Intervista. Parla la sociologa che presiede il Comitato scientifico. Ieri ha presentato le conclusioni dell'analisi del provvedimento più discusso degli ultimi anni con il ministro del lavoro Andrea Orlando. Chieste numerose modifiche per redistribuire le risorse alle famiglie numerose, correggere iniquità e moralismi contro i poveri, superare proposte irrealistiche e ingiuste come l'obbligo di lavorare a 250 km da casa e oltre. "Il vero problema è che in Italia manca la domanda di lavoro". "L’esclusione degli stranieri extracomunitari dal «reddito» è ingiusta e miope. 10 anni sono il requisito più alto al mondo. Va dimezzato"
La sociologa Chiara Saraceno con il ministro del lavoro Andrea Orlando © LaPresse
Professoressa Chiara Saraceno, come presidente del Comitato scientifico per la valutazione del «reddito di cittadinanza» ieri ha presentato, con il ministro del lavoro Andrea Orlando, i risultati delle vostre analisi. È d’accordo con chi sostiene che nella legge di bilancio questa misura è stata riformata?
L’ho sentito dire da Conte in televisione. Non scherziamo. Oltre al rifinanziamento del «reddito», cosa importante, ciò che è stato fatto è una stretta sui controlli ex ante sull’erogazione della misura e un irrigidimento delle penalità pensato, a mio sommesso parere, in maniera un po’ irrealistica.
A cosa si riferisce?
Per esempio alla decadenza del «reddito» in caso di rifiuto di una seconda offerta di lavoro a 250 chilometri dalla città di residenza o addirittura su tutto il territorio nazionale. Ma quale imprenditore di Trieste o Bolzano cercherebbe chi prende il reddito e abita a Messina? Sono decisioni che rafforzano una narrazione negativa sui percettori del reddito senza in realtà toccare il problema: in Italia manca una domanda di lavoro adeguata alle caratteristiche di potenziali lavoratori molto fragili, con basse qualifiche, che non possono aspirare a redditi alti.
Cosa pensa del taglio del sussidio dopo il primo rifiuto di un’offerta di lavoro «congrua» voluto dal governo?
Non è un taglio molto consistente, mi sembra di 5 euro al mese, per fortuna. Mi auguro che il décalage avvenga solo sulla quota di reddito di chi rifiuta l’offerta e non ai danni di tutta la famiglia. È più un segnale di incoraggiamento a non rifiutare l’offerta. Ma io non mi sarei spinta su queste punizioni.
La definizione di un’offerta di lavoro «congrua» è un rompicapo. Avete proposto modifiche. Quali sono?
Ci siamo preoccupati del fatto che alcune norme che riguardano questa idea di «congruità» siano forse troppo rigide e troppo lontane dalla condizione dei percettori del «reddito». Ricordo che più di due terzi non sono reputati in grado di lavorare. So che la proposta sarà criticata da qualcuno ma noi suggeriamo di dire che, anche se il lavoro è inferiore ai tre mesi di contratto, al momento limite minimo per la legge, e se fosse minimo di un mese a tempo pieno e pagato il giusto, l’offerta dovrebbe essere ritenuta congrua perché chi è «preso in carico» ha bisogno di entrare nel mercato del lavoro e fare un’esperienza. Ciò detto, non a 250 chilometri o su tutto il territorio nazionale. Visto il reddito da lavoro che percepiranno come farebbero a mettersi in viaggio per un mese di lavoro? Non succederà mai. La possibilità di cumulare è prevista in altri paesi europei e negli Usa. Si può affiancare al sostegno un reddito da lavoro entro un certo livello.
Non c’è così il rischio di aumentare il precariato senza emancipare dalla povertà?
Il precariato esiste e non è solo quello di chi ha un reddito di cittadinanza che lavora con contratti a tempo determinato. La mia preoccupazione è che queste persone siano messe in grado di diventare occupate in maniera dignitosa. Vivere di assistenza non è il massimo. Non si inventano lavori precari per loro, si tratta invece di legittimare l’idea che si possa integrare il reddito di cittadinanza con quello da lavoro così da rendere possibile fare qualcosa per se stessi. Lo ripeto: il problema è la domanda di lavoro che è scarsa anche per persone più qualificate.
