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Care/i, sono nato e ho per tempo vissuto nelle campagne e tra la gente dell' "Albero degli zoccoli". Tutti fieri di avere un interprete di un mondo solidale e frugale, capace di straniarsi dalle culture in avanzamento, escludenti, privatistiche, incuranti della terra e della memoria. Per questo mando un breve cenno a quello che per molti di noi ha regalato uno di Treviglio, tanto umile quanto creativo e solido, come anche da ragazzi avevamo incrociato nelle sale dei cinema di paese. Un abbraccio. mario

IN MORTE DI ERMANNO OLMI

Leggo meno i giornali e sempre più spesso mi infastidisce la televisione. Di conseguenza, la notizia della morte di Ermanno Olmi non mi è giunta “online nè metabolizzata da Wikipedia, ma attraverso il dolore già rimuginato da amici, il rincrescimento per un vuoto che non si può riempire a parole, l’apprezzamento sofferente per l’autenticità e la creatività di un uomo che sceglieva i tempi lunghi, sapeva collocarsi nella storia con le sue contraddizioni e riusciva a scrollarsi di dosso la rincorsa affannata del presente. Come dice Tonio Dell’Olio, “non è moneta corrente che la storia contempli l'azione di registi ispirati e inventivamente geniali che hanno dato la parola agli ultimi”. E nemmeno che esalti quelli che hanno trasformato in poesia il dolore e la quotidianità senza cedere un frammento alla retorica né un granello alla verità nuda di storie solo apparentemente anonime e minori. Poveri, dialetto, terra e lavoro e poi qualche volo poetico e maestoso oltre le nostre pianure nebbiose – anch’io sono nato a Treviglio - per sognare la pace dopo la crudeltà delle guerre: un auspicio che viene sempre più rimosso, come se la pace non fosse il diritto da cui emanano e traggono senso tutti gli altri.  

Il timore è che con lui se ne vada un mondo e anche un modo di interpretarlo. Provo  una certa vena di pessimismo e non credo ai prodigi. Così, dietro la morte di Ermanno, vedo con rammarico una solidarietà infranta, tanti frammenti separati, ognuno dotato di ostinazione, poca sensibilità al pluralismo, perdita di meraviglia di fronte al vivente, che, anche quando muore, può invece trasferire la sua identità, la sua unicità in una eredità comune e incancellabile, se la si è potuta e voluta valorizzare a suo tempo  nelle forme più aperte di comunità. Tocca ai giovani, ai loro slanci, alla loro fiducia, far sì che il mondo preso in prestito sopravviva anche grazie agli sforzi ancora in atto, sempre più persi e isolati in un assordante rumore. Ma, ripeto, non sono ottimista.

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Credo sia giusto, e necessario, parlare di disfatta elettorale della sinistra - è evidente, sia per il PD, che per le espressioni della cosiddetta sinistra radicale – e anche prendere atto che siamo alla fine di un ciclo.

Tuttavia, non credo che i valori e le ragioni della sinistra non siano più attuali, né che non potranno trovare più un consenso di massa, ma non c’è dubbio che diverse cose vanno cambiate in profondità.

Se assumiamo, semplicemente, che il discrimine tra destra e sinistra resta “il diverso atteggiamento di fronte all’ideale dell’eguaglianza” (N. Bobbio) oggi, quando le differenze e le povertà stanno aumentando, i valori e le ragioni della sinistra resterebbero più che mai attuali.

Carlo Galli sul suo blog dice: “Il fallimento si spiega, soprattutto, con la mancanza di un’analisi strategica capace di mettere in discussione il modello politico ed economico vigente, non più in grado di generare vero consenso e vera sicurezza”.

E’ una analisi utile per arrivare alle ragioni di fondo: sia del declino del Pd, che nella crisi ha “risposto con dissennato ottimismo e in un modo completamente interno alla logica neoliberista”; sia dello spostamento, tra strati popolari, di un largo consenso verso il M5S e anche verso la Lega; mentre le liste di sinistra non hanno recuperato, se non marginalmente, i voti in uscita dal PD.

