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Qualcuno ha scritto che se l'Italia non affonda mai è merito della sua provincia sempre piena di risorse e fantasia. Sulle immaginifiche peculiarità dei furbi provinciali si sono scritti fiumi di inchiostro. Chi non ricorda, ad esempio i sensali, astuti villani, che una volta calcavano le nostre piazze, capaci tra una madonna e l'altra di strappare contratti e affari di ogni genere. Seguiti a ruota dai fattori, sempre col cappello ben piantato in testa a testimoniare una solida  autorità. Arguzia e scaltrezza messe in evidenza anche dalla commedia dell'arte con Brighella o il famoso Bertoldo dalle scarpe grosse e dal cervello fino.

Giuseppe Prezzolini nel 1921 scrisse la lapidaria frase: i furbi non usano mai parole chiare. I fessi qualche volta.

Ebbene, alla storia dei furbi e dei fessi abbiamo pensato immediatamente in questi giorni, apprendendo dai giornali che l’AUSL ha messo all’asta l'intera area su cui si trova l’Arena Borghesi di Faenza. Anzi, c’è molto di più, perché i giornali danno per scontato che sarà acquisita dal supermercato Conad, mentre lo stesso assessore Isola, intervistato, si dice sicuro che poi l'Arena sarà regalata al Comune.

 Io non so se in questa strampalata vicenda ci sono dei furbi o c’è qualcuno che cerca di farlo, ma come domandano Legambiente e Italia Nostra in un loro comunicato e come hanno spiegato nella conferenza stampa di martedì 18 aprile (domande e osservazioni sul RUE che è bene dirlo, non hanno mai avuto risposte, mentre va segnalato che, seppur con un linguaggio criptico,  le hanno prontamente avute quelle fatte dalla rappresentanza legale del Conad  ),  si chiede  innanzitutto come può l’AUSL fare una cosa simile in presenza di un  accordo di programma col Comune, accordo  del 2013 che prevede un percorso preciso e nettamente diverso nella gestione dell’Arena Borghesi?  Ancora più strana  pare l’ipotesi sicura che l’acquirente sarà Conad Arena, naturalmente con l’implicita concessione del contestato ampliamento a favore del supermercato, ampliamento che è bene ripetere prevede il taglio di un quinto dell’intera area. Dobbiamo pensare forse che non si tratta di un’asta libera? Perché se  è tale, come si può sapere in anticipo chi vincerà? E perché, ci si domanda, se anche l’operazione dovesse riuscire, il supermercato dovrebbe regalare  tutto al Comune? Non risulta da nessuna parte che Conad si sia espresso pubblicamente in questo senso. E se anche fosse, oltre a tenere per sé un quinto dell'attuale area per allargare il supermercato, vorrebbe altri vantaggi?

Come si vede non ci sono parole chiare  in tutta questa vicenda, che pare essere una  stranezza di inizio estate, se non fosse che  però di nuovo ruotano attorno ad un supermercato Conad, come la collocazione della discussa e sempre più contestata Casa della salute  sistemata inopinatamente  negli edifici del Conad Filanda. Tutto casuale?

Scrivevo prima che in questa  storia non sappiamo se ci sono  presunti furbi, ma sicuramente ci sono cittadini che si sentono fessi. Sono tutte quelle persone che in questi mesi sono coinvolte per discutere e mettere a punto il D.P.Q.U, ovvero il documento per la qualità urbana del Comune di Faenza. Persone e associazioni coinvolte dietro lo slogan: disegniamo assieme la città e che già si sono espresse contro l’ampliamento del supermercato e il taglio delle piante dell’Arena. Da una parte quindi si chiamano i cittadini a collaborare per migliorare e riqualificare le aree sensibili della nostra città e poi dall’altra si progettano o si fanno accordi sotto banco che vanno in direzione contraria?

Due parole sul D.P.Q.U.  è bene spenderle, per rimarcare la giustezza della intuizione di Prezzolini.  Una volta si sarebbe chiamato semplicemente Piano Regolatore e stabiliva, in sostanza, come e dove costruire nuovi edifici e case. Semplice, no?  Una volta era così, tutto meno complicato, anche perché le cose venivano chiamate col loro nome: il cemento era cemento, l'aria in città era semplicemente aria, non: miscela eterogenea di gas e particelle.  Chi puliva le strade era lo stradino, non l'operatore ecologico,  e si potrebbe continuare quasi all'infinito.

