotiva tedesca è in piena marcia indietro. Di fronte ad un quadro così disastrato non bastano qualche investimento pubblico e privato; l’allargamento degli ammortizzatori sociali; gli sgravi fiscali; un’innovazione che tutti reclamano ma che funziona solo in senso, quello della profittabilità degli scarsi investimenti; l’ormai retorico richiamo a Industria 4.0, un progetto in realtà pensato per la struttura produttiva tedesca che vuole mantenere la supremazia competitiva internazionale della Germania nell’eccellenza tecnologica e si basa sul rafforzamento del suo sistema partecipativo-corporativo; o pallidi accenni a una non meglio precisata green economy.

Serve un altro ritorno in termini innovati: quello dello Stato imprenditore che non può essere invocato occasionalmente quando si aprono le voragini delle crisi industriali e occupazionali. Al contrario deve essere il pilastro portante di una conversione ecologica dell’economia. Serve quindi un piano, va messa in atto una programmazione economico-industriale, un termine che il neoliberismo ha tacciato di sovietismo d’antan, salvo poi utilizzare la mano dello Stato per i propri comodi.

La situazione non è certamente quella del 1962, quando nella sua famosa “nota aggiuntiva” Ugo La Malfa, nel declinare di quello che fu il miracolo economico mai più raggiunto, metteva il dito sulla piaga degli squilibri, regionali, settoriali e sociali che quella stagione di sviluppo aveva portato con sé e tacciava di insufficienza l’intervento straordinario nel Mezzogiorno.

Ora la situazione è più complicata data la maggiore integrazione internazionale della nostra economia e gli stringenti vincoli europei. Ma questo significa che una moderna programmazione ne deve tenere conto, non che essa sia impossibile. Questo richiede la (ri)costruzione di strumenti operativi adatti alle nuove condizioni.

Non basta la nostalgia dell’Iri, anche se diventa sempre più forte. C’è bisogno di una visione almeno europea. Il padronato già si muove in questa direzione, come dimostra la dichiarazione congiunta dei primi di dicembre fra Confindustria, i tedeschi di Bdi e i francesi di Medef. Langue invece l’iniziativa del sindacato a livello europeo. Né si può dire che l’unità sindacale da noi abbia fatto grandi passi in avanti, visto che quando si scende nel concreto la segretaria della Cisl reclama l’applicazione del decreto sblocca-cantieri che la Cgil aveva nomato sblocca-porcate.

Landini ha chiesto un progetto condiviso fra padronato, governo e sindacati ricevendo un’apertura di credito da Conte. E’ una sfida grande e per questo pericolosa. Ciò che la separa dalla riedizione di infauste pratiche concertative è la capacità di rendere protagonista il conflitto sociale, in tutte le sue articolazioni.

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Sullo stesso numero de “il Manifesto“ del 29 novembre in cui è stata pubblicata la bella intervista di Daniela Preziosi e Giovanni Stinco a Mattia Sartori (tra i promotori della mobilitazione delle “sardine” in Emilia-Romagna) https://ilmanifesto.it/noi-sardine-insieme-saremo-un-presidio-contro-la-deriva-leghista/ appare questo commento di Marco Bersani (fondatore di Attac Italia, fra i promotori del Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua e della Campagna «Stop TTIP Italia»). 
Esiste un obbligo morale, prima ancora un'opportunità politica, a rispettare l’autonomia del movimento delle Sardine e a evitare ogni strumentalizzazione: soprattutto chi spesso ha lavorato per soffocare i movimenti non può certamente ambire a mettervisi alla testa nè sfruttarne le posizioni. Ciò non significa che lo si debba circondare di una ovattata atmosfera di silenzio e protezione: è un movimento che esprime un’istanza politica ed è pertanto non solo utile ma giusto analizzarne i contenuti e discuterne le prospettive anche perché i suoi leader (per loro stessa ammissione) sono soltanto coloro che hanno voluto interpretare un bisogno proprio riconosciuto come diffuso e collettivo, ma non coloro che hanno un disegno compiuto da sovrapporre alle mobilitazioni spontanee. Ben vengano quindi le analisi sincere e l’interlocuzione critica.
Ecco perché dopo l’intervento di Michele Prospero di qualche giorno fa, apparso su “Strisciarossa” e centrato sugli effetti che il movimento può avere sulla trasformazione del Pd, riportiamo qui oggi quello di Marco Bersani che sottolinea l'urgenza di intercettare la frustazione sociale di coloro che hanno "la precarietà come quotidianità, la solitudine competitiva come orizzonte" e faticano perciò a immaginare un futuro, finendo così preda della "strategia autoritaria e razzista" della Lega.
AM

Nel mare aperto e in burrasca, il bivio delle sardine

di Marco Bersani

Che il Capitano del Papeete, tutto ruspe, bacioni e rancore, sia rimasto dapprima abbastanza spiazzato e poi intimorito dalla comparsa di branchi di migliaia di sardine, nel mare in burrasca dentro cui naviga questo Paese, non può che far piacere. Perché a chi da anni predica l’individualismo proprietario del chiudersi in casa e difendersi dall’esterno, le sardine hanno risposto con la ripresa delle piazze come luoghi dell’incontro collettivo.