Per questo, accumunare M5S e Lega sotto la voce “populismi” è assolutamente sbagliato. Naturalmente, nelle espressioni di voto, pesano diverse questioni: non solo immediatamente di interesse materiale, ma anche valoriali, culturali, ecc., oltre che una generica richiesta di cambiamento e valutazioni contingenti (per impedire che prevalga la destra – o Renzi -  meglio votare M5S); ma per la sinistra guardare prioritariamente agli strati popolari, a chi ha - e conta - meno, nella società, dovrebbe essere preminente.

Questo vale verso chi ha votato M5S, che ne ha recuperato il maggior consenso, il fatto di dichiararsi “né di destra né di sinistra” (e guardando a cosa dice, e fa, si può anche dire che è vero) non dovrebbe impedire invece di incalzarlo verso posizioni progressiste e di sinistra (naturalmente le scelte che decideranno di fare sugli sbocchi di governo sarà essenziale, per un giudizio più preciso).

Ma dato che voti popolari, provenienti da sinistra (seppur in misura minore) sono andati anche verso la Lega, non basta denunciare, giustamente, la pericolosità delle posizioni della destra, occorre contrastarla affrontando anche le cause, vere, e/o presunte, dell’insicurezza, della precarietà, ecc. che viene pagata soprattutto dagli strati più poveri. A proposito della Lega e, per esempio, delle loro posizioni sull’immigrazione, viene in mente la frase dell’aristocratico Mr. Schermerhorn, nel film Gangs of New York di Martin Scorsese: “Si può sempre assoldare una metà dei poveri per uccidere l’altra metà”.                                                                                             

Beppe Casadio ha affermato, ancora prima delle elezioni, e poi scritto: “E’ tempo di riaprire un discorso pubblico sul potere e sulla sua distribuzione”. Questa è una delle questioni essenziali per poter ridefinire un ruolo e una azione incisiva della sinistra, per un’altra idea di società e di sviluppo, sulla quale avviare una riflessione sia a carattere generale, che ai livelli territoriali.

Stante alle prime reazioni dei vari esponenti delle sinistre, non pare che ci sia coscienza di queste necessità, e di queste riflessioni, sia in chi torna a guardare al PD (magari senza Renzi), sia tra chi si arrocca su dichiarazioni “antagoniste”. In entrambi i casi queste posizioni portano a non trovare convergenze unitarie né nelle iniziative specifiche, né tanto meno in scadenze elettorali (nelle quali il consenso che possono trovare, attualmente, lo abbiamo visto).

Proviamo allora a sollecitarla questa riflessione su cosa dovrebbe essere cambiato a sinistra, stimolando tutt* coloro che possono essere coinvolti, qualsiasi sia la collocazione, o non collocazione, elettorale.

Tralasciamo, almeno per l’immediato, di cimentarsi sulle ipotesi per gli sbocchi istituzionali e di governo nazionale, così come sulle future prossime scadenze elettorali: Europee, Regionali, Amministrative (che comunque hanno caratteristiche molto diverse tra loro), per concentrarsi invece su qualcosa che si potrebbe fare, anche a partire dal livelli locali.

Partire ognuno dalla propria realtà, e quindi anche dai livelli locali, non è localismo, anche perché è apparso chiaro che i vizi, i settarismi, ecc. che sono emersi tra le varie componenti delle sinistre a livello nazionale nel fallito “tentativo unitario del Brancaccio” (che non avrebbe risolto tutti i problemi, ma oggi saremmo messi un po’ meglio) non vanno semplicemente imputati ai livelli nazionali. Questi vizi sono gli stessi che si manifestano anche qui a livello locale; le responsabilità sono quindi (almeno per quota parte) anche di ognuno di noi, per quello che abbiamo fatto, o forse ancor più per quello che non abbiamo fatto.

E’ anche questo un motivo per ripartire valorizzando almeno quella parte di esperienze unitarie e positive che sono state fatte e si possono fare, senza aspettare che i “dirigenti massimi” a livello nazionale diano qualche segno (o cercando di neutralizzare quelli sbagliati che possono dare).