Piano Regolatore. Due parole semplici, tutto sommato comprensibili e tranquillizzanti. Una volta, forse, oggi le  cose sono  così tanto cambiate che  solo a nominarle quelle due pacate  parole  farebbero saltare sulla sedia tutti gli ambientalisti e brindare con bottiglie di  champagne tutti i costruttori edilizi. Uno sconquasso da evitare.

Come cantava il Bob del Nobel, i tempi sono cambiati e i nostri furbi provinciali, che questo l'hanno capito benissimo, cosa ti tirano fuori dal cappello? Il D.P.Q.U. appunto, un immaginifico pamphlet pieno di grafici, che ha come sottotitolo frasi fulminanti e funamboliche come: sintesi tra opportunità e necessità, oppure: rigenerazione della città, superamento del dualismo tra pianificazione e la programmazione. Ma poi non si accontentano e sempre per favorire la chiarezza si spingono al: Do nothing, Do minimum, Do something. E chiudono il tutto con termini chiaramente di ispirazione dialettale come: Layers, swot, blueprint e sistema smart, tutto chiaro,vero?

Altro che provincia, qui siamo al marinettismo, al futurismo balneare, o più semplicemente al Totò

che vendeva il Colosseo. Ed eccoci tornati al punto di partenza: la spiacevole sensazione che sotto tutto questo fumo ci sia qualcosa di poco chiaro, magari interessi e favori che alla fine vanno in direzione opposta agli interessi veri dei faentini. E’ bene ripeterlo: l’Arena Borghesi è dei faentini e se ci sono interventi da fare è per una sua vera riqualificazione, che non può passare  certo da una  svendita o da una cementificazione. L’Arena è il nostro Colosseo e visto come vanno le cose il riferimento a Totò sembra più di una battuta.

Purtroppo non siamo in un film  all’italiana e non c’è nemmeno tanto da sorridere, dietro allo swot e alle stravaganze lessicali non si nasconde una commedia, ma una tragica realtà.



 

 

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Vorrei mettere al centro un punto che mi pare sottovalutato, ma che per chi fa politica è decisivo: le scelte di tattica politica.

Giustissimo dire che occorre da un lato avere contenuti programmatici corretti (diritti del lavoro, servizi pubblici non tagliati, ecc ecc), dall’altro ritornare nel sociale per radicarsi.

Giustissimo! Ma non basta.

Se un veterano come me si volta indietro e si interroga sui fallimenti della sinistra, si rende conto che il fallimento non ha riguardato i contenuti programmatici, né (almeno in certi periodi) il radicamento sociale.

Gli errori gravi sono stati nella strategia e nella tattica politica. È qui che abbiamo fatto errori enormi, spesso addirittura non avevamo nessuna tattica politica, perché non ci rendevamo proprio conto che una forza politica DEVE avere strategia e tattica. È questo che la differenzia dai movimenti sociali, dalle associazioni ecc: queste hanno radicamento sociale, ma non si pongono al livello politico-istituzionale. E non basta avere programmi giusti: una forza politica NON è un centro studi, un collettivo di “intellettuali organici” (per dirla con Gramsci).

Una forza politica DEVE portare a livello politico-istituzionale i suoi programmi e il suo radicamento.

Fra l’altro, per radicarsi nel sociale occorrono militanti (attivisti) molto motivati e numerosi. Se non sei credibile quanto a strategia e tattica, non troverai attivisti numerosi e motivati.

Quale deve essere oggi la strategia?

Il “campo progressista” di Pisapia si dà come strategia il revival del centro-sinistra. Ma da un lato il centro-sinistra ha fallito perché incapace di opporsi al neo-liberismo (distruttore di diritti sociale e di servizi pubblici universalistici). Dall’altro basta chiedersi: col PD di Renzi (quello che distrugge i diritti del lavoro e la sanità pubblica con le mutue corporative e il “welfare aziendale” -che ovviamente non sono per tutti-) che centro-sinistra si può fare?
Fra l’altro il “campo progressista” dovrebbe interrogarsi su un fatto semplicissimo: se avesse vinto il SÍ al referendum, in che situazione ci troveremmo ora? Saremmo sotto la cappa di piombo di un ducetto autoritario e delle sue politiche tutte filo-Confindustria!

