La premier blinda i fedelissimi Donzelli e Delmastro e imbriglia il guardasigilli Nordio che in parlamento si arrampica sugli specchi. Ma il caso non è chiuso. 5S e Pd annunciano mozioni di censura. Nuova bagarre al Senato. Meloni: «I toni non li ha alzati il governo»
Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro
Lo scontro non si placa. L’opposizione insiste, per una volta unita. Reclama le dimissioni del sottosegretario Delmastro, che ha messo l’amico e convivente Donzelli al corrente delle conversazioni in carcere tra Cospito e altri detenuti al 41 bis – «dati sensibili» conferma il ministro Nordio – e dello stesso Donzelli, che le ha diffuse in aula al solo scopo di attaccare il Pd. I 5S hanno presentato una mozione di censura con richiesta di revoca delle deleghe di Delmastro. Il Pd annuncia che farà lo stesso.
A palazzo Madama il dibattito s’infiamma. Il senatore di FdI Balboni dà man forte a Donzelli, accusa il Pd di «andare in tv per mettere in discussione il 41 bis» e rincara: «Ma non vi rendete conto che andando in carcere a trovare Cospito avete aperto una voragine alla mafia?», l’opposizione abbandona l’aula. Un nuovo caso si aggiunge alla già fitta lista.
IL CHIASSO DEL L’AULA mette ancor più in risalto il silenzio di Meloni. Che a tarda sera decide di intervenire sul putiferio ormai fuori controllo telefonando in diretta a Rete4. Difende il governo: «Il caso è montato non per volontà nostra, il governo non ha fatto altro che il suo lavoro facendo molta attenzione a non alzare i toni. Ho visto molti toni che, secondo me, buttavano in politica una questione che ci riguarda tutti». Invoca «prudenza».
È stata lei a blindare i suoi due fedelissimi, escludendo le dimissioni, e a imbrigliare il guardasigilli Nordio che, irritatissimo con il suo ciarliero sottosegretario Delmastro, avrebbe
Leggi tutto: Meloni blinda i due fedelissimi. Il ministro resta imbrigliato - di Andrea Colombo
Commenta (0 Commenti)Pochi «ritocchi» non fanno la differenza. Il governo discute la nuova bozza Calderoli sull’autonomia che domani approda in Cdm. Per i leghisti «sarà una festa». A pagare il conto sarà il Meridione. E la legge di bilancio taglia posti di lavoro nella scuola del Sud
Il decreto sull’«autonomia differenziata» che realizzerà la «secessione» delle «regioni ricche» da quelle «povere» è stato «ritoccato» in una riunione del governo (chiamata «pre-consiglio») e sarà approvato «in maniera preliminare» da un consiglio dei ministri domani. Un’espressione singolare per dire che il testo avrà bisogno di essere riesaminato in un altro consiglio dei ministri.
QUESTA FRETTA si spiega con le elezioni regionali in Lombardia. La Lega ha bisogno di mandare un segnale di vita in una corsa dove sta arrancando. Fratelli d’Italia rischia di diventare il primo partito della regione domenica 12 febbraio. Per un pugno di voti, e per riprodursi come partito, si spacca il paese, si creano venti piccoli staterelli regionali, si dà un colpo mortale al Welfare agonizzante, tra i più ingiusti d’Europa. Non a torto il decreto è stato soprannominato «Spacca Italia».