Tutti affermiamo la necessità di “riconnettere sinistra e società”, ma per farlo, penso che le esperienze della sinistra, del secolo scorso, sia quelle riformiste che quelle radicali, dovrebbero essere profondamente ripensate: sia nei contenuti, ci troviamo di fronte a questioni inedite (globalizzazione, crisi: economica, ambientale, climatica....) che implicano proposte compiute per “un altro modello di sviluppo”;  sia nelle forme, perché la cinghia di trasmissione partito/soggetti sociali non funziona più, così come la delega dei movimenti al partito per fare la mediazione politica...

Intendo dire che oggi, oltre a quel che resta di militanti politici diversamente articolati e più o meno attivi, a livello sociale esiste un’area ampia di “attivisti sociali” di associazioni, movimenti, sindacati, volontariato (laico e religioso), ecc. che, certo in modo frammentario e settoriale, “vuole cambiare lo stato di cose esistenti”, in senso che credo si possa definire “progressista e di sinistra” (anche se non necessariamente tutti si autodefinirebbero così) ma che comunque, in ogni caso, sono attivi, ma non sono disponibili semplicemente a delegare e a farsi rappresentare dalla politica tradizionale.

Come avranno votato? (sarebbe interessante, se fosse possibile, fare qualche sondaggio specifico…) io immagino che da lì venga senz’altro una parte dei voti a sinistra, certamente pochi per il PD, ma tanti invece al M5S, diversi non hanno proprio votato… (Enzo Scandurra parla di “società che lotta ma che non vota”).

Ma queste sono realtà importanti per chi vuole lavorare per un modello sociale più equo e sostenibile, che si possono coinvolgere a partire da contenuti specifici, non semplicemente chiedendogli di prendere la tessera di una organizzazione di sinistra.

Questo chiama in causa quella che è (dovrebbe essere) un’altra parola chiave per la sinistra: la partecipazione democratica. Naturalmente anche con caratteristiche innovative - certo diverse da quella delle cellule e delle sezioni - ma non può essere solo virtuale, non basta un click su FB, e ancor peggio non può essere la finzione dei cosiddetti “percorsi partecipativi” tesi a costruire consenso (vedi “Fermenti”). Quindi, la partecipazione che ci serve deve coinvolgere persone in carne ed ossa (non dimentichiamo che il M5S non sta solo sulla rete, continua a fare incontri settimanali – anche se possono essere più o meno qualificati); non può limitarsi a slogan, deve approfondire le questioni, avvalersi anche di conoscenze esperte, deve produrre iniziativa e mobilitazione, darsi e raggiungere risultati. In breve: non solo dire, ma fare.

Parliamone.

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Non mi avventuro in analisi organiche sul dopo 4 marzo; cerco di osservare, ascoltare, riflettere. C'è di ché; a patto di infrangere i muri di banalità e di presunzione.