Occorre una strategia altra dal centro-sinistra e, almeno, puntare alla costruzione di un quarto polo decisamente di sinistra. Che sappia recuperare elettorato di sinistra dall’astensionismo e dal M5S.

Qual è la tattica giusta verso la costruzione del quarto polo?

Io sono di Sinistra Italiana. Noi speravamo che SI fosse il centro di attrazione di questo polo. Ma SI nasce con il pesantissimo handicap in partenza di una scissione anticipata. Questo ha chiare ripercussioni pesantemente negative sia a livello di immagine pubblica sia a livello di motivazione dei militanti.

E non possiamo dare per scontato che gli “altri” debbano venire a noi…

Proviamo a pensare ad un possibile scenario alle prossime elezioni (che, anche se le manovre di Renzi fallissero, sono comunque vicine: l’anno prossimo). Come si presenterà la sinistra radicale? Con quante liste divise fra loro? Sarebbe un suicidio colossale.

Sento molti che partono in quarta dicendo, per difendere il proprio settarismo egocentrico: “guardate il fallimento della lista “Arcobaleno”. “Non possiamo fare un’accozzaglia di gruppettini!”.

Ma l’Arcobaleno ha fallito non perché era un’unione di forze diverse. Ma per gli errori gravissimi precedenti.

Bertinotti fino al giorno prima, illudendosi della forza e della “giustezza” di linea del PRC, aveva completamente snobbato ogni unità con gli altri: snobbato i Verdi, non tenuto in seria considerazione l’ex sinistra PDS di Mussi e Salvi, addirittura contento per la fuoriuscita dei cossuttiani… Poi, all’ultimo momento, presi da disperazione, si fa all’improvviso un voltafaccia e una lista solo apparentemente unitaria. NON ERA CREDIBILE NÉ PER I MILITANTI NÉ TANTOMENO PER GLI ELETTORI. É questo l’errore che non va rifatto, non la ricerca dell’unità.

Io credo che DA SUBITO tutte le forze di sinistra radicale devono unirsi in una coalizione, con un patto unitario ben preciso, delegando (cessione) alcuni poteri alla coalizione stessa, impegnandosi in un cammino comune anche DOPO LE ELEZIONI.

Parlo di Sinistra Italiana che, a mio avviso, deve essere il motore di questa unità. Poi di Possibile di Civati (con cui qualche passo unitario è già stato fatto); poi di ciò che resta dell’ALTRA EUROPA. Quindi di DeMa di De Magistris. Ed anche di Rifondazione.

Questa coalizione politica unitaria deve parlare all’elettorato potenziale, recuperando slogan semplici ma centrali e NON intellettualoidi.

Al centro: LAVORO, ECOLOGIA, DIRITTI sociali. Questo dovrebbero essere i temi centrali per noi, da dire e scrivere ovunque.

Guarda caso, l’acronimo diventa: L.E.D.

Uno slogan possibile, allora, potrebbe essere: ACCENDI LED !!!

Non basta ancora. Dobbiamo costruire un polo di sinistra. Allora diventa importante il rapporto con i fuori-usciti dal PD e da SI.

Non dobbiamo lasciarci accecare dalla rabbia per la scissione dei nostri ex soci. La tattica giusta deve essere al centro dei nostri pensieri.

Dobbiamo lanciare continuamente sfide e ponti verso di loro, tutti loro.

Gli ex PD sono ancora molto scarsi, deludenti e vaghi sui contenuti. Ma non possono pensare di costruirsi uno spazio attaccando solo il PdRenzi. Devono uscire sui contenuti. La loro tattica verso il governo Gentiloni è in parte comprensibile (hanno bisogno che continui, per darsi il tempo di strutturarsi come forza politica). Ma non possono nemmeno suicidarsi a priori accettando tutto quello che Gentiloni fa. Devono sempre di più smarcarsi se vogliono essere credibili.

E, una volta che Renzi sarà tornato ad essere il padrone indiscusso del PD, come faranno a proporre

una maggioranza con quel PD?

Noi dobbiamo proporre e sfidare anche loro sull’unità della sinistra. Ma mentre con le altre forze di sinistra radicale è indispensabile costruire una coalizione unitaria, con MDP la proposta dovrebbe essere di due liste alleate. O almeno: tendenzialmente alleate.

