Il nuovo governo. Da oggi con il governo M5S-Pd-LeU, si apre una nuova stagione politica. Che sarà costellata di ostacoli, contrapposizioni, rivalità, passi falsi. E non sarà facile centrare gli obiettivi previsti. Anche perché i conti vanno fatti tenendo ben presenti le condizioni economiche. Che sono deboli. Però da Conte fino all’ultimo parlamentare che sostiene questa alleanza, tutti sanno che siamo in presenza di qualcosa di più di una semplice scommessa
I rappresentanti del popolo, finché c’è questa Costituzione, sono i deputati e i senatori. E quanto al governo che chiede la loro fiducia, la sua funzione è volta al servizio del paese e va esercitata «con disciplina e onore».
La premessa del discorso del presidente del consiglio alla Camera, e quindi al Parlamento (il primo, forte, applauso, Conte lo ha suscitato nei confronti del presidente Mattarella), potrebbe essere soltanto galateo istituzionale. Se non fosse che i due leader della destra fascioleghista in quel momento erano in piazza per chiedere ancora una volta di dare la parola al popolo, in compagnia dei soliti saluti a braccia tese. Il loro agitarsi si ripeterà nei prossimi mesi, con una protesta a tutto campo. Ma intanto lo spettacolo che hanno offerto al paese è quello degli sconfitti: erano convinti di avere in mano l’Italia e adesso si ritrovano all’opposizione. Rabbiosamente.
Ora siamo in presenza di un’alleanza di governo inedita, imprevedibile solo due mesi fa, mal digerita da una parte, minoritaria, delle forze che la compongono, criticabile per diversi aspetti, sicuramente molto delicata. E proprio per queste ragioni richiede
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Commenta (0 Commenti)Legge elettorale. La riforma della legge elettorale è in agenda insieme al taglio dei parlamentari, giunto all’ultimo giro di boa, e posto da M5Stelle come priorità. Se il taglio si facesse a legge elettorale invariata, la distorsione della rappresentatività delle assemblee sarebbe fortissima e incostituzionale
In una lettera al direttore del Corriere della sera (del 4 settembre) Romano Prodi si lancia in un endorsement senza se e senza ma del maggioritario, in specie se ispirato al doppio turno come in Francia, o all’uninominale di collegio come in Gran Bretagna. Sullo stesso giornale D’Alema suggerisce cautela nella corsa verso un sistema proporzionale, essendo preferibile un maggioritario che favorisca un ritorno al bipolarismo. Su Italiaoggi (5 settembre) Claudio Velardi concorda con Prodi e con D’Alema. Decisamente, un déjà vu.
La riforma della legge elettorale è in agenda insieme al taglio dei parlamentari, giunto all’ultimo giro di boa, e posto da M5Stelle come priorità. Se il taglio si facesse a legge elettorale invariata, la distorsione della rappresentatività delle assemblee sarebbe fortissima e incostituzionale.
Ad esempio, nelle regioni minori solo i primi due partiti otterrebbero seggi in Senato. Un ritorno al proporzionale appare a molti una condizione necessaria. Se ne avverte una eco nel programma di governo (al punto 10), laddove si parla di avviare un percorso di riforma della legge elettorale, assicurando il «pluralismo politico e territoriale». Ma non c’è un esplicito richiamo al proporzionale, e forse qui le opinioni citate hanno giocato un ruolo.
Nemmeno sfugge che oggi qualsiasi impianto maggioritario darebbe al centrodestra un vantaggio incolmabile.
La crisi di agosto ha visto tra le ragioni di fondo la valutazione che il momento fosse favorevole per assaltare Palazzo Chigi.
In questa prospettiva Matteo Salvini ha corso un azzardo, ha scommesso, e ha perduto.
A tutto questo i sostenitori del maggioritario rispondono che bisogna ripristinare il bipolarismo. È ovvio che in un sistema tripolare o multipolare un maggioritario che garantisca il totem della stabilità e della governabilità è fatalmente troppo distorsivo della rappresentatività, e probabilmente incostituzionale.