Prendo a riferimento originario due pensieri di Raniero La Valle, liberi, come il loro autore, da conformismi e schematismi:
"le elezioni del 4 marzo hanno introdotto nella vita politica italiana una netta discontinuità. Naturalmente non sempre la discontinuità è positiva, perché il dopo può essere peggiore del prima. Tutti i conservatori la pensano così. Però senza discontinuità il nuovo non accade e la storia è finita. La discontinuità è la soglia attraverso cui può fare irruzione l’inedito, l’insperato ... È la cesura che interrompe quello che Walter Benjamin nella sua filosofia della storia chiamava il tempo “omogeneo e vuoto”; e la politica italiana aveva bisogno di questa discontinuità,...". Da troppo tempo omogeneo e vuoto, il nostro tempo.
E successivamente, più nel merito: "... l’elettorato ha sbrigato alcune pratiche che la politica professionale stentava a chiudere. Una è stata quella della interminabile uscita di scena di Berlusconi: mentre il sistema mediatico lo dava per risorto e futuro deus ex machina della nuova legislatura, l’elettorato ha chiuso la partita. La stessa cosa ha fatto con Renzi, ponendo fine alla sua azione di impossessamento e di progressiva decostruzione di un partito così importante per la democrazia italiana come il Partito Democratico. Naturalmente ci sono i sussulti della fine che rendono drammatica questa transizione, ma l’esito sembra segnato ...".
Cosa rimane, dunque, solo l’affermazione di Di Maio e Salvini, oltre al nostro smarrimento?
No. Rimangono i percorsi più ostici, ma anche più ricchi, da esplorare. Per la politica, per le rappresentanze sociali; insomma: per tutti gli attori della vita pubblica. Rimane da riempire di vitali novità per il futuro, il nostro tempo.
Al nostro tempo, ora ancor più, non si addicono la prudenza e il volo radente; ora è tempo di osare, di liberare il pensiero, per l'analisi e per azzardare obiettivi ambiziosi.
In un recente incontro pubblico di campagna elettorale ha provocato qualche scetticismo una affermazione di tal fatta: "E’ tempo di riaprire un discorso pubblico sul potere e sulla sua distribuzione". Parve a taluni un sussulto estremistico. Qui ora lo ribadisco, ed argomento meglio, spero.
Rivolgendomi virtualmente a tutti i soggetti politici i cui simboli campeggiavano sulle schede che ci sono state consegnate ai seggi lo scorso 4 marzo, vorrei chiedere quanto sia diretta, effettiva, aggiornata la loro conoscenza del contesto al cui governo si sono proposti. La domanda non è retorica. Dico conoscenza effettiva degli assetti economici, delle stratificazioni sociali, dell'integrazione fra sistema formativo e domanda culturale dei più giovani (non solo a fini di potenziale collocazione lavorativa), conoscenza dello stato reale delle strutture socio-assistenziali a confronto con la domanda di benessere ... Quale percezione si abbia del grado di coesione sociale e di cultura civica diffusa (dai fondamenti costituzionali, alla fedeltà fiscale, allo spirito di pace e accoglienza)?... Quanto l' equilibrio territoriale fra nord e sud, fra sviluppo e disagio, sia avvertito come fondante l'identità nazionale?
In campagna elettorale non di questo si è discusso.
E come, in quali sedi ed occasioni e forme, quei partiti sanno intessere un confronto diretto, su questi ed altri temi, con la cittadinanza?
Come sanno, le leadership, trarre dal confronto una proposta, una piattaforma di iniziativa?
Dicendola con un solo concetto: quale grado di autonomia - di pensiero e di proposta - sa esprimere chi pensa di poter rappresentare e guidare la comunità? Cioè di esercitare responsabilità, potere.

La questione va posta anche - forse innanzitutto - ai soggetti che ambiscono ad interpretare per il futuro valori di equità, di uguaglianza, di solidarietà, di accoglienza... La sinistra nuova, nuovissima, ricostruita, quale che sia la forma che assumerà dopo la sconfitta elettorale che l'ha investita.
Perché non può esserci "ripartenza" se non da qui. Dallo studio, dalla lettura critica della realtà. Moltissimi, in queste settimane, (da ultimo Walter Veltroni in una recente intervista) hanno solennemente scritto o detto: "La sinistra è stata sconfitta perché ha perso il contatto con il popolo". Banalità. "Contatto", o, piuttosto, capacità di proporre una efficace "lettura critica" della contemporaneità?
La questione sta qui. Si può vivere la discontinuità sancita dall'esito del voto come un piano inclinato verso il peggio (pur in solidale "contatto" con il popolo. La storia lo ha ripetutamente dimostrato), o come "la soglia attraverso cui può fare irruzione l'inedito, l'insperato, ...la cesura attraverso cui si interrompe il tempo omogeneo e vuoto...”, per dirla ancora con Raniero La Valle.
C'è da ri-costruire, non da aggiustare, non solo da cambiare passo per "riprendere contatto". Questa consapevolezza ha animato la scelta di mettere in campo alle elezioni una formazione del tutto nuova. Quella di LeU, rispetto alla scadenza del 4 marzo, si è rivelata scelta frettolosa e troppo improvvisa; per motivi contingenti, sostanzialmente riconducibili al travaglio di ogni nascita. L'esito ne è lo specchio. Tuttavia il suo valore si deve misurare mettendolo a confronto, nel tempo che ci sta di fronte, con quella urgenza di riempire di nuovi contenuti il tempo oggi ancora "omogeneo e vuoto" della politica italiana.
Di che si sta discutendo in queste ore, e chissà per quante settimane ancora? Non di rilettura critica della contemporaneità, non di strategie per il governo dell'economia, della convivenza civile, o per rendere più uguale e coesa la nostra società; bensì delle quote che gli allibratori assegnano a questa o quella ipotetica compagine di governo.
Per questo motivo si deve, a maggior ragione, dare continuità e consistenza programmatica alla sinistra "nuova e unitaria".
Tutto ciò parla, però, anche alle rappresentanze sociali. Esse, tutte, devono intendere la "discontinuità" che il 4 marzo ha introdotto nella politica italiana come una chiamata in causa; ciascuna con la propria identità e gelosa della propria autonomia. Il pluralismo dei soggetti sociali è un propellente essenziale per restituire dinamismo al governo di una società complessa (la "disintermediazione" - il rapporto diretto tra il leader e il popolo - è moneta ormai fuori corso). Analogamente gli eletti alle urne non sono "portavoce" del popolo indistinto di cittadini; onniscienti su tutto e per tutti. Devono essere piuttosto interpreti, mediatori dialettici, portatori di soluzioni. Governanti nel senso di costruttori di consenso ulteriore attorno alla "visione" che li contraddistingue e su cui hanno ottenuto il voto nelle urne.
Infine, e conseguentemente, la "discontinuità" sancita dal risultato elettorale restituisce dignità e valore alle sedi e alle forme - reali, non virtuali - della dialettica politica.
Ci ha pensato l'elettorato - dice La Valle - a "sbrigare alcune pratiche ... Berlusconi, Renzi ... ". Ma basta con i "partiti personali", basta con i "partiti comitati elettorali". No alla de-strutturazione della politica. E' urgente elaborare e praticare una nuova salda "cultura organizzativa". Diversamente la sinistra non potrà ricostruire sé stessa, e con sé la sovranità della democrazia.

