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Riportiamo qui un acutissimo intervento di Walter Tocci all'assemblea della sinistra Pd del 21 marzo scorso a Roma.
Acutissimo e chiarissimo per l'analisi che fa delle riforme elettorali e costituzionali di Renzi, amarissimo per i destini del partito democratico e per l'azione della sua ala sinistra.
Da leggere.

domenica 22 marzo 2015
A proposito di parricidio

di Walter Tocci
Intervento all'assemblea delle minoranze "A sinistra nel Pd", Roma, Acquario, 21-3-2015

Porto un dubbio in questa assemblea. Abbiamo saputo svelare la posta in gioco? Temo di no. Abbiamo accettato la frantumazione dei problemi: il bicameralismo, la legge elettorale, il Titolo V, ecc. Ma se si mettono insieme i pezzi del puzzle emerge una nuova figura istituzionale. Si cambia la forma di governo, senza neppure dirlo. Si realizza quel premierato assoluto che Leopoldo Elia paventava ai tempi di Berlusconi.
Non serve parlare genericamente di svolta autoritaria, rimaniamo ai fatti. All’aumento dei poteri dell’esecutivo non corrisponde un parallelo rafforzamento dei contrappesi, che anzi diventano più deboli di prima, quando c’era la democrazia parlamentare.
Un leader minoritario che raccoglie il 20-25% dei voti reali conquista il banco e insidia i massimi organi di garanzia costituzionale.
Il premio di maggioranza può essere utilizzato non solo per governare, che è legittimo, ma anche per consegnare allo spirito di fazione la legislazione sui diritti fondamentali, sulla libertà di stampa, sull’autonomia della Magistratura, sull’accoglienza dei migranti, sulla pace e la guerra.
Il capo del governo è legittimato direttamente dal voto popolare mentre il Parlamento è più delegittimato di prima, perché in gran parte nominato dal ceto politico regionale al Senato e dai capi corrente alla Camera.
Questo squilibrio di poteri non ha paragoni in Europa. Infatti, Renzi dice che ce lo copieranno. Ma è l’ennesima anomalia italiana che sbarra la strada verso una democrazia matura.
Le nostre critiche hanno riguardato i dettagli ma non il sistema. Perciò è apparso perfino eccessivo uscire dall’aula solo per le preferenze. Se il dissenso è debole nei contenuti e duro nelle forme si rischia di scivolare nello sterile antirenzismo che non viene compreso neppure dalla nostra gente. Anche perché abbiamo separato il tema istituzionale dalla società.
Il premierato assoluto è già in atto: nel governo che comanda sulla Rai; nel preside che comanda sugli insegnanti; nei ministri che comandano sui dirigenti sottoposti allo spoil system selvaggio; nei burocrati ministeriali che frenano i soprintendenti nella tutela del paesaggio; nei fondi internazionali che sottraggono le banche popolari ai territori; nello Stato che toglie poteri alle regioni aumentando il contenzioso; nella “manina” che cancella la frode per salvare gli evasori; nell’imprenditore che licenzia il lavoratore dicendo il falso in tribunale sulla crisi dell’azienda. 
Nel Jobs Act si è visto il premierato perfetto: il governo propone una delega vaga, col voto di fiducia impedisce ai suoi parlamentari di precisarla e scrive

il decreto ignorando i pareri delle commissioni. È il trasferimento del potere legislativo in capo all’esecutivo.
Abbiamo preso una sberla; ce la teniamo, magari rilasciando una dura dichiarazione alla stampa? Oppure rispondiamo con atti concreti. Avanzo tre proposte.
1) trasformiamo in un disegno di legge il parere approvato dalle commissioni e non recepito dal governo e chiediamo di votarlo; è ancora il Parlamento che approva le leggi.
2) prendiamo un impegno tutti insieme come minoranze: per come sono andate le cose, non voteremo più la fiducia sulle leggi che delegano il governo a legiferare, anche perché è una prassi di dubbia costituzionalità. 
3) mettiamo sul tavolo delle riforme una proposta alternativa al sistema del premierato che assicuri il superamento del bicameralismo, tuteli le garanzie costituzionali e ricomponga il rapporto tra eletti ed elettori.
Però diciamoci la verità, non comincia oggi il premierato; da venti anni ha affascinato la sinistra, sempre alla ricerca della robotica istituzionale per surrogare la politica debole. Il governo che si forma la sera delle elezioni non esiste in nessun paese europeo, è un'invenzione della generazione post-comunista. Nessuno dei nostri leader si è mai davvero applicato a ricostruire un partito diverso dal passato, ma comunque radicato nella società. Tutti hanno cercato di rafforzare la leadership illudendosi che i premi di maggioranza potessero compensare la perdita dei voti popolari.