Per Prodi ciò non rileva, perché «una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile». Non potremmo dissentire di più. Una assemblea elettiva assolve la sua funzione solo se è ampiamente rappresentativa. Diversamente, è una inutile superfetazione istituzionale.
Chi vuole il maggioritario o ritiene irrilevante qualsiasi misura di distorsione della rappresentatività, o pensa a una strategia di alleanze che portando a una competizione tra due coalizioni riduca al minimo la correzione maggioritaria che garantisce la vittoria. A sinistra o nel centrosinistra si pensa a una alleanza pre-elettorale tra Pd e M5Stelle, e forse ancora altri. Ma è una prospettiva plausibile?
Trovare una compatibilità su temi quali le trivelle, la scuola, i beni culturali, il lavoro o persino le grandi opere può essere alla fine non facile, ma possibile.
Ma che dire del diverso modo di concepire la democrazia? Vincolo di mandato, eletti-portavoce, referendum propositivo, taglio dei parlamentari, votazioni su Rousseau segnano un depotenziamento della democrazia rappresentativa che fa allo stato parte del dna del Movimento, e trova qualche eco anche nel programma di governo.
Una strategia duratura di solide alleanze può bene trovare qui ostacoli difficilmente superabili.
Ma poi, siamo sicuri che le chiavi di lettura di un tempo siano ancora valide? In Francia, il doppio turno ha dato a Macron una maggioranza, ma non ha impedito – anzi, indebolendo la rappresentatività del parlamento ha probabilmente concorso a determinare – la rivolta dei gilet gialli.
In Gran Bretagna, emblema della stabilità e della governabilità assicurata dal maggioritario, Boris Johnson ha preso ceffoni dai Commons, e altri probabilmente ne avrà. La stessa unità del regno scricchiola pericolosamente.
Sono prove che maggioranze farlocche create con artifici elettorali non chiudono le faglie politiche, economiche e sociali, e che il fulcro della democrazia è in un parlamento che dia pienamente voce al paese, e non nei palazzi del governo.
Prodi chiede che si prendano «le decisioni necessarie a far sì che l’Italia possa riprendere il suo ruolo in Europa e nel mondo». Dubitiamo assai che abbiamo perso quel ruolo a causa di una legge elettorale non abbastanza maggioritaria, e che basti correggere l’errore per riguadagnarlo.
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Palombella giallorossa. Certo, non staremo a guardare, come non staranno a guardare immobili le forze sociali, i sindacati dei lavoratori, i cittadini, i movimenti ambientalisti, le donne
La foto di gruppo dei ministri della coalizione di governo M5S-Pd-Leu, per il solo fatto di escludere il ministro dell’odio Salvini, il signor «chiamo le piazze» e «voglio i pieni poteri», che fuori campo sbava e minaccia di «riprendersi l’Italia», è positiva e apprezzabile.
Ma dall’immagine ecco che un enigma si approssima e diventa sempre più evidente, ora che il sipario si è alzato e i posti di governo sono occupati da nomi, biografie e si spera, da volontà alternative o comunque diverse – che brutta parola è la discontinuità – da quelle del governo precedente.
Perché la composizione dei ministri, da una parte, quella dei 5Stelle e dall’altra quella del Pd e anche di Leu, mostra insieme coraggio e novità, ma anche incapacità e vuoti (di contenuti e di memoria).
E una sostanziale verità: le due forze contraenti la coalizione di governo sono entrambe alla disperata ricerca di identità. Fino a sfiorare,
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Commenta (0 Commenti)Su Art e dossier settembre: in rubrica "la pagina nera" di F. Isman su caso conad-Monte Pietà Bologna..art di 4 pagg
Commenta (0 Commenti)Crisi di governo. A prescindere dai nomi che riempiranno le diverse caselle - sicuramente importanti ma non fondamentali - bisognerà vedere su quali basi si costruirà l’accordo giallorosso: dobbiamo leggere gli obiettivi, i contenuti, vogliamo sapere se ci sarà una vera svolta
E dunque i «rospi» si baceranno. Al plurale perché in questa stressante fase politica, non è uno solo il reietto. Resta da capire se qualcuno diventerà principe, visto che al momento c’è già un regnante, Giuseppe Conte, che esce da un tunnel quasi buio, pieno di trabocchetti e di ostacoli.
