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I sindacati: le aziende del gruppo Bucci di Faenza non riconoscono l’anticipo della cassa integrazione mettendo in difficoltà i lavoratori

gruppo bucci faenza

Leggi tutto l'articolo su Ravennanotizie con la protesta di Fim, Fiom, Uilm provinciali

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da “il Manifesto” del 27 marzo 2020

Nei momenti di crisi c’è sempre chi ha un coniglio nel cilindro da esibire. Che si chiami governo di salute pubblica, o governo Draghi non ha importanza: serve soltanto a creare disorientamento. Come se la situazione non fosse già molto complicata.
Non a caso il rischio di implosione dell’Unione europea è stato implicitamente messo sul piatto da un uomo in genere misurato come appunto Mario Draghi, che ha definito il caso planetario Coronavirus come “una tragedia umana dalle proporzioni potenzialmente bibliche”, invitando i governi “a un significativo aumento dei debiti pubblici”.

Non sono invece per nulla misurati i suoi numerosi estimatori, di destra e di sinistra, che lo reclamano come l’uomo forte, il salvatore della (povera) patria, il nuovo Ciampi.
Le invocazioni che gli giungono dal mondo della politica con l’offerta della guida del paese hanno come sottotesto l’evocazione fumettistica da Avengers, di qualcuno con i superpoteri, dell’uomo al di sopra delle parti, senza colore politico, al servizio delle istituzioni. Una disarmante semplificazione.
Neppure lo sconvolgimento totale di ogni sicurezza, scientifica, politica, etica, neppure lo stravolgimento della vita quotidiana sembra incrinare le coordinate mentali di una presunta classe dirigente che dovrebbe essere un passo avanti rispetto all’opinione pubblica e che, invece, nonostante la tragedia mondiale, sembra perpetuare se stessa.

Oggi stiamo assistendo a una radicale rivoluzione che pretenderebbe il cambiamento richiesto negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi due anni dal movimento ambientalista.
L’aspetto più vistoso e potente, di risposta alla Pandemia, è il ruolo esercitato dagli Stati e di conseguenza dal settore pubblico. Questa talpa costringerà tutti a misurarsi con una nuova realtà, con profondi rivolgimenti sociali, con un peso crescente del welfare state.
Se non ci fosse la tragedia dei morti e il disastro economico che ci accompagnerà per i prossimi anni, si potrebbe quasi dire che il Coronavirus stia seminando anche buoni frutti, utili per costruire nuove visioni e nuovi equilibri globali.

Norma Rangeri

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Il Covid-19 mette a nudo tutte le falle di un sistema basato sulla logica del profitto, dove fare un tampone costa 750 euro. Abbiamo raccolto una voce da Pittsburgh, quella di Michelle Boyle, infermiera e sindacalista

Mentre scopriamo che mezzo milione di tamponi per individuare la positività al coronavirus hanno preso il volo per gli Stati Uniti, mentre in Lombardia ci si chiede perché un’azienda bresciana – che aveva a disposizione materiale utile per affrontare l’emergenza nella regione più colpita – abbia scelto di dirottarlo altrove, proprio in America i numeri di infetti e contagiati iniziano a salire. La linea del presidente Donald Trump è stata ondivaga: inizialmente sprezzante per i Paesi colpiti, fino a definire il coronavirus una malattia straniera. Con il passare delle settimane, però, i tweet arroganti sono stati sostituiti da retweet di funzionari di governo che davano indicazioni sui sintomi e rassicuravano sul lavoro che i legislatori statunitensi metteranno in campo.  È proprio parlando di Donald Trump che Michelle Boyle, componente dell’esecutivo della Seiu - Service Employees International Union e infermiera di lungo corso, inizia a raccontare come il suo Paese stia affrontando quella che ormai è riconosciuta come una pandemia globale.

Il nostro presidente? Ha aspettato troppo, ha rifiutato di assumersi le proprie responsabilità e ha lasciato che fossero i singoli Stati a farsi avanti. Così si è proceduto in ordine sparso con sensibili differenze tra democratici e conservatori. Prima Trump ha depotenziato il Centro per il controllo delle malattie, poi è tornato a parlarne. Persino sui kit per il test inizialmente ha rifiutato le disposizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità. Perché? Non ne ho davvero idea. Non ha alcun senso”. È seduta sul divano nella sua casa di Pittsburgh. La rabbia e l’indignazione si percepiscono chiare anche attraverso lo schermo del pc. Così come si avverte il timore che qualcosa di enorme stia per accadere. In ospedale lei non va in corsia da tempo. Il suo compito è sbrigare le pratiche per l’accoglienza. Ma in caso di emergenza sarà obbligata a riprendere il camice e a tornare tra i pazienti. Per ora le indicazioni arrivate dall’ospedale tendono al contenimento. Non hanno registrato alcun caso ma va evitato l’affollamento, sia dei visitatori che dei pazienti nelle sale d’aspetto. Le figure professionali non essenziali  al momento devono restare a casa, pronte a rientrare in gioco quando sarà necessario. Perché una cosa è certa: sarà necessario.