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16 marzo, quaranta anni orsono. Il sequestro di Aldo Moro, e l’assassinio di  Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino,  gli uomini della sua scorta, e l’inizio di cinquantacinque fra i più brutti giorni della storia della Repubblica. E’ il caso di parlarne, di discuterne, di ricordare e di riflettere.

 

Guai a dire “acqua passata”, vorrebbe dire alimentare quel purtroppo forte filone di pensiero che svilisce la storia e la memoria, infiacchisce momenti - altrimenti nobili - come le ricorrenze, le commemorazioni e lo studio, ed apre la porta a brutti rischi, come sta oggi avvenendo con la risorgenza nazifascista.

E allora di parlarne abbiamo il dovere, anche noi che magari diciamo di voler ricostruire una sinistra migliore di quella scalcagnata e agonizzante del presente, e anche noi che – anagraficamente datati con cifre che iniziano per 6 o per 7 – diciamo in continuazione di volerci rapportare con chi, invece, il 16 marzo del 1978 era ancora  lontano dal venire alla luce.

Perché quando si parla della vicenda Moro ci si imbatte in un brutto e bifronte cocktail di non detti e di scontatezze, di addolorati trionfalismi e di superficiali e rancorosi giustificazionismi.  E abbastanza poco ci si trova in presenza del confronto con gli stati d’animo di chi ricorda bene quei giorni. Va detto che in questi giorni i mezzi d’informazione ci stanno proponendo ricostruzioni anche pregevoli, problematiche e caratterizzate dalla voglia di capire e spiegare. E di contro, che queste ricostruzioni spesso incontrano la critica severa di tante e tanti, soprattutto di persone che ebbero a soffrire maggiormente perché colpite direttamente nei propri affetti. Credo che si debba fare di più e che ognuno possa dare un proprio, personale e umile, ma utile, contributo.

Io negli anni settanta ero iscritto al PCI, quello di Berlinguer e della ricerca di nuove vie per la “costruzione del socialismo”. Quindi sulla lotta armata  e sul terrorismo avevo delle idee che volevano essere  ben chiare. Ma nel marzo del 1978 ne ero appena uscito, dopo la presa d’atto che ci era “caduto addosso un pezzo di società”, come ebbe a dire un grande intellettuale di sinistra di fronte alla rivolta giovanile del ’77, dove  noi non eravamo stati capaci di dare risposte che non fossero lo schierarsi tout court dalla parte dell’ ordine costituito. Così nel ’78 andavo dicendo, come tanti altri, che di fronte al diffondersi della lotta armata non bastava invocare la repressione e ripetere il mantra del “non si tratta”, ma si doveva innanzi tutto cercare di capire, di spiegare , di studiare e trovare vie d’uscita anche improntate a qualche forma di confronto. E ci trovavamo, in tale posizione, in compagnia nientemeno che del detestato Craxi.