Uno dei pochi premier a diventare presidente del Consiglio a stretto giro di posta, di due maggioranze diverse, e tuttavia non opposte tout-court visto che il M5S è l’elemento di continuità.
Un altro vincitore è il Parlamento. Perché così come è nato in Parlamento il contratto giallo-verde, sempre nella stessa massima istituzione forse nascerà un progetto alternativo, e di legislatura, tra il M5S e il Pd. Salvini e Meloni possono appellarsi al popolo dei 60 milioni di italiani prigionieri del Palazzo, possono gridare «al voto al voto», ma quello che accadrà, sempre che accada, è legittimo e nel rispetto delle regole democratiche. I plebisciti non sono previsti e solo la propaganda – e l’ignoranza della Costituzione – può arrivare a sostenere che si tratta di un tradimento del voto dei cittadini italiani. Se così fosse, allora gli elettori sono stati traditi già con il contratto giallo-verde, per il quale nessuno si era espresso nel terremoto politico del 4 marzo del 2018.
Ecco perché il segretario della Lega, nonostante i comizi, le invettive, la rabbia evidente, esce doppiamente sconfitto.
È stato lui ad aprire la crisi, sbagliando tempi e modalità, e ora è fuorigioco potendo contare solo sulla piazza e sugli errori di chi si accinge a governare.
Sarebbe sbagliato poi sottovalutare il ruolo svolto dal presidente della Repubblica. Che, saggiamente, si è affidato al senso di responsabilità dei partiti per evitare agli italiani un altro appuntamento elettorale, destinato a una campagna sicuramente furiosa, concentrata su rivalità politiche e personali più che sui problemi da risolvere.
E qui arriviamo al nodo più importante. A prescindere dai nomi che
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Commenta (0 Commenti)La casa brucia. Macron costretto a porre la preoccupazione per gli incendi al centro del vertice, sospeso tra recessione e i dazi Usa-Cina
L’Amazzonia è diventato il primo capitolo dell’agenda del G7, che inizia oggi a Biarritz sulla costa basca francese all’Hotel du Palais, costruito da Napoleone III per la moglie Eugenia. Con un’abile mossa, l’ospite Emmanuel Macron ha posto la preoccupazione per gli incendi al centro della discussione dell’edizione 2019 della riunione dei cosiddetti «grandi», iniziata nel ’75 (da Valéry Giscard d’Estaing) per lottare (già allora) contro il protezionismo e le guerre monetarie, ma che nel corso degli anni ha perso incidenza, parallelamente a una assurda gonfiatura di partecipanti e logistica, oltre che all’esplosione dei costi (quest’anno più di 25 milioni di euro).
LA MOSSA È A DOPPIO TAGLIO: la difesa dell’Amazzonia come polmone della terra è un argomento sovranazionale, serve quindi a ribadire l’importanza del multilateralismo diventato nemico numero uno dei nazionalisti e al tempo stesso diventa strumento per cercare di calmare le forti proteste contro il G7 e i «grandi» indifferenti alla vita delle popolazioni, che quest’anno sono iniziate mercoledì scorso con dibattiti e seminari a Hendaye e Irun in Spagna, che avranno oggi il punto culminante con la manifestazione e domenica la marcia dei «ritratti», con le foto di Macron «staccate» dai militanti ecologisti dai muri di numerosi palazzi comunali, per protestare contro la mancanza di azione del governo francese a favore del clima (azioni osservate a vicinanza ravvicinata da 13.200 poliziotti, motovedette, droni ecc., con stazioni e aeroporti chiusi).