Poi molto dipenderà dalla legge elettorale: se premiasse le coalizioni, a quelle dovremmo puntare. L’MDP potrebbe mai andare in coalizione con Renzi e Alfano?

Avete visto i sondaggi? Sappiamo quel che valgono (è il mio mestiere), ma sono comunque un segnale su cui riflettere.

SI da sola è data in calo clamoroso (in alcuni addirittura sotto il 2%). La scissione aprioristica è stato un colpo pesantissimo a livello di immagine! Ed è probabile che ci sarà una soglia di sbarramento almeno del 3% e forse di più.

Ciò rende urgentissima l’aggregazione unitaria di tutta la sinistra radicale (SI, Possibile, Rifondazione, De Magistris, Altra Europa).

Avete poi visto l’altro sondaggio che darebbe addirittura il 14,5 ad un polo che andasse dall’MDP fino a SI? Portando via non pochi voti anche ai grillini. Allora sì che un quarto polo di sinistra sarebbe credibile e possibile.

Penso che questa sia un’esigenza del nostro elettorato. E dobbiamo dare subito segnali (e anche sfide, ripeto) in questa direzione.

Leonardo Altieri

 

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Avvengono secondo un copione consolidato, gli attacchi ordinati da Trump nella notte scorsa sulla base aerea siriana di Khan Sheikhou. Come da modello balcanico – vedi la strage inventata di Racak per l’intervento «umanitario» Nato in Kosovo nel 1999 – e con lo «stile» del governo israeliano del quale ancora non abbiamo smesso di contare le vittime civili per i suoi attacchi aerei su Gaza nel 2009.

I 59 missili Tomawak lanciati sulla Siria rompono l’ equilibrio di una saga immaginifica. Perché è tornata l’America, anzi questa è l’America. A smentire il povero Alan Friedman che dovrà scrivere almeno un altro libro.

Perché la davano per persa, l’America. Con un Trump descritto come filo-Putin, quindi addirittura anti-Nato, naturalmente tenendo fissa la barra degli interessi strategici verso Israele e l’Arabia saudita; ma deciso nella lotta contro l’Isis.

Invece con un dietrofront repentino, a pochi giorni dalla dichiarazione rilasciata all’Onu dalla rappresentante Haley che «la fuoriuscita di Assad non è più la priorità», subito dopo la strage di Khan Sheikhou ha ripreso la rotta che già fu di Bush per l’Iraq del 2003: ha autorizzato il capo del Pentagono «cane pazzo» Mattis all’azione di guerra. Senza il parere dell’Onu e del Congresso Usa, con il veto russo alla condanna unilaterale di Assad, e di fronte alla richiesta di una indagine internazionale indipendente.

Per una strage, è bene ribadirlo, che vede i ribelli armati, opposizioni democratiche, jihadisti e qaedisti, uniti ad accusare il governo di Damasco; che invece ammette la responsabilità dei bombardamenti ma a sua volta accusa che tra gli obiettivi colpiti c’era un deposito di armi chimiche in mano ai ribelli. Dentro questo conflitto senza tregua né regole, la ferocia appartiene a tutti e nessuno – tantomeno Assad – è innocente, non ci sono in Siria angeli e demoni.

Ma è assolutamente legittimo dubitare della verità unilaterale delle opposizioni subito accettata dalle cancellerie europee e dagli Stati uniti. Che è bene ricordarlo sono stati i Paesi destabilizzatori della Siria – che non esiste più, come l’Iraq e la Libia – da subito. Fin dal 2011 nel tentativo di fare a Damasco quello che era «riuscito» già a Tripoli. Così a suffragare le accuse ad Assad per l’uso del gas sarin c’è la Turchia dell’«umanitario» Erdogan, che fa le autopsie come Paese «terzo». Quando è stato invece la retrovia dei jihadisti con cui ha intessuto traffici in armi, addestramento e petrolio come testimoniato dalla stampa turca indipendente non a caso finita in galera. Ora il «democratico» Erdogan esulta, anche la piega degli avvenimenti lo aiutano nel suo referendum iper-presidenzialista della prossima settimana; e già rilancia la richiesta di no-fly zone sulla Siria libero di continuare a massacrare i curdi. Esulta Israele perché le modalità di Trump seguono in Medio Oriente le orme di sangue delle sue rappresaglie sui palestinesi e i tanti raid recenti contro la Siria; né deve essere bastato a Netanyahu la dichiarazione di Mosca dell’ultimo momento che, pur rispettando Risoluzioni Onu e soluzione dei Due Stati, ha riconosciuto Gerusalemme est capitale del futuro Stato di Palestina ma anche la parte Ovest capitale d’Israele. Plaude l’«umanitario» presidente egiziano Al Sisi. E naturalmente l’Arabia saudita, il finanziatore della jihad in tutta l’area, che massacra in Yemen gli sciiti senza che nessuno protesti. Ed esultano jihadisti, da Al Sharam a an-Nusra/Al- Qaeda (che a marzo a Damasco ha rivendicato due stragi, il 12 marzo con 74 morti e il 15 marzo con 30), fino all’Isis per questo non atteso sostegno alla loro campagna per abbattere Assad.