Renzi continua l’opera dei nostri leader, segue l’agenda di Luciano Violante, è un conservatore della Seconda Repubblica, ma appare come innovatore solo perché noi rimaniamo legati al passato. Se non vediamo gli errori del ventennio non comprendiamo perché alla fine siamo stati sconfitti. Perché la sinistra riformista si è consegnata al Rottamatore? Ho perso la speranza che a questa domanda risponda la mia generazione dei sessantenni. Spetta a voi, alle generazioni successive fare meglio di noi. Non vincerete mai nel Pd se non lascerete la casa paterna per andare nel mondo a cercare le ragioni della sinistra del XXI secolo, per vedere l’Italia con uno sguardo diverso dal nostro.
Da venti anni i leader di destra e di sinistra promettono grandi decisioni, ma i fatti non si sono mai visti. Gli uomini solo al comando regnano ma non governano. Eppure tutti li invocano. È l’ideologia italiana di questo tempo di decadenza, ma è profondamente antitaliana nella lunga durata. Nella storia nazionale dall’alto non è mai venuto nulla di buono, solo tragedie. I frutti migliori sono stati generati quando la politica si è connessa con le forze vive della società, dal miracolo economico, alla conquista dei diritti sociali e civili, alla lotta al terrorismo, all’ingresso nell’euro, alla creatività dei distretti e della scuola di base. Spetta a voi, alle generazioni successive portare nel nuovo secolo questa italianissima democrazia generativa superando le algide ingegnerie istituzionali dei vostri padri. 

Ma la priorità assoluta della vostra generazione è cambiare l’asse della politica europea. Il Jobs Act è venuto dall’incitamento di Francoforte, non dimentichiamolo. Le famose riforme di struttura hanno bisogno di governi dall’alto perché non convincono i popoli. Sembrano indiscutibili ma hanno ottenuto solo il consenso di circa il 25% dei cittadini aventi diritto al voto nelle ultime elezioni europee, gli altri non hanno votato o hanno sostenuto liste anti-Unione. È la stessa percentuale del costituendo premierato italiano. Il “quarto di democrazia” sembra la misura politica del nostro tempo, quello dei governi maggioritari entro democrazie minoritarie. 
La frattura tra élite e popolo ha raggiunto una profondità mai vista prima nella storia europea, almeno dall’epoca dell’Ancien Régime. Le classi dirigenti galleggiano sull’esistente, ma non sanno indicare mete ambiziose; si affidano a stupidissime regole macroeconomiche perché non sentono la responsabilità delle grandi scelte politiche che fanno epoca; sono ossessionate dall’ideologia del debito fino al punto di attribuire le differenze storiche e sociali alle colpe antropologiche dei paesi “spreconi”.

Su questo si è consumata la secessione delle élites mediterranee. Hanno accettato la colpa-debito (Schuld), facendo i compiti a casa invece di mettere in discussione l’intera politica europea che aggrava la crisi, come riconoscono ormai quasi tutti gli osservatori internazionali. 
La frattura è diventata una voragine nella quale è rotolato quasi tutto il socialismo mediterraneo, scomparso quello greco, superato da Podemos quello spagnolo, al minimo storico quello francese, schiacciato tra grillismo e renzismo quello italiano. Stupisce il silenzio, anche tra noi, sulla crisi del socialismo mediterraneo. Eppure essa è connessa alla manifesta incapacità dell’Europa di influire sul Mediterraneo in subbuglio. In questo antico mare si giocheranno le questioni decisive del secolo che viene: la pace e la guerra, il dialogo tra le religioni monoteistiche, le migrazioni dei popoli, la crescita economica, il problema energetico. 

L’Europa di Maastricht è stata generosa con i paesi dell’Est che uscivano dalle dittature, ma non ha aiutato le primavere arabe, inviando solo contratti petroliferi e bombardamenti sulla Libia. Le guerre di oggi sono anche figlie dell’ignavia europea di ieri. 
L’Italia non può limitarsi a chiedere flessibilità nei conti e qualche nave per Frontex. Roma non deve lasciare sole Atene e Tunisi. Bisogna mettere in discussione la politica economica autolesionista che impoverisce e divide il continente. Occorre una nuova politica euro mediterranea. L’Italia ha saputo connettere unità europea e cooperazione col mondo arabo. Ha saputo farlo nella guerra fredda, da Fanfani a Craxi, è incredibile che non riesca neppure a immaginarlo oggi in un mondo più aperto. 
Questa è l’occasione e anche la responsabilità del Pd, che è diventato, per merito di Renzi – non senza una certa ironia della storia – il primo partito del PSE. Deve promuovere nella famiglia socialista la svolta euro mediterranea. Non può bastare la bella foto degli scamiciati alla festa dell’Unità, né la bella cravatta regalata a Tsipras, occorre una politica di lungo respiro.

La minoranza deve pensarsi come maggioranza proponendo a tutto il Pd di promuovere l’unità della sinistra europea per superare le angustie di Maastricht. Siamo all’altezza del compito? Non so, ma intanto proviamo a fare l’esatto contrario dell’anno passato. Non seguire sempre e solo l’agenda che ci viene imposta, ma proporre progetti nuovi per l’Italia e l’Europa. Non passare le giornate nel battibecco mediatico, ma chiamare tutte le risorse sociali e intellettuali a rinnovare la cultura della sinistra. Non rimanere chiusi nei nostri caminetti, ma coinvolgere i tanti militanti che cercano ancora un partito degno di questo nome.
Non sappiamo quale sarà il destino del Pd. Ci auguriamo il migliore. Ma se dovesse fallire nei suoi compiti ci rimarrebbe il rammarico di non aver fatto tutto ciò che era nelle nostre possibilità.