Perché a chi da anni semina odio per raccogliere rancore elettorale, le sardine hanno opposto la forza dell’ironia, che ha reso il re improvvisamente nudo.
Perché a chi pensa che la società si sostanzi nella perenne competizione tra individui proprietari, le sardine hanno risposto con il mare aperto come luogo della cooperazione fra tutte e tutti. C’è tuttavia un passaggio, nel «manifesto» delle sardine ormai pubblicato sui social, che non può che far riflettere davvero problematicamente.

Ed è quando le sardine provano ad auto-riconoscersi così: «Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto».

Parole senz’altro positive, speranzose, in qualche modo anche sagge, ma…..davvero è questa la normalità della maggioranza delle persone di questo Paese?
Siamo un Paese dove tutti hanno una casa, una famiglia amorevole, un lavoro, un’istruzione e

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Per fermare il declino serve un’operazione di verità

di Michele Prospero dal blog strisciarossa

Fu nel crollo traumatico registrato dalla partecipazione nelle consultazioni regionali del 2014 che si consumò il vero, forse irreversibile declino del Pd. A seguito delle reazionarie legislazioni sul lavoro (dal jobsact alla cancellazione dell’articolo 18), varate dal governo guidato dal segretario del Pd, l’elettorato un tempo rosso preferì la fuga immediata. Persino Gianni Morandi allora si diede alla diserzione. Anche adesso che Renzi ha lasciato il Nazareno per tentare un’esperienza più consona alle sue credenze conservatrici di fondo, nel Pd prevale la rimozione della rottura radicale con il mondo del lavoro.

L’Emilia espugnabile
Nei giorni passati a Bologna per rinfrescare qualche idea da cui ripartire, di tutto si è parlato tranne che del vero nodo che ha reso espugnabile dalla destra sovranista anche le civili terre che hanno ospitato una quasi secolare subcultura rossa che ha inventato grandi modelli di società. Come si fa a difendere la bella fortezza assediata dai barbari con le camicie verdi senza fare i conti con la ferita che proprio dall’Emilia è stata inferta sulle tradizioni ideali del movimento operaio?

Non si può ricominciare senza affrontare, assieme alle responsabilità enormi del fiorentin fuggiasco, anche le complicità non meno distruttive riconducibili alla figura di Poletti. Già segretario di una federazione comunista, e poi presidente delle Coop, è stato il campione dell’ortodossia liberista nel governo Renzi. La sua parabola svela meglio di ogni altra cosa che le Coop sono diventate ben altra maschera rispetto alla straordinaria esperienza associativa che negli anni ’50 ebbe l’impulso dei militanti socialisti e comunisti licenziati dai padroni.  Con Poletti si avverte l’eco più dell’oltranzismo dell’impresa capitalistica che una memoria di cose archiviate. E questo come può non pesare?

La resistenza delle sardine
Davvero si può tenere l’Emilia e ricominciare un nuovo percorso politico della sinistra senza questo prioritario discorso di verità? Certo, il laboratorio tosco-emiliano contiene ancora grandi residui di esperienze di mobilitazione e di organizzazione politica. La bella manifestazione di piazza delle sardine è impensabile senza la vitale storia politica delle regioni rosse che si aggrappano alle loro ultime riserve e resistono all’estremo prima di consegnarsi alla destra. E però si tratta di un fenomeno prevalentemente cittadino, e entro le mura della città, si parla di una mobilitazione dei ceti informati, istruiti.

Resta lo stato cronico di abbandono dei ceti sociali colpiti dalla crisi che hanno maturato una coscienza di classe all’incontrario, e cioè hanno deciso l’appoggio ai partiti della destra populista e padronale per colpire con maggiore accanimento il tradimento della vecchia sinistra che li snobba e si rinchiude nel mondo etereo dei valori. La straordinaria vitalità della società civile “rossa” potrà nell’immediato scacciare i barbari padani e però la questione strutturale resta immutata.

Il non-partito senza memoria
L’equivoco del Pd va rimosso, non è la risposta

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