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Zingaretti e Di Maio in un incontro del 2018 ©  Fabio Cimaglia /LaPresse

Ma ai Salvini, alle Meloni, ai Berlusconi, che bollano l’eventuale alleanza M5S-Pd come una truffa, che la demonizzano come il governo più a sinistra della storia, e chiedono le elezioni purificatrici, cosa si risponde, che hanno ragione?

Chi fa politica, e decide, dovrebbe guardare ai fatti nella loro complessità, senza farsi influenzare da comportamenti personali, e personalistici, utili solo a creare poi altri ostacoli e altra confusione in questa fase molto delicata per il futuro del Paese. E se stiamo alle parole dei Dem, a seguito del primo incontro con i 5S, possiamo essere e vedere la situazione con un certo ottimismo.

Tuttavia tra i commentatori, tra gli osservatori è il pessimismo la nota prevalente, con il rischio serio però di sfociare nell’autolesionismo. A conferma che il personaggio Tafazzi è sempre molto caro alla sinistra italiana.

Il punto di partenza, è bene ripeterlo ogni volta, è

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da Il Fatto Quotidiano del 21 agosto

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Crisi di governo. Tra i tanti interrogativi, come revocare la politica migratoria di Salvini, finora avallata dai 5 Stelle, per impostarne un’altra, che non sia neppure quella perseguita da Minniti?

L’estremo atto di arroganza di Matteo Salvini, volto a capitalizzare elettoralmente il credito attribuitogli dai sondaggi, a escludere il Movimento 5 Stelle e a inglobare i residui del berlusconismo, si è rivelato un errore. C’è un problema di tempi tecnici, c’è la volontà di sopravvivere di un parlamento da poco eletto, c’è un’aritmetica parlamentare che sulla carta consente altre maggioranze.

SOLO CHE in questo difficile frangente se arduo è capire cosa accade tra i 5 Stelle, in cui c’è un’ala che con Salvini s’è trovata benissimo, complicatissimo è capire cosa capiti nelle file del Pd. Dove si misurano almeno tre posizioni: quella di chi era disposto fin dal 4 marzo 2018 a negoziare coi 5 Stelle; quella di Zingaretti, di suo prossimo a tale posizione, ma incapace di governare un partito il cui gruppo parlamentare è ostaggio dell’altro Matteo e che potrebbe liberarsene a seguito di nuove elezioni; quella dell’altro Matteo, che, avendo finora vietato ogni contatto coi 5 Stelle, si è testé riconvertito. Nuove elezioni metterebbero a rischio le sue truppe parlamentari, gli serve tempo per fondare un suo partito ed è sempre in cerca di una rivincita personale. Risibile è la minaccia di Carlo Calenda, fresco eletto al parlamento europeo col Pd, di fondare anche lui un suo partito se 5 Stelle e Pd s’incontrano. Motivando, non a torto, con l’inaffidabilità dell’altro Matteo.

LA PARTITA purtroppo si gioca sulla pelle degli italiani. Intendiamoci. Un accordo tra Pd e 5 Stelle, sarebbe stata la soluzione più ovvia già dal 16 marzo. Vuoi per minor distanza programmatica, vuoi per contiguità dei due elettorati. Parte rilevante degli elettori a 5 Stelle proveniva dal Pd e da sinistra. Respinti all’indomani delle elezioni, i 5 Stelle si sono accordati con Salvini per formare il governo più tristo nella storia repubblicana. È ancora da notare come la polemica del Pd, a guida Zingaretti, ma ipotecato da Renzi, si sia accanita più che contro Salvini contro i 5 Stelle. Che hanno replicato per le rime: il culmine è stato la squallida vicenda del “partito di Bibbiano”.

ADESSO, con svariate acrobazie – governo di scopo, di legislatura e quant’altro – si prospetta un’intesa. A scandalizzarsi dell’opportunismo in politica è di solito chi ci perde. Ma qualche problema si pone comunque. Dopo le parole che si sono dette, come potranno mai convivere 5Stelle e Pd? Come non aspettarsi una riedizione del dualismo Salvini/Di Maio? E come si spiegheranno con i loro elettori? Il Capo dello Stato, che ha finora e interpretato rigorosamente il ruolo di rappresentante di tutti gli italiani, ottenendo nei sondaggi amplissimo consenso, si troverà in imbarazzo. Con che animo potrà conferire l’incarico di formare il nuovo governo viste simili premesse? Dopo la pagliacciata xenofoba gialloverde, ciò di cui meno c’è bisogno è una riedizione verderosa. Il sempre volenteroso Prodi ha invitato a una seria riflessione i due partiti e se possibile l’inclusione nell’accordo delle residue milizie berlusconiane, in nome dell’Europa. Ebbene, chi sa immaginare come un simile assemblaggio possa partorire un programma di governo capace di non predisporre la rivincita di Salvini?