Anche alcune delle guerriglie dei paesi del sud del mondo avevano aspetti inumani, deliranti, atroci e comunque terroristici, anche l’indipendentismo dell’ IRA irlandese (per parlare di un paese del nord del mondo, che si voleva democratico) spesso scadeva in atti criminali rivolti verso civili innocenti, e pur tuttavia non si giustificavano le risposte esclusivamente repressive, liberticide e a loro volta criminali esercitate dai governi contro i quali quelle guerriglie lottavano. Non solo, ma anche nella critica più aspra, il più delle volte si concedeva a quei gruppi  la patente di “movimenti di liberazione”.

Alcuni punti fermi: 

1) l’elaborazione sulla nonviolenza, pur diffusa e in certi momenti molto profonda,  non è stato un patrimonio comune, e quindi chi ha cercato di cimentarsi in essa ha dovuto comunque convivere con chi invece ha sempre continuato a credere alla violenza necessaria, alla violenza giusta, alla violenza proletaria,  ma considerando a lungo e sostanzialmente costoro come compagni di strada, che si dovevano (e si devono) se mai convincere della validità della via nonviolenta e democratica.   

2) D’altra parte, mia è la convinzione, ed era convinzione della maggior parte di coloro con cui mi rapportavo, che in una democrazia, per quanto incompleta e arretrata, per quanto lacerata, per quanto attraversata da profonde ingiustizie, non sia comunque giustificabile il ricorso alla violenza armata, alla logica di guerra, alla scelta della soppressione fisica di chi venga di volta in volta considerato il nemico.

3) Convinzione, altresì, che la lotta armata, e qualsiasi fenomeno di violenza terroristica, siano in contrasto totale con quella Costituzione della Repubblica, che - se mai -  andava e va difesa da tutti i tipi di attacchi (purtroppo frequenti, e da varie parti), e che invece l’insorgenza armata aveva in spregio, preconizzando in maniera più o meno dichiarata una legge del più forte, foriera di una dittatura (del proletariato ?), in cui tutto si legittima, a partire dall’orrenda istituzione della pena di morte, accettata, teorizzata e poi praticata, verso i propri nemici, definiti  con cinismo arbitrario e feroce nemici del popolo.  

4) L’ esperienza brigatista e l’insieme delle scelte di passaggio alla lotta armata avvenivano non già in un momento di depressione e di annullamento della  società civile, di instaurazione di una strisciante dittatura, ma in una fase assai contraddittoria, in cui repressione di piazza, momenti di mortificazione dei diritti e tentativi di ristrutturazione reazionaria del capitalismo e delle  istituzioni si alternarono a  fasi di avanzamento generale della società, di conquiste civili e sociali significative, che non per caso oggi vediamo messe gravemente  in discussione, e la difesa delle quali ci sembra un fronte particolarmente avanzato.

Ma questi punti fermi non volevamo ci impedissero (e non vorrei ci impedissero oggi) di avere gli occhi aperti su alcune constatazioni molto chiare nel giudizio sulla società, sullo Stato e sul rapporto con esso:

- Come se non fosse (stato) vero che dal dopoguerra in avanti si siano verificati numerosi tentativi di stampo restauratore, con tentativi di colpo di stato o comunque di involuzione autoritaria.  

– Come se non fosse  vero  il reiterato fenomeno del riemergere delle aggregazioni fasciste.

– Come se non vi fossero state più volte scelte istituzionali di tipo reazionario (una per tutte quella del governo Tambroni del 1960), che solo la mobilitazione popolare e di sinistra seppe sventare.