Intanto la vita quotidiana rallenta. I figli di Michelle sono a casa già da giorni. Le scuole a Pittsburgh sono chiuse. Ma l’America, terra dei sogni, può trasformarsi in un incubo se sei tra quei 40 milioni di cittadini che vivono in povertà. E così restano aperte le mense scolastiche per consegnare cibo da asporto a quei ragazzi e a quelle ragazze che altrimenti non avrebbero di che mangiare. “È un problema enorme anche per il nostro sistema sanitario. È noto che non abbiamo un sistema pubblico e universale. Così anche fare i tamponi sarà problematico. Non tutti potranno permettersi un esame che al minimo costa 750 dollari. Vorrà dire che i poveri pagheranno questa pandemia con la vita e chi potrà permetterselo si salverà. Tanto per darvi un’idea di cosa si parla: la mia famiglia è composta da quattro persone ed è una famiglia fortunata perché essendo infermiera e iscritta al sindacato godo di una serie di agevolazioni, ciononostante paghiamo 70mila dollari di assicurazione sanitaria l’anno, a cui vanno aggiunti venti dollari per ogni visita medica di base, quaranta dollari per ogni visita specialistica e settantacinque per quelle in emergenza, in detrazione portiamo solo 1500 dollari. Ma ripeto: il nostro è un caso fortunato.”

La questione economica, quella sanitaria e la qualità del lavoro si intrecciano nella fotografia di un’America che il virus coglie strutturalmente impreparata. “Non abbiamo mascherine a sufficienza - racconta Michelle, sindacalista e infermiera - quelle che abbiamo non sono adatte a schermarci da questo virus in base a quanto ci viene riferito dagli epidemiologi, non disponiamo di strumentazioni sufficienti, anche solo quelle per garantire la nostra sicurezza di base. Per non parlare dei reparti di terapia intensiva: mancano posti letto, operatori sanitari e medici. È terribilmente frustrante sapere che è stato ed è sempre il profitto a governare il nostro sistema sanitario. È per questo che l’industria sanitaria ha totalmente ignorato le malattie virali: troppo poco proficue, piuttosto va detto che anche ora ci si concentra su grandi acquisizioni e fusioni tra strutture sanitarie, alcune arrivate a costare fino a cinquanta milioni di dollari come nel caso di quelle portate avanti dall’Upmc, il Centro medico dell’Università di Pittsburgh, con quaranta cliniche sotto il suo ombrello”.

Qual è il conteggio delle vittime negli Stati Uniti? Difficile dirlo. Proprio per il grande ritardo con cui si è intervenuti e per il fatto che i tamponi sono pochi e non accessibili a tutti. Quel che si sa è che sono in rapido aumento, raddoppiate in un solo giorno, tra giovedì e venerdì. Per questo motivo, anche la Grande Mela ha ceduto e ha chiuso tutto tranne i servizi essenziali. Le informazioni scarseggiano. Persino per un’infermiera come Michelle è difficile capire quale procedura verrà adottata nel suo caso: quando tornerà in corsia per l’emergenza? Dovrà vivere in isolamento? Come? Per quanto tempo? Domande che Michelle si pone pensando alla sua famiglia, ai figli ancora adolescenti e ai genitori più avanti con l’età. Michelle, però, ha una speranza e un punto di forza. “Non mi sento sola – spiega  – Far parte di un sindacato rende tollerabile affrontare tutto, persino questo disastro. Prima che entrassi  nella mia organizzazione, mi sentivo sempre molto isolata, da quando sono iscritta so che quando ho un problema posso sempre contare sulla presenza di qualcuno che mi sostiene. E non è poco. Spero che quando tutto questo sarà finito, però, il mondo sarà pronto a cambiare, pronto a difendere quei diritti enunciati nella carta universale: l’acqua, la salute, il cibo, il lavoro… Anche perché tutto si tiene assieme. Se i lavoratori non dispongono di giorni di malattia retribuiti, come accade da noi, non possono tutelare la propria salute e quella delle nostre comunità, se il lavoro è esposto al ricatto, se è povero, non garantisce l’accesso a beni primari, se la salute è in mano ai privati il benessere pubblico è maledettamente compromesso.” 