Tutti ripetono tre formule: confermare la vocazione europeista del paese, tenere i conti in ordine (bloccando l’aumento dell’Iva) e scongiurare il pericolo populista.

Senonché, le tre formule sono alquanto difficili da conciliare. Se il Pd avesse meditato sulla débacle del 14 marzo avrebbe dovuto forse riconoscere che proprio la sottomissione ai diktat di Bruxelles e dei maggiori governi europei sui conti in ordine che ha spianato la strada ai 5 Stelle. Anche se i governi Renzi e Gentiloni hanno fatto il resto. È mancata una politica del lavoro e degli investimenti adeguata, volta a rimettere alfine in moto il sistema produttivo (alleviando, di conseguenza, il debito pubblico), insieme a incisive misure di tutela dei ceti svantaggiati. L’abbandono del Mezzogiorno e delle periferie urbane è stato drammatico. Micidiale alfine l’accoppiamento con le oscillanti politiche condotte sull’immigrazione, che hanno dato gas al motore di Salvini.

VA DA SÉ che questi indirizzi andrebbero rovesciati. Ma com’è pensabile di farlo, non tanto alla luce degli incerti orientamenti dei 5 Stelle, quanto della divisione entro il Pd tra un’ala arciliberista, convergente con Forza Italia, e una (moderatamente) interventista, convergente con Leu, intorno a una politica d’investimenti e di contrasto alle disuguaglianze sociali e territoriali, che dovrebbe necessariamente forzare i vincoli europei?

E ANCORA: come revocare la politica migratoria di Salvini, finora avallata dai 5 Stelle, per impostarne un’altra, che non sia neppure quella perseguita da Minniti? Sarebbe mai un governo giallorosa in grado d’imporre all’Europa, oltre alla revisione degli accordi di Dublino, una politica verso il sud del mondo più generosa, lungimirante e assai più costosa di quella attuale, magari scontrandosi con l’amico americano? E che dire infine delle politiche costituzionali da condividere? Renziani e 5 Stelle s’intendono nel cavalcare l’ondata antipolitica tramite la riduzione selvaggia del numero dei parlamentari. L’ala zingarettiana è in sintonia con LeU e Forza Italia nell’immaginare correzioni meno dirompenti. Mentre permane assoluto mistero circa il futuro della legge elettorale. Che invece è decisiva.

 

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da “il Manifesto” del 14.08.2019 Massimo Villone: La crisi . Tre opzioni in campo: governo di servizio e nuove elezioni subito, governo di qualche mese per una nuova legge elettorale, governo di legislatura. Le prime due potrebbero essere un assist a Salvini, la terza è da preferire perché consentirebbe di disfare almeno in parte il malfatto fin qui, e ritrovare la Costituzione perduta