Le imprese e alcuni partiti sostengono che il reddito impedisce di trovare lavoratori. È quello che risulta dalle vostre analisi?
È una delle tante narrazioni che non ha nessun fondamento empirico. Non esistono dati sulle offerte di lavoro a percettori di «reddito» e su quelle rifiutate. Gli unici che abbiamo sono quelli sulle «prese in carico» da parte dei centri per l’impiego e riguardano una parte di chi ha firmato il patto per il lavoro. Tutti gli altri sono mandati ai servizi sociali. Le «prese in carico» non indicano chi ha un lavoro, o lo ha rifiutato, ma che c’è stato solo un incontro con gli addetti dei centri per l’impiego. La pandemia ha fermato tutto mentre i centri per l’impiego, diciamo, che non funzionano molto bene per tutti. Non si vede perché dovrebbero farlo solo per una forza lavoro fragile. Se qualcuno ha trovato un lavoro lo ha fatto per conto proprio.
Chiedete anche una modifica alla norma che fa decadere il reddito a tutta la famiglia. Di cosa si tratta?
Se un beneficiario non sta agli obblighi viene tolto tutto il reddito a lui e alla sua famiglia. A noi questo pare sommamente ingiusto, e avviene già oggi. Non si capisce perché debbano essere ritenuti colpevoli i minorenni. Oppure se un figlio adulto non sta agli obblighi perché i genitori non dovrebbero continuare a essere sostenuti? È un controsenso rispetto alla norma che dice che gli adulti possono avere la quota di reddito. Ma allora, se è così, lo si tolga a chi è responsabile, non a chi non lo è.
Un’altra norma punitiva è quella i vincoli alle spese con la carta del reddito. Chiedete di modificare anche questa norma?
Sì. Mi è stato spiegato che, tre anni fa, si è pensato che questa norma potesse incentivare i consumi. Ma partire dai poveri assoluti non mi sembra un’idea brillante. Noi la troviamo una norma assurda, risultato di una visione moralistica dei poveri a cui si pretende di insegnare come vivere. Ma imporre di spendere tutto subito va contro l’idea che bisogna imparare a gestire il bilancio familiare, che le spese non sono le stesse tutti i mesi e che è importante risparmiare non per comprarsi una barca ma per fronteggiare spese emergenziali: la macchina o la lavatrice che si rompono. Nelle politiche di accompagnamento esiste un’altra necessità: programmare le spese future.
In Italia esiste un grande bisogno di reddito. L’Inps sostiene che sono state rifiutate in tre anni più di un milione di domande. Questa situazione è dovuta al fatto che i criteri di accesso alla misura sono troppo ristretti?
Possono anche essere state rifiutate anche perché erano domande molto più alte dei vincoli. Per certi versi abbiamo una soglia abbastanza alta rispetto ad altri paesi. Il problema è la scala di equivalenza che penalizza le famiglie numerose ed esclude quelle più povere mentre prevalgono quelle fatte da adulti, le famiglie piccole o i single. Noi suggeriamo di modificare i coefficienti, equiparando semplicemente i minorenni agli adulti, per rendere più facile l’accesso alle prime e, in più, proponiamo di abbassare l’importo massimo per i single a 450 euro. Operiamo una redistribuzione interna delle risorse.
Avete chiesto di portare a 5 anni di residenza, da 10, la norma che esclude i cittadini stranieri extracomunitari dal reddito. Il ministro Orlando ha parlato di una «famiglia di proposte» che potrebbero essere «divisive» per la maggioranza. È una di queste?
So bene che è l’ultima cosa che passerà, ma la norma è irragionevole dal punto di vista della giustizia e strategico. I 10 anni sono il requisito di residenza legale più alto al mondo. Queste sono persone che pagano le tasse, sono qui da tempo e sono tra le più povere. Escluderle dal «reddito» per così tanto tempo rischia di peggiorare le loro condizioni fino a un punto di non ritorno. Senza contare che ci sono i minori. Colpirli significa aumentare i costi sociali dell’esclusione. La misura costerebbe 300 milioni in più, considerate le risorse stanziate è sostenibile. Non farlo sarebbe miope.