PER TENERE UNITI i partiti post-fascisti e leghisti che la pensano in maniera diametralmente opposta sull’«autonomia», ieri il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha rinfocolato l’interesse di Fratelli d’Italia per il presidenzialismo. Per questo ha rinnovato il patto
Commenta (0 Commenti)Il numero 2 di FdI e del Copasir si scaglia contro i dem che hanno visitato Cospito in carcere. In campo il Giurì d’onore e il ministro
Finirà di fronte al Giurì d’onore, che però si limita a distribuire i torti e le ragioni in via definitiva, senza voto e senza poter essere sindacato ma anche senza poteri sanzionatori. Finirà in tribunale: la capogruppo del Pd alla Camera Debora Serracchiani ripete per tutto il giorno che il suo partito procederà «per via anche giudiziaria perché è stata lesa la nostra onorabilità». È già finita in richiesta di dimissioni di Giovanni Donzelli da vicepresidente del Copasir perché nell’intervento dello scandalo, quello in cui ha accusato il Pd di far da sponda a terroristi e mafiosi, il coordinatore di FdI ha sciorinato informazioni sui colloqui di Cospito con altri detenuti e non si capisce come ne sia entrato in possesso.
IL PARLAMENTO AVREBBE dovuto e potuto affrontare il caso Cospito da mesi. La prima interrogazione, presentata dal capogruppo di Avs al Senato Peppe De Cristofaro, è del 3 novembre. Non ci fu risposta come non c’è stata a una seconda e più recenti interrogazione. In compenso l’aula di Montecitorio è esplosa ieri, non sull’opportunità o meno di lasciar morire Alfredo Cospito come Bobby Sands ma sull’accusa, rivolta al Pd di complicità nell’assalto contro il 41 bis. Cioè contro quel regime carcerario che mamma Europa bolla come una forma di tortura.
DONZELLI, ANCHE PIÙ scalmanato del solito, ciuffo al vento ed espressione alla Tony Perkins in Psycho, vuole provocare e in materia è un maestro. Si dovrebbe parlare dell’istituzione della commissione Antimafia proposta dal Pd, lui però scarta e si lancia in un teorema da alta dietrologia secondo cui Cospito altro non sarebbe che lo strumento adoperato dalle mafie per scardinare il santissimo articolo. Come si spiega altrimenti la solidarietà manifestata da due detenuti, uno della ’ndrangheta, l’altro dei casalesi? Incrociandolo al volo nei corridoi del carcere l’hanno esortato ad andare avanti. Più chiaro di così! Il pezzo forte però arriva alla fine, quando il numero 2 di Fratelli d’Italia accusa quattro deputati del Pd, la capogruppo Debora Serracchiani, Walter Verini, Silvio Lai e Andrea Orlando, di essere andati a trovare Alfredo Cospito nel carcere di Sassari per «incoraggiarlo nella battaglia». La conclusione è teatrale e fragorosa: «Voglio sapere se questa sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi con la mafia?». Insomma, tutti insieme appassionatamente, anarchici, mafiosi e Pd, uniti per abbattere il 41 bis.
MA PER IL PD SENTIRSI accusare di cospirare contro il carcere duro è troppo. Tremante di indignazione, Debora Serracchiani passa da una conferenza stampa improvvisata a una raffica di interviste volanti: «Sono parole gravissime che hanno rilevanza penale. La presidente Meloni deve dire se le condivide. Non abbiamo mai messo in dubbio il 41 bis né dubitato delle decisioni prese», cioè della scelta di applicare quell’articolo a Cospito. «Eravamo a Sassari solo per valutare se quel carcere era attrezzato per garantire le condizioni di salute di Cospito e Nordio ha fatto esattamente quel che chiedevamo. Ha confermato il 41 bis ma spostato l’anarchico a Opera». Dietro lo scambio di ceffoni, sul caso Cospito l’accordo è armonioso.
CHIAMATA DIRETTAMENTE in causa, la premier a pronunciarsi non ci pensa per niente. Donzelli, felicissimo del risultato ottenuto, non solo non si rimangia la parola ma rincara per tutto il giorno: «Abbiamo messo il dito nella piaga. Sono settimane che su Cospito il Pd balbetta». Il presidente della Camera Lorenzo Fontana, investito della spinosa faccenda, se la cava accettando la richiesta di convocare il giurì d’onore. Il guardasigilli Carlo Nordio anticipa a oggi l’informativa a Montecitorio sull’intera vicenda. I fuochi artificiali sono garantiti perché il Pd martella su quelle intercettazioni ambientali registrate nel carcere di Sassari e messe a disposizione di Donzelli dal ministero della Giustizia, e in effetti lo stesso Nordio ha chiesto al suo capo di gabinetto un’informativa urgente sulla fuga di notizie. Il Pd reclama, con Giuseppe Provenzano e Roberto Morassut, le dimissioni del meloniano di ferro dalla vicepresidenza del Copasir: «Con uno come lui nessuno può sentirsi al sicuro».