Nonostante l’assist della presidente Casellati e il centrodestra che si ricompatta, Salvini perde in Senato. Propone a M5S di fare subito il taglio dei parlamentari, e poi al voto.
Ma M5S mantiene la posizione, e nulla cambia nell’agenda, come è giusto che sia perché il “potere della crisi” è – costituzionalmente – nelle mani del presidente del consiglio.
Libero, giornale portavoce del fascioleghismo, titola a tutta pagina: «Congiura contro Salvini. È pronta la graticola» (13 agosto). Ecco la linea di attacco. Il messaggio è: tradimento. Ma non ve n’è alcuno. La coalizione gialloverde non è stata eletta, si è formata in parlamento e può essere sostituita secondo Costituzione, senza che nessuno abbia titolo a protestare.
Anche Salvini grida al voto subito per non tradire gli elettori. In realtà dovrebbe parlare di tradimento dei sondaggi, che però in nessun paese al mondo sono assunti a fondamento degli assetti di governo. E di certo non si può affidare il ponte di comando a chi ha chiesto pieni poteri sulla base di un consenso costruito soprattutto con una catena di montaggio di selfie. Nessun parallelo è possibile con la crisi che portò al governo Dini nel 1995.
Sono possibili, e conformi a Costituzione, tre opzioni: governo di servizio e nuove elezioni subito, governo di qualche mese per una nuova legge elettorale, governo di legislatura. Le prime due opzioni potrebbero essere un assist a Salvini, che si sottrarrebbe a una difficilissima legge di stabilità e rimarrebbe libero di bombardare quotidianamente il quartier generale con il mantra: «Se non mi avessero impedito di governare avrei fatto tutt’altro». La terza opzione è in astratto da preferire perché consentirebbe di disfare almeno in parte il malfatto fin qui, e ritrovare la Costituzione perduta. Ma certo è la più difficile da realizzare. La scelta rimane nelle mani di Mattarella, che potrebbe anche non dichiarare una sua preferenza. Ma la dedurremmo dalla scelta della persona incaricata. Una figura minore reggerebbe la prima o la seconda opzione. La terza suggerirebbe un personaggio di alta caratura, della statura di un Draghi o per quanto possibile equivalente.
Salvini, chiedendo di vedere le carte, mette in luce il respiro

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Crisi di governo. Questa legislatura è nata male, da un accordo parlamentare tra due partiti che in campagna elettorale avevano chiesto il voto uno contro l’altro. Ma proprio per questa ragione adesso si deve tornare in Parlamento e lì tentare di trovare una nuova maggioranza.

Quella volta della nostra copertina “Baciare il rospo?” era il gennaio 1995, si trattava del governo Dini, dopo il ribaltone di Bossi contro Berlusconi. Con tanto di punto interrogativo nel titolo (come non si dovrebbe mai fare). Ma la scelta era importante e neppure il verbo “baciare” al posto di un altrettanto consono “ingoiare” era lì per caso. Baciare conteneva la speranza che la bestia si trasformasse in principe.

La stagione dei rospi sembra tornata di attualità. Renzi e Di Maio sono difficili da digerire, Salvini ancora di più, resterebbe sullo stomaco non solo a noi ma alla democrazia italiana. Chi se lo può immaginare un presidente della repubblica eletto da una destra che scimmiotta Mussolini? O la giustizia e l’ordine pubblico affidati alle guardie pretoriane di Meloni e del capo leghista?

Se un accordo di programma tra Pd, 5Stelle e Sinistra fosse stato scelto e preferito al contratto con il caudillo della Lega dopo il 4 marzo, avremmo evitato che si montasse la testa un ministro da Papeete beach che sta in parlamento con il 17% e chiede di sciogliere le camere perché glielo consigliano i sondaggi.

Ma è inutile piangere sul latte versato, o mettersi ad elencare gli insulti reciproci tra Pd e M5S. E’ invece importante cercare di cogliere l’occasione della crisi di governo per far cambiare strada alla legislatura. Non le decide Salvini le elezioni anticipate, a un poco più di anno dalle ultime votazioni.

Questa legislatura è nata male, da un accordo parlamentare tra due partiti che in campagna elettorale avevano chiesto il voto uno contro l’altro. Ma proprio per questa ragione adesso si deve tornare in Parlamento e lì tentare di trovare una nuova maggioranza.

E’ altrettanto evidente che nessun governo “istituzionale” o “tecnico” o “del presidente” o “di scopo” può dare al paese la svolta politica di cui ha bisogno, come sarebbe quella che vedesse prevalere uno schieramento di forze ampio, dal Pd a Leu ai 5Stelle, su un’agenda alternativa.

Facile a dirsi perché al momento rischiano di prevalere interessi di bottega, anzi personali, a cominciare da quelli del Pd. Renzi vuole tenersi i seggi in Parlamento, e l’accordo con Di Maio (smentito ufficialmente da dichiarazioni di chiusura “no, con Renzi nessun tavolo”), che ha il medesimo interesse, si può trovare. D’altra parte per Zingaretti sostituire i renziani con i suoi resta una tentazione, testimoniata dalle prime reazioni al patatrac, quando invitava «al voto, al voto». Tanto da ricevere i complimenti di Salvini: «Zingaretti è il più coerente».

