Valerio Onida, costituzionalista, già presidente della Corte Costituzionale, uno dei saggi nominati da Napolitano ai tempi del Governo Letta, esponente del Pd, (è stato candidato alle primarie per il sindaco di Milano nel 2010), critico ma dialogante e non radicalmente contrario alla riforma costituzionale Renzi-Boschi-Berlusconi-Verdini, a sorpresa interviene con una lettera sul Corriere della Sera con toni fortemente critici ed allarmati sulla legge elettorale in fase di approvazione in Parlamento. Questa è la lettera pubblicata il 10 marzo 2015.
Una legge elettorale che non rispetta la reale maggioranza
Basterà il 40% dei voti per avere il 54% dei seggi
All’eventuale ballottaggio può vincere anche una lista che rappresenti una minoranza esigua
di Valerio Onida Presidente emerito della Corte costituzionale
Caro direttore, l’aspetto più controverso della nuova legge elettorale in discussione non è quello dei capilista «bloccati» e delle preferenze, bensì il meccanismo di attribuzione del «premio». Al primo turno basterà il 40 per cento, il che vuol dire che il 54 per cento dei seggi potrà andare a un solo partito non scelto e magari fieramente avversato dal 60 per cento dei votanti. All’eventuale secondo turno vincerà chi otterrà più voti, perché le liste in competizione saranno solo le due più votate, in qualunque misura, al primo turno. Ma la competizione sarà falsata dal fatto che tutte le altre liste saranno escluse dal voto; e quindi gli elettori che le hanno scelte al primo turno non potranno esprimere più un voto di lista «libero». La maggioranza assoluta dei seggi potrà andare a una lista che gode della fiducia di una anche ridotta minoranza degli elettori (ad esempio il 25 o il 30 per cento), essendo al secondo turno precluso ogni apparentamento e «vietato» esprimere una scelta diversa da quelle che (magari per pochi voti) sono risultate prima e seconda al primo turno. Inoltre, è possibile che al secondo turno non votino, perché non si sentono rappresentati dalle due liste in campo, molti elettori che pure si erano espressi al primo turno, e che quindi la maggioranza assoluta dei seggi venga attribuita ad una lista che né al primo, né al secondo turno abbia ottenuto la fiducia della maggioranza di coloro che hanno partecipato al voto. Il premio, insomma, sarebbe assegnato anche se la vittoria nel secondo turno (che non richiede alcun quorum di partecipazione) fosse frutto del voto espresso da una parte ridotta
dell’elettorato non astensionista, e quindi di una «non maggioranza».
Si dice: ma questa è la logica del «ballottaggio». In realtà è equivoco persino parlare di ballottaggio. Questo, classicamente, è un sistema adottato per eleggere una singola persona (come ad esempio il sindaco, o come il deputato — unico — di un singolo collegio nei sistemi uninominali). Poiché uno solo è il seggio da coprire, alla fine il ballottaggio è necessario per eleggere chi fra i contendenti gode del maggiore favore dell’elettorato. Ma qui si tratta di eleggere un’assemblea, non una carica monocratica: un’assemblea che dovrebbe riflettere e rappresentare i diversi orientamenti dell’elettorato. Per questo servono i partiti, che elaborano e avanzano le diverse proposte (collettive). Non è detto (e non è così oggi in Italia) che i partiti, e perfino gli orientamenti politici di fondo, siano solo due: dunque rappresentare l’elettorato non può voler dire attribuire senz’altro la maggioranza dell’assemblea ad uno solo di essi, anche minoritario, così che questo possa impadronirsi del governo.
Per di più non è detto che l’alternativa secca proposta al secondo turno fra le due liste più votate esprima davvero la più significativa ed esauriente contrapposizione fra le forze che rappresentano gli orientamenti fondamentali dell’elettorato, come per esempio centrodestra e centrosinistra. Potrebbe accadere che gli elettori si trovino un giorno a poter scegliere solo fra il Pd e una formazione di tipo estremistico come l’attuale Lega, oppure solo fra il Pd e il Movimento 5 Stelle, oppure addirittura fra un centrodestra «estremizzato» e il Movimento 5 Stelle.
Non vale invocare l’obiettivo della cosiddetta governabilità. In regime parlamentare, il governo è espressione della maggioranza delle Camere, non necessariamente formata da un unico partito (anche la vecchia Dc quasi mai governò da sola, per fortuna) e nemmeno necessariamente da un unico schieramento (di qui anche la possibilità delle «grandi coalizioni»). Le maggioranze possono nascere in Parlamento, sulla base delle convergenze e anche dei compromessi che si realizzano sui programmi. Non si può, in nome di un’esigenza di governabilità, disattendere e tradire la fondamentale esigenza di rappresentatività del Parlamento (è questo anche il senso della sentenza della Corte costituzionale che ha censurato la legge elettorale del 2005), pretendendo che in esso debba necessariamente dominare uno e un solo partito, anche se non esprime la maggioranza del Paese. Il Parlamento è assemblea, cioè voce collettiva della nazione, e non luogo di ratifica di decisioni prese al di fuori, né semplice tribuna di un dibattito pubblico predeterminato nell’esito. Per questo servono i partiti, e servono il confronto e anche le convergenze fra di essi.
In realtà, dietro queste scelte sulla legge elettorale, si rivela la tesi (già vittoriosamente contrastata nel referendum del 2006, ma ancora riaffiorante) secondo cui agli elettori deve rimettersi in sostanza solo la scelta dell’unico leader, capo dell’esecutivo, di cui la maggioranza parlamentare è una sorta di appendice (non a caso si parla di «sindaco d’Italia»). E si rivela l’altro assioma, per cui il sistema politico dovrebbe articolarsi fondamentalmente solo in due partiti, ciascuno dei quali propone un unico leader. Il bipartitismo è (quando lo è: oggi non lo è, non solo in Italia) il risultato della storia, non di una ingegneria elettorale.