OGGI ALLA CAMERA voleranno parole forti in un clima da scontro frontale. C’è persino il caso che, tra un’accusa e un insulto, ci scappi qualche riferimento a Cospito. Per sentenziare all’unanimità che sta benissimo dove sta: al 41bis
Commenta (0 Commenti)GOVERNO. La prima premier della destra radicale arriva al traguardo tra cambi di rotta, passi falsi e un obiettivo: rassicurare i potenti. Più che del Msi, l’eredità sembra quella della peggior Dc. Ma per essere democristiani ci vuole abilità e di quella, sinora, il governo Meloni non ha dato prove di sorta
Giorgia Meloni esce dal Quirinale dopo il giuramento nelle mani del presidente Mattarella - LaPresse
La pagella dei 100 giorni è un gioco e come tutti i giochi ha il suo fondo di verità. Ma come si fa ad assegnare il voto a un governo che ha fatto in realtà pochissimo? Le zuffe, sale della politica, ci sono ma sempre e solo intorno a parole spesso contraddittorie, a promesse doverosamente vaghe, ipotesi senza data di scadenza, segnali privi di sostanza. Quando ha provato a muoversi davvero, come sul contante, sui rave o sulla benzina, Giorgia Meloni ha per lo più fatto danno, dovendo poi impiegare tempo ed energie per disfare correggendo lo svarione di turno.
LE ATTENUANTI per l’immobilismo ci sono. È il primo governo che ha visto la luce in autunno, col fiato della finanziaria già sul collo e anche su quel fronte con margini di manovra ridotti all’osso. Un barlume, una scelta indicativa, un passo coraggioso sarebbero comunque stati possibili. Invece, in quella che a tutt’oggi rimane la sola legge rilevante, il governo Meloni ha scelto di giocare di rimessa. Ha seguito pedissequamente le orme e forse anche la cortesi indicazioni di Mario Draghi. Per il resto non è andato oltre il livello dei “segnali”: carburante per i talk show ma nel concreto materia poco significativa. Dove ha osato prendere una decisione incisiva, cioè sulle accise e il prezzo della benzina, la premier si è infilata in un pantano dal quale sarà difficilissimo uscire. Peccato veniale. La coperta era effettivamente corta e sborsare un miliardo e passa al mese non era scelta che si potesse fare a cuor leggero. Nessun calcolatore di cassa imponeva però di provare a rimediare con una mossa sgangherata come il decreto “antispeculazione”: un passo falso certamente inutile, probabilmente controproducente, che ha solo fatto imbufalire parte della sua base elettorale. Era già successo con la retromarcia sul contante. Rischia di capitare di nuovo, a breve, con le concessioni balneari.
LA FORMULA della presidente del consiglio Meloni, nei casi di conflitto interno alla sua maggioranza o, peggio, con l’elettorato che dovrebbe rappresentare, non è precisamente innovativa: rinviare, rinviare, rinviare. Alla scadenza dei primi 100 giorni la premier decisionista è impegnatissima a non decidere sui balneari, sull’autonomia differenziata, sul Pnrr e lì il guaio rischia di essere grosso, sul presidenzialismo o almeno sulla strada da imboccare per raggiungere quel traguardo. Parlamento o disegno di legge governativo, questo è il dilemma! L’esito è sconcertante: un dibattito politico a tratti acerrimo ma articolato sul nulla. È possibile che il pubblico votante non se ne accorga ma la rissa quotidiana sulla giustizia, tormento eterno, si accende tutti i santi giorni intorno a una riforma che ancora non esiste. Lo stesso intervento sulle intercettazioni, pietra attuale dello scandalo, è al momento solo fumo: parole pronunciate dal ministro della Giustizia Carlo Nordio e puntualmente contraddette a stretto giro dal guardasigilli Carlo Nordio. C’è tempo.