Se è o vuole essere un leader, il segretario del Pd dovrebbe convocare una direzione e proporre una linea politica, indicando i punti di programma per un accordo di legislatura. Del resto il suo rimettersi alle decisioni del Capo dello Stato non vuol dire niente perché è via obbligata e scontata. Così come sembra debole giustificare in qualche modo il voto anticipato per sottrarre a Salvini il comodo ruolo di opposizione. Avrebbe senso solo di fronte a un papocchio, che purtroppo resta l’eventualità più probabile.

Banalmente, come diceva Andreotti, «il potere logora chi non ce l’ha». Senza il potere, con un governo che spostasse su altri contenuti il paese, non più l’oscena caccia all’immigrato ma le vere emergenze sociali e ambientali, le proposte economiche e più in generale una visione della giustizia e dei diritti civili, Salvini si troverebbe improvvisamente senza magliette della polizia, senza leve di comando, senza soldi per tenere su la baracca propagandistica, con meno telecamere al seguito. E persino il suo profondo Nord se lo toglierebbe volentieri dai piedi, a cominciare dagli industriali lombardo-veneti che in questo anno di governo gialloverde gli hanno retto la coda sotto la bandiera del Tav e contro l’odiato reddito di cittadinanza dei grillini.

L’altro protagonista di un nuovo governo alternativo alla destra, i pentastellati, sta come un pugile suonato sul ring. Il M5Stelle è diviso ed esce con le ossa rotte da una deludente prova di governo perché alle misure contro la povertà e per il lavoro (sostegno al reddito, decreto dignità sulla precarietà) ha affiancato pessime leggi, provvedimenti disumani e illiberali (chiusura dei porti, dileggio delle Ong, attacchi alla libertà di stampa), che hanno silenziato la sinistra interna risolvendo i problemi con l’espulsione dei dissidenti. Senza una schietta autocritica sulle scelte del governo è difficile costruire un’alleanza di programma.

Quello che diciamo e scriviamo in queste ore, i politici, i giornalisti, la gente comune, su come uscirne presenta i pro e i contro. Però una cosa deve prevalere, la decisione di non consegnare il paese ai fascio-leghisti.

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Crisi di governo. Sembra di capire che il Partito democratico preferisca un governo chiaramente salviniano per potersi meglio fare le ossa e crescere nei consensi grazie alla polarizzazione

 

Si assiste in queste ore convulse ad una gara di entusiasmo per il voto anticipato. Nel nome della chiarezza, del non inciucio, del far parlare gli italiani – a destra come a sinistra, tutti stregati dal ritorno alle urne. E Matteo Salvini dirige questo garrulo coro nel quale poco o nulla ci si preoccupa delle possibili conseguenze di un monocolore targato Lega.

Eppure bisognerebbe preoccuparsi molto proprio in base a quello che Salvini ha mostrato di poter fare in questo anno di governo di coalizione, e per quel che ha detto nel comizio a Pescara: «Abbiamo fatto una scelta di coraggio. Adesso chiedo agli italiani se hanno la voglia di darmi pieni poteri per poter fare quello che abbiamo promesso senza palle al piede. Chi sceglie Salvini sa cosa sceglie».
«Pieni poteri» – cosa assurda in una democrazia parlamentare, è ovvio. Ma il solo coraggio di usare questa espressione mussoliniana, intesa probabilmente a rubare consensi a Fratelli d’Italia, fa rabbrividire.

Salvini vuole la libertà dai lacci e lacciuoli che imporrebbero un governo di coalizione – ecco perché mostra fastidio a presentarsi come il capo di una maggioranza di destra (con disappunto di Giorgia Meloni e di quel che resta di Forza Italia).

Salvini è il Capitano del suo popolo, non di quello d’altri. E il suo popolo, come sanno bene coloro che studiano il populismo, è un artificio retorico di tanta maestria da riuscire a far sentire chi vi si identifica una cosa sola col capo.

Così fu per il più grande dei populisti, colui che diede a questa forma di governo un’identità sua propria, Juan Domingo Perón, il quale disse celebrando la vittoria elettorale del 1949: «Abbiamo dato al popolo l’opportunità di scegliere … Il popolo ci ha eletto, e il problema è risolto».

Il capopopolo pratica una forma di rappresentanza che ha davvero poco a che fare con il mandato elettorale,

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