– Come se non fosse  vero che l’uso delle forze dell’ordine, meritorie nella lotta alla criminalità organizzata, viceversa , nel conflitto sociale sia quasi sempre stato orientato a colpire le istanze di progresso, di democrazia e di giustizia, spesso anche se portate avanti in maniera totalmente pacifica, e a difendere le stanze del potere e i privilegi dei padroni, anche quando palesemente illegittimi e improntati ad uno spirito francamente anticostituzionale.

– Come se non fosse vero che  le forse dell’ordine abbiano organizzato ed attuato più volte operazioni d’infiltrazione  e di provocazione anche diretta, al fine di esasperare il livello di scontro e poter aprire la strada a momenti repressivi della massima brutalità

– Come se non fosse vero che numerosi lavoratori, disoccupati e studenti abbiano perduto la vita sulle piazze in numerosi momenti di protesta anche la più democratica, e molti di più per incidenti sul lavoro, malattie professionali, mancato rispetto di regole pur esistenti

– Come se non fosse vero che pezzi significativi (comodamente poi definiti deviati, ma spesso collegati con alte o altissime cariche) delle istituzioni siano state collegate agli episodi di involuzione autoritaria, di tentativi  eversivi, anche ricorrendo alle stragi, in parte rimaste impunite.

– Come se non fosse vero che le scelte politiche di quel tipo siano  in gran parte state guidate  dall’obbedienza a scelte politiche internazionali, senza spirito critico, autonomia e neppure attenzione all’interesse nazionale.

Ed è duro dirlo, ma fu l’analisi di questi aspetti innegabili, contro i quali le istituzioni democratiche e la stessa sinistra si dimostrarono spesso incerti, a spingere all’estremo una parte dei movimenti più radicali, e pure a far sì che essi avessero un consenso abbastanza ampio in certi momenti ed in certi luoghi. Il fenomeno della mancata partecipazione  operaia alle mobilitazioni contro il terrorismo, e più in generale del fiancheggiamento alle scelte terroristiche, è stato più volte enfaticamente banalizzato, non ebbe mai una dimensione di massa (che invece ebbe tale partecipazione), ma indubbiamente  ebbe luogo in più di un’occasione e sarebbe stolto far finta di nulla.

Ecco, a partire da questa riflessione (e molti avranno da proporne altre), sarebbe buona cosa che si discutesse fra di noi e con chiunque abbia voglia di farlo, perché tutto un pezzo di storia non finisca nel dimenticatoio; e perché non si faccia di tutta l’erba un fascio con cose fra loro diverse e anzi contrapposte. Troppo spesso, per esempio, si racconta della lotta armata quando si ricorda il ’68, o si mostrano le immagini dei grandi cortei operai quando si narra delle BR. Così come troppo spesso si vedono le fotografie di Piazza Fontana o dell’Italicus parlando genericamente di anni di piombo.

E credo che una piccola realtà della Sinistra come Ravenna in Comune, che a livello locale è riuscita a mettere insieme persone assai diverse fra loro in un’ elaborazione condivisa, abbia tutto il titolo – in questi cinquantacinque giorni che saranno sicuramente ricchi di commenti - per prendere la parola in una discussione del genere.

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Io amo Massimo Recalcati, psicanalista. Come amavo il visionario e incomprensibile Jacques Lacan, di cui Recalcati è studioso e interprete. L’ho ascoltato nelle interviste e ho letto con estremo godimento tutti i suoi scritti, ammirandone l’intelligenza e la straordinaria capacità divulgativa. E sono certo che se lo avessi avuto come docente scolastico la mia esperienza a scuola non sarebbe stata così travagliata.

 

Detto questo, leggo con sconcerto le dichiarazioni del Recalcati politico, del suo endorsement al PD e Renzi, unico leader, a suo dire, in grado di unirla e farla crescere. Nonché delle sue colte argomentazioni contro i contestatori renziani interni al partito (ora fuori), scomodando in questo persino la mitica figura di Telemaco e bollandoli come le mummie del no. Sono molto preoccupato per questa schizofrenia, per l’evidente dicotomia fra i due Recalcati.