NON SI PENSI tuttavia che la prima presidente del consiglio proveniente dalla destra radicale se ne stia con le mani in mano. In realtà è attivissima. Solo che l’obiettivo del suo darsi da fare sembra essere non il mantenere le promesse fatte all’elettorato di destra bensì il dimostrare ai poteri nazionali e soprattutto internazionali che quelle ruggenti promesse erano chiacchiere da campagna elettorale. Finirà per dover strillare dal palco di qualche comizio: «Yo no soy Giorgia». Sul fronte più nevralgico, quello dei rapporti con la Ue, più che di frenata si tratta di inversione di marcia repentina. Chi se la sarebbe immaginata, appena un anno fa, sorella Giorgia trasformata in vestale del rigore, dei conti pubblici prima di tutto, addirittura dell’austerità?
SU ALTRI FRONTI, invece, si registra solo la frenata a tavoletta. Il blocco navale contro gli immigrati si è sbriciolato in una serie di norme odiose ma fortunatamente quasi inapplicabili. Il terremoto sulla giustizia si sta stemperando nell’impegno solenne a combattere per «una giustizia giusta e veloce». Sic. Per fortuna dei governanti un fronte sul quale bastonare senza scontentare i potenti, incassando anzi i loro applausi, c’era e lì non si è guardato in faccia a nessuno: il reddito di cittadinanza è stato sbrigativamente cassato, trasformato addirittura in una sorta di salario minimo al ribasso.
L’EREDE di Giorgio Almirante sembra avere in mente un modello preciso, però in negativo: il governo gialloverde del 2018. Per quanto in modo spesso sgangherato e dilettantesco, quel governo provava davvero a realizzare quanto promesso in campagna elettorale dai due partiti che lo componevano: quota 100 contro la legge Fornero, il reddito di cittadinanza e il decreto Dignità contro la povertà, le sceneggiate di Matteo Salvini e gli sciagurati decreti Sicurezza nella guerra santa contro gli immigrati e le Ong. Mal gliene incolse. Giorgia Meloni ha imparato la lezione e naviga decisa in direzione opposta: rassicurare i potenti, se del caso rivalendosi su chi di potere non ne vanta alcuno. Più che del Msi, l’eredità sembra quella della peggior Dc. Ma per essere democristiani ci vuole abilità e di quella, sinora, il governo Meloni non ha dato prove di sorta
Commenta (0 Commenti)GERUSALEMME. Nel quartiere a più alta tensione, Mohammed Aliwat, 13 anni, ha sparato contro coloni ferendone due. L'attacco è avvenuto a 12 ore dall'attentato a Neve Yaacov in cui sono stati uccisi sette israeliani.
Gerusalemme, il luogo dell'attentato nel quartiere di Silwan - Ap
Mohammed Aliwat ha solo 13 anni, poco più di un bambino. Ieri mattina poco dopo le 10, con in tasca una pistola, è uscito di casa nel suo quartiere, Silwan, e si è nascosto dietro un’automobile. Ha atteso il passaggio di un gruppo di israeliani e ha fatto fuoco ferendone due: un soldato di 22 anni non in servizio e suo padre di 47 anni. Entrambi sono in condizioni gravi ma stabili. Ferito non grave anche il giovanissimo attentatore, arrestato rapidamente dalla polizia che di solito presidia Silwan con decine di agenti. Questo quartiere ai piedi della città vecchia è uno dei punti di maggiore tensione tra coloni israeliani e abitanti palestinesi nel settore Est, occupato, di Gerusalemme. A Silwan, luogo dove secondo il racconto biblico sorgeva la cittadella di re Davide, il movimento dei coloni da oltre trent’anni porta avanti una lenta ma costante penetrazione. Gli scontri con gli abitanti palestinesi perciò sono quotidiani.