Trump dunque va alla guerra. Rispettando la tradizione della storia americana, come risposta alla sua debolezza interna a nemmeno tre mesi dal suo ingresso alla Casa bianca e smentendo gran parte ormai delle sue promesse di un approccio diplomatico alle crisi. Soprattutto dopo avere incassato un disastro dietro l’altro, sulla nomina del suo staff di governo, sulla promessa di cancellare l’Obamacare, sulla Corte suprema, sul presunto Russiagate ora brillantemente smentito a suon di missili. E così facendo prova a rimettere in riga ogni critica interna e aggiustando con la colla i cocci occidentali. Zittisce le critiche dei Repubblicani e dei Democratici; Hollande e Merkel firmano uniti il loro apprezzamento; Gentiloni, si accoda all’alleato americano. E infine oscura la visita in Usa di Xi Jinping con un messaggio esplicito sulla crisi nordcoreana ai confini con la Cina.

Trump riporta questa Pasqua 2017 al mondo in ansia per la terza guerra mondiale dell’estate 2013. Quando, anche allora su un raid al presunto gas nervino, Obama era pronto alla guerra e venne fermato sia dalla preghiera mondiale del papa che da quel momento cominciò a denunciare la maledetta guerra e quelli che «fanno la guerra dicendo di fare la pace»; sia da Putin che si fece garante con l’Onu dello smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco. Ecco il punto. Trump è intervenuto «per i bambini siriani». Ma meritano davvero una tale vendicatore? L’azione di guerra di Trump avviene infatti appena dopo l’ammissione da parte degli Stati uniti, solo venti giorni fa, di avere massacrato, «per sbaglio» e «per sconfiggere l’Isis», a Mosul più di 150 tra donne e bambini come testimoniato dall’Onu e non raccontato dai media mainstrem; che tacciono sulle migliaia di civili uccisi in Afghanistan dai raid occidentali. Esistono dunque bambini di serie A e bambini di serie B. Forse che cluster bomb, uranio impoverito e bombe al fosforo sono meno micidiali del gas sarin? Un salto cultural-motivazionale: dalla «guerra umanitaria» siamo alla «guerra per i bambini» con fissa l’immagine tv sui loro occhi innocenti.

Ma attenzione. Vista l’irresponsabilità del gesto trumpista ora provano a dire che non è successo nulla, che i danni sono limitati. È vero il contrario. La reazione dell’Iran, che sul campo si oppone militarmente allo jihadismo, è rabbiosa: si trova esposta e nel mirino. E quella della Russia di Putin non lo è da meno. La rottura del collegamento diretto con il Pentagono e del coordinamento per i voli dei caccia militari in Siria è prodromo ad un confronto, anche involontario, diretto, non più per procura. Siamo a un passo dal precipizio. Pezzo per pezzo, nella terza guerra mondiale.

 

 

 

 

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Pd. Una legislatura proporzionale è il passaggio necessario, sganciandosi dal disegno di Renzi per aprire il nuovo campo con la legge elettorale. Adesso tocca al M5S, una fase è finita, i pentastellati vanno sfidati sul terreno delle proposte, aiutati su quello del governo, ascoltati su quello del futuro da costruire

Il Pd è di Renzi. In alcuni circoli hanno partecipato pochi e votato molti, in altri tutti per Renzi, oppure gli iscritti sono lievitati all’ultimo giorno. Anomalie di un sistema non regolato bene, ma accettato.