Così compromesso che negli Stati Uniti già si moriva soli e indifesi, ben prima dell’arrivo del Covid-19. Quando la video-chiamata con Pittsburgh sta per terminare, Michelle si commuove ma resta ferma e racconta della disperazione di una sua amica asmatica rimasta vedova con figli a carico e delle peripezie per ottenere un’assicurazione sanitaria, racconta anche di sua suocera: “Vent’anni fa perse il lavoro, la sua salute era già precaria ma una volta licenziata le fu impossibile trovare un’assicurazione,  così non le rimase che aspettare di accedere al programma federale Medicaid. La vedevamo spegnersi un po’ alla volta. Lei cercava di non farci preoccupare. Noi eravamo impotenti. Medicaid non arrivò mai. Un anno prima era con noi, l’anno dopo era morta senza cure a cinquant’otto anni. Cosa accadrà adesso? Nessuna garanzia. E ci saranno persone che perderanno tutto, persino la propria casa, pur di potersi curare. Chissà se riusciranno. Quando ci penso mi viene sempre in mente quando nel 2015 partecipai a un’udienza davanti alla Corte Suprema, c’era un bambino di quattro anni a cavalcioni sulle spalle del padre e in mano aveva un cartello: sono salvo grazie a una sanità accessibile. Chissà che fine farà adesso quel bambino?”

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Una lucida analisi della diffusione del virus Covid19 che chiude la bocca a molte dietrologie e mette il dito nella piaga delle inadempienze dell'Occidente, ma si conclude con uno scenario di speranza: dipende da noi.
AM

(da “il Manifesto del 22.03.2020)

Nelle grandi città o nei piccoli centri, in Europa e nel mondo, ci stiamo addentrando di giorno in giorno in una sceneggiatura da film distopico, come se le strade vuote, i guanti di lattice, le mascherine e l’autoisolamento fossero la nuova normalità. Domani in India (oggi per chi legge), la prima prova di totale chiusura nazionale che la storia umana abbia mai sperimentato, dalle ore 7 alle 21, coinvolgerà 1 miliardo e 300mila cittadini in un paese dove si stimano 1,8 milioni di persone senza casa e 73 milioni prive di una abitazione decente (v. Habitat, 2019). Mai era accaduto prima che tutto l’ingranaggio del mondo si fermasse a causa di un virus. Sars-CoV2 ha fatto il salto di specie in un luogo imprecisato della città di Wuhan, e da quel momento attraversa inarrestabile confini nazionali che la globalizzazione ha cercato di smussare quanto più possibile negli ultimi decenni.
E mentre ci rammenta quanto siamo interconnessi e interdipendenti su questa terra, pur nelle nostre fragilità funzionali ed esistenziali, il primo paradosso è che il multilateralismo esce a pezzi dai primi mesi di contagio mondiale.
La comunità internazionale, che oggi si trastulla con gli impegni, sempre rimandati, dello sviluppo sostenibile, non ha mai imparato dai corrosivi segnali che le sono giunti dall’inizio del millennio – l’attacco alle Torri

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In questi giorni di emergenza da Covid-19 si stanno restringendo diversi diritti, a cominciare da quello della libertà di movimento. Del resto, l’emergenza sanitaria è talmente grave (e inedita) da rendere inevitabile la compressione di talune libertà. Tuttavia, ogni limitazione deve essere limitata, transitoria e –va aggiunto- saldamente controllata, nel suo perimetro e nella sua invadenza, dalla sfera pubblica.
La questione diviene particolarmente delicata e per ciò che concerne la circolazione e il trattamento dei dati personali. Il Garante Antonello Soro si è mosso scrupolosamente fin dallo scorso febbraio, indicando i criteri generali alla Protezione civile. Si tratta di combinare due diritti costituzionali altrettanto cruciali: la salute e la riservatezza. Come può accadere in casi omologhi, in simili situazioni è inevitabile scegliere il diritto prevalente. E la vita di un essere umano prevale sempre. Tuttavia, il tema della raccolta delle tracce che ognuno di noi lascia in giro magari senza esserne

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Da “il Manifesto” del 19.03.2020

Stati di eccezione. Quel che più preoccupa è l’idea che in fondo si può uscire dall’emergenza con nuove, straordinarie regole anche per l’ordinaria amministrazione

Come tutelare la nostra democrazia costituzionale dalla pandemia? Anzitutto riconoscendo lo stato di necessità nel quale siamo precipitati, ma negando al tempo stesso ogni possibile generalizzazione.
Lo stato d’eccezione non è il paradigma fondativo le nostre comunità politiche, non è la regola, non può neppure essere legittimato come strumento di governo, deve invece nei limiti del possibile essere circoscritto. Se, infatti, non si può negare che la necessità “di fatto” assurga a fonte autonoma qualora provvedimenti siano necessari per fronteggiare esigenze improvvise e imprevedibili che mettono in discussione l’esistenza stessa dello Stato e della comunità di riferimento, non si deve accettare che terminato lo “stato di necessità” la rottura delle regole prosegua. In alcuni casi è la stessa costituzione a indicare i limiti dell’eccezione, in altri tutto avviene fuori da ogni previsione normativa, nel vuoto delle norme.
Così mentre la nostra costituzione prevede espressamente che si possano limitare le libertà di circolazione e di riunione per motivi di sanità, sicurezza o incolumità pubblica, essa appare più indeterminata sugli strumenti e i modi per far concretamente

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