La tensione è ancora più alta in questi giorni per l’uccisione da parte della polizia di Wadih Abu Ramoz, un 16enne che avrebbe lanciato una molotov durante le proteste per il raid sanguinoso dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin in cui giovedì sono morti nove palestinesi tra cui un’anziana. Le autorità e buona parte dei media israeliani hanno descritto l’attacco di Mohammed Aliwat come il risultato «dell’istigazione alla violenza condotta dalle organizzazioni terroristiche» sui palestinesi più giovani. Per gli abitanti di Silwan invece i colpi sparati dal ragazzo 13enne sono la conseguenza dell’oppressione israeliana, soprattutto dei palestinesi più giovani, oltre che una reazione all’uccisione di Wadih Abu Ramoz, cugino di secondo grado di Aliwat. In rete accanto ai post di approvazione dell’attacco a Silwan qualche palestinese ha posto interrogativi sul possesso di una pistola da parte di un ragazzino.
La sparatoria a Silwan è avvenuta poco più di 12 ore dopo l’attacco armato compiuto venerdì sera da Alqan Khairi a NeveYaacov alla periferia nord di Gerusalemme. Le raffiche sparate dall’attentatore davanti a una sinagoga hanno ucciso sette israeliani e ferito numerosi altri, due dei quali restano in condizioni critiche: un ragazzo di 15 anni e un giovane di 24. Si è trattato dell’attentato più grave a Gerusalemme negli ultimi 15 anni. Tra i morti c’è anche una donna ucraina e da Kiev il presidente Volodymyr Zelensky ha espresso solidarietà alle vittime e condannato «il terrorismo ovunque, in Israele come in Ucraina». Il presidente israeliano Isaac Herzog da parte sua ha lanciato un appello alla coesione nazionale. «Attacchi del genere – ha detto Herzog – ci ricordano una semplice e dolorosa verità. Al di là dei dissensi che possiamo avere fra di noi, di fronte ai nostri nemici che vogliono farci del male dobbiamo mantenere la nostra unità». Parole che forse rappresentano un monito a non intensificare ulteriormente la protesta rivolto alle migliaia di israeliani che si riuniscono ogni sabato a Tel Aviv contro la riforma della giustizia avviata dal governo di estrema destra di Benyamin Netanyahu. In piazza Kaplan ieri la manifestazione di protesta è stata preceduta da un minuto di silenzio in memoria delle vittime dell’attentato a Gerusalemme.
Il governo è chiamato dagli ultranazionalisti ad agire subito con pugno di ferro contro i palestinesi. Netanyahu è sotto pressione e persino un leader della destra più estrema, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, è finito sotto accusa perché non avrebbe messo in atto le politiche radicali annunciate in campagna elettorale. La previsione di molti è che si andrà verso una escalation con l’aumento dei raid dell’esercito israeliano nelle città in Cisgiordania, in particolare a Nablus e nel campo profughi di Jenin, le roccaforti della militanza armata palestinese. Un altro battaglione dell’esercito è stato inviato in Cisgiordania e la polizia ha schierato a Gerusalemme anche le unità speciali Yamam che tra venerdì e sabato hanno arrestato oltre 40 palestinesi. A quanto si è saputo, saranno puniti i parenti di Alqan Khairi anche se non sono coinvolti nell’attentato. L’espulsione dei familiari degli attentatori, la chiusura delle loro case e la concessione facile del porto d’armi, sarebbero alcune delle misure che si attendevano ieri in tarda serata al termine della riunione del Consiglio di difesa presieduto da Netanyahu.
