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Vieni a trovarmi alla Penny?” mi dice Gloria, una collega con cui ho lavorato e che stimo molto.

Penny? Il nome non mi è nuovo, e mi diventa conosciuto quando lo collego ad Affinati, scrittore italiano che si è sempre occupato di scuola; ricordo di aver avuto per le mani il suo libro Italiani anche noi. Corso di italiano per stranieri. Il libro della Scuola Penny Wirton.

Ma cos’è la Scuola Penny Wirton? È una scuola di lingua italiana per stranieri, che aiuta i migranti nel loro percorso di apprendimento. È organizzata senza classi e, pur registrando i progressi, rinuncia a ogni forma di giudizio, voto e competitività. La possono frequentare tutti: giovani, adulti, bambini; non ha obbligo di frequenza né per gli allievi, né per i docenti che sono tutti volontari.

Si lavora per piccoli gruppi, anche “one to one”, per far fronte ai diversi livelli e alle diverse esigenze.

A volte si parte completamente da zero, con persone che non hanno mai preso una penna in mano, altre volte da elementi che hanno anche frequentato scuole superiori nei loro paesi d’origine. I risultati si ottengono grazie a disponibilità, flessibilità e accoglienza, componenti che caratterizzano la proposta formativa.

A Faenza “Penny” è partita da un gruppo d’insegnati: Gloria Ghetti, Vania Bertozzi, Kombola Ramadhani Mussa e Maria Rosaria Scolaro, poi, lungo strada si sono aggiunte molte volontarie, docenti e non. Accoglie richiedenti asilo e chi in genere ha bisogno di imparare o perfezionare l’uso della lingua italiana ed è in Italia regolarmente anche da tempo. Da gennaio l’ASP ha messo a disposizione il foyer del Teatro dei Filodrammatici, che ha sede nella struttura del Residence Fontanone, e una fotocopiatrice.

L’esperienza è partita con quattordici persone e oggi ne conta quasi trenta.

È aperta al martedì e al giovedì, dalle 14,30 alle 16,30.

Considerate le richieste, si pensa di programmare anche l’attività in estate.

Gli utenti provengono da Costa d’Avorio, Pakistan, Afghanistan, Egitto, Ghana. Paesi che purtroppo conosciamo per la quotidiana cronaca di guerre e sopraffazioni.

In un ambiente luminoso - tre pareti sono di vetro - attorno a piccoli tavoli sono in sette, tre, due, a seconda delle necessità e del livello. In ogni tavolo, un insegnante o un tutor e su questo la sorpresa è grande. Ci sono infatti alcuni studenti del liceo linguistico “Torricelli” di 3ªA – 3ªB e 3ªC; sono partiti come volontari, poi è stato possibile inquadrare la loro azione nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro, in sostanza svolgono uno stage. Incuriosisce sapere cosa li ha spinti a questa esperienza. Tania, di 3ªC, dice che in questo modo perfeziona il suo inglese che usa come lingua veicolare con un afghano, ex studente di medicina. In pratica “si dà, ma si riceve anche”. In quale altra situazione si potrebbe realizzare un vantaggio simile per Tania e gli altri a costo zero? Ma ciò che colpisce di più è la motivazione di fondo di questa ragazza e penso anche dei suoi compagni: non ritiene di fare ciò per insegnare, ma solo per dare una mano a raggiungere una certa autonomia a chi, per via della lingua, si trova in difficoltà. Un vero esempio di rispetto dell’altro e della sua dignità.

Anche chi di professione fa l’insegnante avverte che questa esperienza è diversa, coinvolge molto per la relazione personale che si instaura con gli allievi, e si sente gratificato.

Tutto appare preparato su misura, e così è. Gli insegnanti si incontrano tra loro per programmare gli interventi e ogni 5-6 settimane si svolge anche un incontro con i ragazzi: un modo per responsabilizzarli sempre più e coinvolgerli in un cammino che si riorienta a seconda delle esigenze, ma che ha un obiettivo preciso, l’integrazione.

Di fronte a questa esperienza viene spontaneo pensare ai discorsi sui migranti che si sentono in città, mentre si è in fila in attesa di essere serviti in un negozio o per strada o al bar; discorsi superficiali, che generalizzano, che mancano di conoscenza, che si basano solo su impressioni che per molti diventano verità.

Ecco, forse conoscere questa realtà, che non “fa molto rumore”, ma realizza tanto, può essere utile a capire come l’integrazione passi sempre da un rapporto di relazione che riconosce l’altro ed è arricchente per tutti.

 

Antonella Baccarini