Vittoria netta con 141.000 voti che hanno incoronato Renzi. Altrettanto netto è anche il senso politico: la lunga mutazione renziana è compiuta, il Pd con la R o senza è questo, il referendum, pur segnando una sconfitta, ha ricompattato quel che restava, la massiccia vittoria a Roma dell’asse Renzi-Orfini su quello Orlando-Bettini-Zingaretti dimostra che non ci possono essere parti in commedia che si improvvisano all’ultimo minuto come nel teatro pirandelliano.

Insomma la lunga evoluzione della più grande struttura partitica organizzata – che non a caso molti percepiscono ancora come la prosecuzione-evoluzione del Pci, con i connessi aspetti della trasmissione del culto del capo e del senso della comunità che non si deve dividere – hanno portato qui: il Pd è questo e con esso, piaccia o no, dovranno fare i conti coloro che pensano di riproporre un nuovo centro-sinistra, anche se hanno giudicato Renzi uomo divisivo o uomo-killer del centro-sinistra.

QUESTE PRIMARIE POSSONO rilanciare un leader, ma non rigenerano la democrazia.

Il 30 aprile i numeri si moltiplicheranno per tre o quattro, ma l’esito è scontato. Competitors e media ce la metteranno tutta per aumentare l’audience, ma non saranno i titoli e l’attenzione morbosa delle telecamere a superare la stanchezza ed a scaldare i cuori della gente. I voti potranno diventare mezzo milione, ma daranno l’investitura al leader di un partito del 30% e non si tradurranno in una maggioranza di governo certa.

Insomma c’è una bella sproporzione tra questo rito delle primarie, per il quale comunque va dato atto al Pd di provarci, e l’assetto democratico del nostro paese nel quale la vita dei partiti non è regolata come la Costituzione prevede e le continue scorciatoie maggioritarie servono ad inventare di volta in volta il sistema migliore non per i cittadini, ma per i partiti prevalenti. Nessuno lo dice, ma tutti lo sanno che ci stiamo preparando ad una legislatura di transizione.

Accade ormai anche in altri paesi che le elezioni non risolvano il problema della governabilità ed è più che naturale che ciò accadrà in Italia dove abbiano un sostanziale tripolarismo, ma nessuna area è disposta ad allearsi con l’altra. Finora perlomeno.

ADESSO PENSO TOCCA PROPRIO al M5s. Esso fino ad oggi è stato trattato come se fosse solo il prodotto degli errori della vecchia classe dirigente. In parte è così e non c’è dubbio che avendo raccolto un malessere che poteva prendere lidi più estremistici e pericolosi esso ha contribuito a salvare la democrazia da derive pericolose.

Ma quella fase è adesso finita: con e di questo movimento, adesso che è diventato la prima forza politica del paese, bisogna parlare diversamente anche a cominciare dai temi della democrazia.

Le modalità sperimentate ed in corso di aggiornamento con la nuova piattaforma partecipativa hanno criticità evidenti: numero ed oggettiva selezione dei partecipanti, flessibilità delle regole che vincolino risultati e decisioni, confusione tra esigenze di garanzia e libertà di espressione. Altro si potrebbe dire, ma ergersi a giudici di questi tentativi di sperimentare forme nuove di democrazia di rete da parte di chi pratica la democrazia delle cordate e della trasmissione del potere mi sembra troppo e bene farebbero anche molti ex Pci a ricordare che il Berlinguer riflessivo del dopo compromesso storico aveva intuito la portata straordinaria del computer per l’evoluzione della società e della partecipazione, intuizione abbandonata come quella dell’austerità connessa ad un diverso modello di sviluppo.

Adesso il M5s sta davanti ad una fase nuova della sua vita che impone una svolta in termini di pensiero e cultura di governo. Le esperienze di governo locale stanno mostrando oggi tutti i limiti di una forza che arriva improvvisamente ad assumere responsabilità di governo proprio in una fase di svuotamento dei poteri degli enti locali e di forti vincoli di austerità ai governi nazionali. Additarli a fascisti guidati da un guru va bene per chi vive di confronto muscolare tra populismi, ma non aiuta una evoluzione positiva ed un nuovo clima di dialogo di cui il nostro paese ha bisogno. Questo movimento va sfidato sul terreno delle proposte, aiutato su quello del governo, ascoltato su quello del futuro da costruire.