MACRON HA FATTO SAPERE che la Francia non firmerà l’accordo Ue-Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay mentre il Venezuela è sospeso dal 2016) allo stato delle cose, perché Jair Bolsonaro ha «mentito» sui suoi impegni a favore della protezione dell’Amazzonia. Bolsonaro lo ha accusato di «mentalità colonialista», ma almeno tra gli europei si sta costruendo una posizione comune: oltre alla Francia, anche l’Irlanda non intende allo stato delle cose firmare l’accordo con il Merosur, mentre la Germania, seguita dalla Norvegia, ha sospeso il finanziamento all’Amazon Fund. Persino il recalcitrante Boris Johnson si è detto ieri «profondamente preoccupato» dagli incendi in Amazzonia. L’asse Johnson-Trump (che ieri ha aizzato una polemica contro la Fed dopo la decisione di Powell di non tagliare i tassi di interesse) potrebbe non concretizzarsi come desiderato dai due eccentrici leader.
Il G7 si annuncia difficile, il clima è teso su numerosi fronti. Al punto che, per evitare la sceneggiata dell’anno scorso in Canada con Trump che ha ritirato la firma alle conclusioni, il G7 di Biarritz si concluderà senza comunicato finale. Ci sono forti dissensi interni tra i 7, i leader sono praticamente tutti indeboliti o già in corsa elettorale, con la sola eccezione, per il momento, del giapponese Shinzo Abe.
CI SONO CONVITATI DI PIETRA a Biarritz: la Cina, con le minacce di recessione mondiale causate dalla guerra commerciale con gli Usa, l’Iran e l’accordo sul nucleare denunciato da Trump proprio a un G7 (come è successo a un altro summit G7 per l’Accordo di Parigi). La Russia non è più presente dal 2014, ma Trump ora la rivuole senza condizioni, mentre Macron lega il rientro di Mosca, che servirebbe a rafforzare un G7 indebolito, a un accordo sull’Ucraina. Il peso del G7 si è ristretto. Oggi rappresenta solo più il 12% della popolazione mondiale e il 45% del pil e i «sette» non sono neppure più i più ricchi.
Il posto degli scambi multilaterali è stato preso dal G20, che rappresenta l’85% del pil mondiale. Per rimediare a questa debolezza, Macron ha invitato India, Australia, Cile, Egitto, Sud Africa, Senegal, Rwanda, Burkina, oltre alla confinante Spagna (che gestisce in tandem il controllo del contro-vertice e delle manifestazioni).
IL TEMA IN DIBATTITO è la lotta alle diseguaglianze, che ha contribuito non poco all’indignazione dei militanti impegnati nel sociale: come accettare che chi causa queste diseguaglianze, non lotta contro l’evasione fiscale, detti poi legge su come combatterle? Secondo dati Ocse, nel 2014 l’1% più ricco incamerava l’11% del reddito mondiale, quasi il doppio del 2006 (6%) e il reddito disponibile è diminuito dal 2005 per il 25% della popolazione dei paesi del G7, cioè le diseguaglianze aumentano sia tra zone geografiche che all’interno dei singoli paesi o aree economiche. Le pratiche di «ottimizzazione» fanno perdere ogni anno 240 miliardi al fisco nel mondo. Ma la timida tassa francese sul fatturato delle multinazionali del digitale ha scatenato l’ira di Trump, che ha parlato di «mossa anti-americana» e minaccia ritorsioni doganali sul vino francese (e le multinazionali ritorsioni sui fornitori francesi).
Al G7 finanza che si è tenuto a Chantilly il 17-18 luglio, il ministro francese, Bruno Le Maire, ha osservato che «non possiamo più avere un sistema fiscale internazionale basato su un modello economico del XX secolo, senza tener conto dei giganti che creano valore vendendo dati senza essere tassati allo stesso livello per esempio della piccola e media impresa». Per Le Maire l’obiettivo è trovare «una soluzione internazionale soddisfacente» a livello di G7, per poi investire l’Ocse per un accordo. Sulla guerra commerciale e delle monete il G7 non è la sede più adatta, ma il conflitto Usa-Cina resta centrale, con il rischio per l’Europa di rimanere schiacciata in mezzo. Biarritz è l’ultima possibilità per rilanciare il multilateralismo: il 2020 sarà un anno buio, con la presidenza del G7 agli Usa e quella del G20 all’Arabia saudita.
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