Dai Territori occupati fonti palestinesi riferiscono forti pressioni statunitensi ed europee sul presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen affinché condanni l’attentato a Gerusalemme e torni a cooperare con Israele nella sicurezza dopo l’interruzione annunciata in risposta alla strage a Jenin. Il presidente palestinese, per ora, non sembra intenzionato a fare retromarcia. E ieri in un comunicato ha accusato il governo di Israele di essere «pienamente responsabile di questa pericolosa escalation» a causa della sua «continua attività criminale contro il popolo palestinese che ha portato a 31 morti questo mese, così come la costruzione di insediamenti, l’annessione di terre, la demolizione di case, gli arresti, una politica di apartheid e la profanazione dei luoghi sacri e della Moschea di Al-Aqsa». Parole che raccolgono consenso tra i palestinesi e nelle città della Cisgiordania si rafforza l’unità tra Fatah, il partito di Abu Mazen, e le altre formazioni palestinesi. Sviluppi politici che il segretario di stato Usa Blinken intende bloccare in modo da persuadere la leadership dell’Anp a riprendere la collaborazione con Israele quando tra qualche giorno sarà in visita ufficiale a Gerusalemme e a Ramallah. Intanto l’Ue pur riconoscendo quelle che descrive come «le legittime preoccupazioni d’Israele in materia di sicurezza» esorta lo Stato ebraico ad usare «la forza letale» solo come ultima risorsa
Commenta (0 Commenti)VERSO LE PRIMARIE. Da Gori a Nardella. Alla convention di Bonaccini i rottamatori del 2013 si fingono nuovi. Spunta l’ex 5S Giarrusso e scoppia la polemica: «Prima ci chieda scusa»
Alla convention milanese di Stefano Bonaccini, in un «talent garden» a pochi passi da porta Romana, sembra di precipitare nel 2013. In un format che fa tanto Leopolda, decine di interventi da tre minuti a testa col gong finale (tanto che Irene Tinagli sbuffa: «sembra di essere alla corrida»), stacchetti musicali by Cesare Cremonini, tutta la prima fila del renzismo sfila per l’intera giornata per dire che «bisogna cambiare la classe dirigente».
Da Pina Picierno, vicesegretaria in pectore che fa la padrona di casa, a Simona Bonafè, Dario Nardella, Giorgio Gori, Simona Malpezzi, Debora Serracchiani, i renziani non pentiti si preparano a scalare il partito dietro i rayban fiammanti di Bonaccini, che fu uno dei primi sostenitori di Renzi. In prima fila Lorenzo Guerini, burattinaio nell’ombra di tutta l’operazione: da settimane non dice una parola sul congresso, la sua influenza è opposta alla sua visibilità.
MANCANO SOLO MATTEO e Maria Elena, col primo che da casa ironizza sui social sulla presenza in sala dell’ex grillino Dino Giarrusso, improvvisamente convertito sulla via di Bonaccini dopo essere passato dall’alleanza con Cateno De Luca in Sicilia, accolto dal gelo della platea e dalle proteste di Gori: «Siamo troppo inclusivi, serve un limite».
E Renzi fa finta di arrabbiarsi: «Giarrusso? Finalmente smetteranno di dire che Bonaccini è renziano, sono felice per lui». Il fiorentino in realtà è un po’ arrabbiato perché l’amico Stefano, venerdì davanti ai cancelli di Mirafiori, ha osato dire che «intervenire sull’articolo 18 è stato un errore» e che «è tempo di superare il Jobs Act».
PICCOLI BUFFETTI, CHE NON scalfiscono la sostanziale identità delle piattaforme, all’insegna di quel «riformismo» che si limite a evocare genericamente la «lotta alle diseguaglianze», senza mettere in discussione le scelte di questi 15 anni. A partire dalla vocazione maggioritaria e dall’equidistanza tra lavoratori e imprenditori.