ULTIMO PUNTO. DAVANTI ALLA sinistra multipla di oggi stanno oggi due scelte: perseverare in politiche di alleanze di piccolo cabotaggio accodandosi al disegno renziano vincente ed accettando i ruoli di supporto che il leader rilegittimato vorrà offrire o, al contrario, riaprire il gioco a tutto campo a partire dalla legge elettorale. Una legislatura proporzionale è il passaggio necessario. Ricostruire la politica nel senso nobile del termine, rigenerare un’area di pensiero e sociale attorno al tema della redistribuzione del reddito e del lavoro, redistribuire tra paesi ricchi e paesi poveri per governare e civilizzare i flussi migratori è la sfida alta che abbiamo davanti.

Proviamo a proporre questo ai giovani ed ai movimenti sociali e politici, aprendoci al dialogo ed alla collaborazione. Il futuro deve ancora cominciare e non è mai troppo tardi.

 

 

 

 

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Se fossimo a “Porta a porta” si potrebbe fare un plastico, ma noi non abbiamo questi mezzi. Proviamo comunque a fare un riassunto di massima.
C'è bisogno di sinistra? Molti lo pensano, ma come e su quali idee-forza potrebbero riaggregarsi le diverse espressioni oggi in campo?

La situazione è in divenire: i fuorusciti dal PD hanno costituito il Movimento Art.1 Democratici e Progressisti e stanno definendo i propri orientamenti; Sinistra Italiana e Rifondazione Comunista hanno svolto i loro congressi nelle settimane scorse; c’è Civati con il suo Possibile; i Comunisti Italiani; e c’è Pisapia con il suo “Campo progressista”. Senza contare altre realtà (non vogliamo dimenticare nessuno), alcune più locali  e “intrecciate”, come L'altra Faenza” e L'altra Emilia Romagna che hanno preso spunto anche dall'esperienza de L'Altra Europa
Cosa pensano di fare le varie parti di questo arcipelago di forze?

Ancora prima di pensare ad una rappresentanza elettorale – sulla quale inciderà la legge elettorale –  come pensano di conquistare consenso sociale e su quali contenuti?
Come rispondere ad una frammentazione – sociale prima ancora che politica – che porta alla disillusione verso i cambiamenti desiderabili, alla caduta della partecipazione sociale oltre che al voto; una frammentazione che può dare spazio a pulsioni di destra, come accade negli USA e in Europa, dalle quali l'Italia non è certo immune? 

Non è compito di questo sito indicare strategie o individuare interlocutori privilegiati, ma sollecitare confronti e approfondimenti. Possiamo e vogliamo farlo.
Ospitiamo spesso interventi di esponenti nazionali di diversi orientamenti, appartenenti comunque all’area politico-culturale della sinistra. Ma forse è più utile sentire cosa pensano, e cosa intendono fare, coloro che qui, nei nostri territori, fanno in qualche modo riferimento a questo schieramento.
Vorremmo in sostanza che si aprisse un confronto libero, aperto e ampio: ci piacerebbe che a cogliere questo invito fossero tutti coloro che sentono di avere qualcosa da dire, a partire dagli esponenti del Movimento 5S (che pensiamo non possa continuare a proclamare l'autosufficienza), ma anche esponenti del PD (che magari non siano solo “renziani” e liberisti). Poi anche, e soprattutto, vorremmo che esprimessero le loro opinioni i tanti uomini e donne che non hanno un’appartenenza organizzata, pur riconoscendosi in valori e contenuti progressisti. Persone provenienti dal mondo della sinistra, ma anche da quello cattolico, dell'associazionismo, del volontariato. 

In un periodo nel quale, da più parti, si pensa “all'uomo solo al comando” (cosa che a nostro parere non è di sinistra), forse è meglio tornare a chiederci non cosa stanno facendo per noi i capi delle sinistre, ma piuttosto cosa facciamo noi per la sinistra?
Dopo l'importante intervento di Giuseppe Casadio, auspichiamo che altri se ne aggiungano.

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Vieni a trovarmi alla Penny?” mi dice Gloria, una collega con cui ho lavorato e che stimo molto.

Penny? Il nome non mi è nuovo, e mi diventa conosciuto quando lo collego ad Affinati, scrittore italiano che si è sempre occupato di scuola; ricordo di aver avuto per le mani il suo libro Italiani anche noi. Corso di italiano per stranieri. Il libro della Scuola Penny Wirton.

