GOVERNO. La prima premier della destra radicale arriva al traguardo tra cambi di rotta, passi falsi e un obiettivo: rassicurare i potenti. Più che del Msi, l’eredità sembra quella della peggior Dc. Ma per essere democristiani ci vuole abilità e di quella, sinora, il governo Meloni non ha dato prove di sorta
Giorgia Meloni esce dal Quirinale dopo il giuramento nelle mani del presidente Mattarella - LaPresse
La pagella dei 100 giorni è un gioco e come tutti i giochi ha il suo fondo di verità. Ma come si fa ad assegnare il voto a un governo che ha fatto in realtà pochissimo? Le zuffe, sale della politica, ci sono ma sempre e solo intorno a parole spesso contraddittorie, a promesse doverosamente vaghe, ipotesi senza data di scadenza, segnali privi di sostanza. Quando ha provato a muoversi davvero, come sul contante, sui rave o sulla benzina, Giorgia Meloni ha per lo più fatto danno, dovendo poi impiegare tempo ed energie per disfare correggendo lo svarione di turno.
LE ATTENUANTI per l’immobilismo ci sono. È il primo governo che ha visto la luce in autunno, col fiato della finanziaria già sul collo e anche su quel fronte con margini di manovra ridotti all’osso. Un barlume, una scelta indicativa, un passo coraggioso sarebbero comunque stati possibili. Invece, in quella che a tutt’oggi rimane la sola legge rilevante, il governo Meloni ha scelto di giocare di rimessa. Ha seguito pedissequamente le orme e forse anche la cortesi indicazioni di Mario Draghi. Per il resto non è andato oltre il livello dei “segnali”: carburante per i talk show ma nel concreto materia poco significativa. Dove ha osato prendere una decisione incisiva, cioè sulle accise e il prezzo della benzina, la premier si è infilata in un pantano dal quale sarà difficilissimo uscire. Peccato veniale. La coperta era effettivamente corta e sborsare un miliardo e passa al mese non era scelta che si potesse fare a cuor leggero. Nessun calcolatore di cassa imponeva però di provare a rimediare con una mossa sgangherata come il decreto “antispeculazione”: un passo falso certamente inutile, probabilmente controproducente, che ha solo fatto imbufalire parte della sua base elettorale. Era già successo con la retromarcia sul contante. Rischia di capitare di nuovo, a breve, con le concessioni balneari.
LA FORMULA della presidente del consiglio Meloni, nei casi di conflitto interno alla sua maggioranza o, peggio, con l’elettorato che dovrebbe rappresentare, non è precisamente innovativa: rinviare, rinviare, rinviare. Alla scadenza dei primi 100 giorni la premier decisionista è impegnatissima a non decidere sui balneari, sull’autonomia differenziata, sul Pnrr e lì il guaio rischia di essere grosso, sul presidenzialismo o almeno sulla strada da imboccare per raggiungere quel traguardo. Parlamento o disegno di legge governativo, questo è il dilemma! L’esito è sconcertante: un dibattito politico a tratti acerrimo ma articolato sul nulla. È possibile che il pubblico votante non se ne accorga ma la rissa quotidiana sulla giustizia, tormento eterno, si accende tutti i santi giorni intorno a una riforma che ancora non esiste. Lo stesso intervento sulle intercettazioni, pietra attuale dello scandalo, è al momento solo fumo: parole pronunciate dal ministro della Giustizia Carlo Nordio e puntualmente contraddette a stretto giro dal guardasigilli Carlo Nordio. C’è tempo.
NON SI PENSI tuttavia che la prima presidente del consiglio proveniente dalla destra radicale se ne stia con le mani in mano. In realtà è attivissima. Solo che l’obiettivo del suo darsi da fare sembra essere non il mantenere le promesse fatte all’elettorato di destra bensì il dimostrare ai poteri nazionali e soprattutto internazionali che quelle ruggenti promesse erano chiacchiere da campagna elettorale. Finirà per dover strillare dal palco di qualche comizio: «Yo no soy Giorgia». Sul fronte più nevralgico, quello dei rapporti con la Ue, più che di frenata si tratta di inversione di marcia repentina. Chi se la sarebbe immaginata, appena un anno fa, sorella Giorgia trasformata in vestale del rigore, dei conti pubblici prima di tutto, addirittura dell’austerità?
SU ALTRI FRONTI, invece, si registra solo la frenata a tavoletta. Il blocco navale contro gli immigrati si è sbriciolato in una serie di norme odiose ma fortunatamente quasi inapplicabili. Il terremoto sulla giustizia si sta stemperando nell’impegno solenne a combattere per «una giustizia giusta e veloce». Sic. Per fortuna dei governanti un fronte sul quale bastonare senza scontentare i potenti, incassando anzi i loro applausi, c’era e lì non si è guardato in faccia a nessuno: il reddito di cittadinanza è stato sbrigativamente cassato, trasformato addirittura in una sorta di salario minimo al ribasso.
L’EREDE di Giorgio Almirante sembra avere in mente un modello preciso, però in negativo: il governo gialloverde del 2018. Per quanto in modo spesso sgangherato e dilettantesco, quel governo provava davvero a realizzare quanto promesso in campagna elettorale dai due partiti che lo componevano: quota 100 contro la legge Fornero, il reddito di cittadinanza e il decreto Dignità contro la povertà, le sceneggiate di Matteo Salvini e gli sciagurati decreti Sicurezza nella guerra santa contro gli immigrati e le Ong. Mal gliene incolse. Giorgia Meloni ha imparato la lezione e naviga decisa in direzione opposta: rassicurare i potenti, se del caso rivalendosi su chi di potere non ne vanta alcuno. Più che del Msi, l’eredità sembra quella della peggior Dc. Ma per essere democristiani ci vuole abilità e di quella, sinora, il governo Meloni non ha dato prove di sorta