 

Ad esempio, martedì 20 su Repubblica scrive a proposito di Di Maio, in merito al fatto di aver accettato la candidatura a premier: Quale assenza di giudizio critico su se stessi comporta l’aver accettato questa candidatura?… Quanti accetterebbero un incarico di questa rilevanza senza avere la più pallida idea di cosa significhi governare la cosa pubblica? E’ questa assenza di consapevolezza dei propri limiti che fa davvero tremare i polsi. Un fantasma di onnipotenza e di purezza totalmente sganciato dalla realtà. Egiù ad accusare di patologia bipolare i cinque stelle; giudizi, in parte, certamente anche condivisibili.

 

Però c’è una cosa che vorrei far notare: come si dice in Romagna, io ho fatto le scuole basse, non ho studiato a fondo il geniale Lacan, ho solo una infarinatura di psicanalisi e non sono docente di nulla. Forse proprio grazie a questa mia mente semplice ho notato che se, nei suoi discorsi, si sostituisce il nome di Di Maio con Renzi non cambia nulla, tutti collimano perfettamente, sono due nomi praticamente intercambiabili.

Capite ora perché sono preoccupato? Dove è finita, mi chiedo, la fine intelligenza dell’uomo? ma soprattutto l’acume dello studioso, dell’analista capace di scovare i veri caratteri e l’animo recondito delle persone? Ecco io vorrei anche segnalarglielo, ma a quale dei due?

 

 

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 Ambrogio Lorenzetti - Effetti del buon governo in città - Siena Palazzo Pubblico

E così a Faenza avremo un altro supermercato. Incredibile. Quando ne ho sentito parlare pensavo ad uno scherzo.
Quale amministrazione al mondo può seriamente pensare di acconsentire l’apertura di un nuovo discount in una città di circa 60000 abitanti dove ci sono già cinque supermercati Conad, tre Coop, un LIDL, due discount e due Despar. Il nuovo discount della catena austriaca Hofer sorgerà di fronte al supermercato Le Cicogne e a poche centinaia di metri dall’ex Cisa, dove dovrebbe collocarsi il nuovo LIDL. Tra l’altro, tutti e tre, in una zona ad altissimo impatto ambientale per la mole di traffico presente. Tutto questo dopo anni in cui si chiede inutilmente di valorizzare le piccole botteghe commerciali, artigianali e il centro storico della città.

Perché allora? Naturalmente la domanda è stata posta in ogni sede in cui sia ancora presente un minimo di buon senso. La risposta della nostra amministrazione comunale è stata: ci sono regole (fatte da loro, è bene precisare) che impediscono di opporsi! Segnalo che di solito si dice che lo vuole l’Europa, qui si vola già più basso e si incolpa l’Unione della Romagna faentina. Bene. Ricordo che quando contestammo l’allargamento del Conad stradone che devasterà irrimediabilmente l’Arena Borghesi, ci risposero che eravamo faziosi. Quando ci lamentammo dello spostamento della Casa della Salute che sta creando notevole disagio ai cittadini, ci dissero che era stata una apposita commissione dell’Azienda Sanitaria a scegliere il posto, dove però, guarda caso, c’erano dei locali sfitti del Conad da affittare. Quando facemmo notare l’obbrobrio della pulizia etnica del fiume Lamone, dove è stato estirpato ogni genere di vegetale esistente, stravolgendo ambiente e paesaggio, ci risposero scaricando la colpa sulla ditta incaricata della pulizia. E si potrebbe tranquillamente continuare così.

Esasperato da queste continue incomprensioni ho cercato allora una risposta nella semantica; ho aperto il vocabolario alla parola “amministrare” e ho letto che significa: avere cura. Non si dice semplicemente che bisogna dirigere in modo disattento o burocratico, niente affatto, si afferma invece un principio importante e preciso: amministrare un bene che è della collettività è cosa da fare con la massima attenzione e sollecitudine (come si cura anche un ammalato).

Mi spingo oltre, dicendo che le Amministrazioni comunali migliori, quelle rimaste scolpite nella memoria dei cittadini italiani, svolgevano il loro compito in modo addirittura amorevole. Ebbene, questa Amministrazione, alla luce di tutti questi fatti, può dire di governare il territorio faentino in modo attento e amorevole? Può dire che sta prendendosi cura di tutti noi?

 

 

 

 

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