Ma cos’è la Scuola Penny Wirton? È una scuola di lingua italiana per stranieri, che aiuta i migranti nel loro percorso di apprendimento. È organizzata senza classi e, pur registrando i progressi, rinuncia a ogni forma di giudizio, voto e competitività. La possono frequentare tutti: giovani, adulti, bambini; non ha obbligo di frequenza né per gli allievi, né per i docenti che sono tutti volontari.

Si lavora per piccoli gruppi, anche “one to one”, per far fronte ai diversi livelli e alle diverse esigenze.

A volte si parte completamente da zero, con persone che non hanno mai preso una penna in mano, altre volte da elementi che hanno anche frequentato scuole superiori nei loro paesi d’origine. I risultati si ottengono grazie a disponibilità, flessibilità e accoglienza, componenti che caratterizzano la proposta formativa.

A Faenza “Penny” è partita da un gruppo d’insegnati: Gloria Ghetti, Vania Bertozzi, Kombola Ramadhani Mussa e Maria Rosaria Scolaro, poi, lungo strada si sono aggiunte molte volontarie, docenti e non. Accoglie richiedenti asilo e chi in genere ha bisogno di imparare o perfezionare l’uso della lingua italiana ed è in Italia regolarmente anche da tempo. Da gennaio l’ASP ha messo a disposizione il foyer del Teatro dei Filodrammatici, che ha sede nella struttura del Residence Fontanone, e una fotocopiatrice.

L’esperienza è partita con quattordici persone e oggi ne conta quasi trenta.

È aperta al martedì e al giovedì, dalle 14,30 alle 16,30.

Considerate le richieste, si pensa di programmare anche l’attività in estate.

Gli utenti provengono da Costa d’Avorio, Pakistan, Afghanistan, Egitto, Ghana. Paesi che purtroppo conosciamo per la quotidiana cronaca di guerre e sopraffazioni.

In un ambiente luminoso - tre pareti sono di vetro - attorno a piccoli tavoli sono in sette, tre, due, a seconda delle necessità e del livello. In ogni tavolo, un insegnante o un tutor e su questo la sorpresa è grande. Ci sono infatti alcuni studenti del liceo linguistico “Torricelli” di 3ªA – 3ªB e 3ªC; sono partiti come volontari, poi è stato possibile inquadrare la loro azione nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro, in sostanza svolgono uno stage. Incuriosisce sapere cosa li ha spinti a questa esperienza. Tania, di 3ªC, dice che in questo modo perfeziona il suo inglese che usa come lingua veicolare con un afghano, ex studente di medicina. In pratica “si dà, ma si riceve anche”. In quale altra situazione si potrebbe realizzare un vantaggio simile per Tania e gli altri a costo zero? Ma ciò che colpisce di più è la motivazione di fondo di questa ragazza e penso anche dei suoi compagni: non ritiene di fare ciò per insegnare, ma solo per dare una mano a raggiungere una certa autonomia a chi, per via della lingua, si trova in difficoltà. Un vero esempio di rispetto dell’altro e della sua dignità.

Anche chi di professione fa l’insegnante avverte che questa esperienza è diversa, coinvolge molto per la relazione personale che si instaura con gli allievi, e si sente gratificato.

Tutto appare preparato su misura, e così è. Gli insegnanti si incontrano tra loro per programmare gli interventi e ogni 5-6 settimane si svolge anche un incontro con i ragazzi: un modo per responsabilizzarli sempre più e coinvolgerli in un cammino che si riorienta a seconda delle esigenze, ma che ha un obiettivo preciso, l’integrazione.

Di fronte a questa esperienza viene spontaneo pensare ai discorsi sui migranti che si sentono in città, mentre si è in fila in attesa di essere serviti in un negozio o per strada o al bar; discorsi superficiali, che generalizzano, che mancano di conoscenza, che si basano solo su impressioni che per molti diventano verità.

Ecco, forse conoscere questa realtà, che non “fa molto rumore”, ma realizza tanto, può essere utile a capire come l’integrazione passi sempre da un rapporto di relazione che riconosce l’altro ed è arricchente per tutti.

 

Antonella Baccarini

 

 

 

 

 

 

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