Le nomine. Per tenere a bada la cattiva politica non serve la negazione retorica della realtà. Si rende indispensabile una vera riforma del settore, nella quale sia rivisto innanzitutto il meccanismo di scelta dei vertici, affidandolo ad un’entità terza come una fondazione
La sede generale Rai di Viale Mazzini con il cavallo di bronzo, opera dello scultore siciliano Francesco Messina © Mauro Scrobogna /LaPresse
Nelle ultime ore le voci sussurrate sono diventate una grida. Lo slogan del fuori i partiti dalla Rai è stato solo una patetica messa in scena, perché il rito delle nomine torna con una ripetitività seriale. Anzi l’ultima girandola fa rimpiangere persino la vecchia ed esecrabile lottizzazione.
Una lottizzazione che – pur indifendibile- aveva per lo meno il retroterra di reali organizzazioni di massa. Del resto, Emmanuele Milano, Massimo Fichera, Angelo Guglielmi, Emilio Rossi, Alberto La Volpe o Sandro Curzi (per citare un po’ di nomi) non sfigurarono affatto. Al contrario. Via via il contesto è mutato, deteriorandosi con la crisi di una politica invadente ed ossessiva, ma almeno più vitale. Così, il metodo lottizzatorio è rimasto come un’ideologia, tuttavia declinandosi con gruppi di potere, lobby e salotti: spesso copie ingiallite degli originali.
La fresca infornata di nomi, espressa da un consiglio di amministrazione tenutosi per una volta a Napoli (dove, per gli smemorati, dovrebbe invece avere sede l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni), va giudicata – dunque- come sintomo di un processo, al di là del giudizio sulle singole persone prescelte. Brave o meno, ma è un altro discorso. Recordman Mario Orfeo, ormai ricolmo di targhe e distintivi. Comunque, l’unanimità nella decisione non vi è stata e lo strappo con il Mov5Stelle non sembra facilmente sanabile. Del resto, Giuseppe Conte non ha torto: o si utilizzano modalità finalmente diverse (uno dei migliori testi depositati reca la firma del senatore pentastellato Primo Di Nicola), o il pluralismo va rispettato.
Vanno aggiunte due ulteriori considerazioni. L’una positiva: un pezzo del tetto di vetro si è rotto e tre donne assurgono alla direzione di testate: Tg1, Tg3 e RaiSport. Un’altra assai negativa se non inquietante, a parte la sminuita rappresentanza delle voci: la radio cambia il suo vertice la settima volta in sette anni ed Andrea Vianello, cui era stata da poco affidato il progetto di rilancio di Rainews24 (la cui redazione è allarmata per qualche intervista non commendevole del neo-direttore) connesso a quello del sito Web e dei social, cambia destinazione. Annotazioni critiche al riguardo sono state sottolineate dal sindacato dei giornalisti, che evoca giustamente l’assenza di una vera visione strategica.
L’amministratore delegato Fuortes, pur blasonato per esperienza e curriculum, già sembra sbandare alle prime curve della corsa. Chissà come può essere venuto in mente di umiliare 5Stelle, tuttora forza di maggioranza relativa, proprio alla vigilia del passaggio ad alto rischio della presidenza della Repubblica. Misteri della fede. La colpa, però, non risiede solo in una persona ed eventualmente nella cerchia che lo attornia. Il colpo del knock out all’azienda pubblica fu inferto nel Natale del 2015 dalla legge 220, quando a palazzo Chigi sedeva Matteo Renzi: tutto il potere passò al governo che sceglieva l’Ad rovesciando una quarantennale giurisprudenza costituzionale. Quest’ultima, infatti, attribuiva al parlamento l’indirizzo e la vigilanza sul servizio pubblico. Si passò alla logica del capo azienda, che in un universo complesso e costituito da un mosaico di sensibilità produce guai. Nelle stesse logiche di impresa, nell’era delle piattaforme e della crossmedialità, il tema è sentito ed attuale.
Non solo. Per tenere a bada la cattiva politica non serve la negazione retorica della realtà. Si rende indispensabile una vera riforma del settore, nella quale sia rivisto innanzitutto il meccanismo di scelta dei vertici, affidandolo ad un’entità terza come una fondazione. Decenni di pomposi convegni non sono serviti a granché, se è vero che ormai il capitolo sembra proprio svanito dall’orizzonte delle priorità. Si provò a mettere un freno ad ingerenze improprie con una legge del 1993, la 206, che attribuiva ai presidenti delle camere la funzione di nomina dei consiglieri. La piccola ventata di novità fu schiacciata dal furore della normativa del 2004 a firma dell’ex ministro Gasparri. Fino all’ultimo passaggio. Questo, ovviamente, non giustifica le ultime ferite. Da curare, subito.