E così spunta Gori che grida «ricchezza, ricchezza», e non si capisce se sia un dato autobiografico o un programma politico. Arriva l’assessore di Roma Alessandro Onorato (sembra uscito da una convention di Forza Italia), e scomoda a sproposito Giuseppe Di Vittorio per dire che «è necessaria la collaborazione tra lavoratori e imprenditori». E aggiunge: «Certo che vanno messe da parte le persone che hanno fallito, qualunque azienda lo farebbe».
Ancora Gori: «Nel nuovo manifesto del Pd non c’è la parola crescita, ma guardate che non è una parolaccia». Serracchiani si infervora: «Siamo partiti con una fase costituente e siamo arrivati a alla liquidazione del Pd, questo è inaccettabile». Poi una stilettata a Schlein: «L’idea che il primo che passa possa fare il leader non mi convince».
I DIECI ANNI PASSATI sembrano una fastidiosa polvere da mettere sotto il tappeto. Il cuore del dibattito è la selezione della classe dirigente: «Ho fatto uno studio: più i nostri parlamentari sono produttivi, meno sono rieleggibili, bisogna cambiare i criteri», dice Irene Tinagli. Il sindaco di Bari Antonio Decaro è ancora più duro: «In questi anni ho visto persone assolutamente incapaci che hanno fatto i ministri grazie alla corrente giusta. La gente ci vota nei comuni nonostante siamo del Pd. Stefano aiutaci a cambiare questo partito!».
E via sfuriate contro il «partito romano» contrapposto a sindaci e amministratori. «Non ne possiamo più, noi le elezioni le sappiamo vincere, governiamo il 70% dei comuni, ma nessuno è mai venuto a chiederci come si fa». Sarcastica la replica di Orlando: «Almeno ai tempi di Renzi la rottamazione era invocata da giovani. Adesso sono persone tra i 50 e i 60 anni, è abbastanza comico».
IL LEIT MOTIV DI FONDO è questo: «Sui territori sappiamo coniugare il sogno e i fatti concreti, noi abbiamo la semplicità di parlare alla gente al bar», dice Nardella. «Siamo il popolo di chi si rimbocca le maniche per parlare con la gente». Cercando qualcosa di progressista, si trovano scuola e sanità pubbliche, difese a oltranza, e anche la transizione ecologica che però non deve disturbare troppo la crescita.
SECCA LA RETROMARCIA sull’autonomia differenziata, che pure è uno dei talloni d’Achille di Bonaccini, tra i primi a proporla con i colleghi leghisti Zaia e Fontana. «La Lega vuole dividere l’Italia, questo paese deve essere ricucito», tuona Matteo Ricci. E Piero De Luca, responsabile mezzogiorno della mozione: «Il progetto di Calderoli è irricevibile».
A METÀ MATTINA SUL PALCO si materializza Dino Giarrusso, l’ex jena tv che ha lasciato da pochi mesi il M5S di Conte al grido di «è diventato lo zerbino del Pd». «Entro in punta di piedi, negli anni ho criticato la sinistra perché le voglio bene. Credo nel progetto di Bonaccini». E cita De Gregori: «Sempre dalla stessa parte mi troverai..».
La platea è sbalordita, parte qualche fischio. «Prima dovrebbe scusa», s’infuria Fassino. «Ci ha infangato fino a ieri», gli fa eco Paola De Micheli. Nardella prima dice che «se c’è una persona che ci ha attaccato per anni e poi viene qui, è una nostra vittoria. Noi non abbiamo cambiato idea e non portiamo rancore». Poi si corregge: «Guai se qualcuno volesse salire sul carro del vincitore».
Ovazione per Gori che invita a metterlo alla porta. Provenzano, sostenitore di Schlein, è gelido: «Forse Bonaccini è stato mal consigliato». Secca anche Schlein: «Ognuno sceglie la sua squadra». Calenda si dice «allibito»: «Un sincero ringraziamento da parte del terzo polo…». Oggi gran chiusura col governatore emiliano
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