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Domenica 8 dicembre era previsto il ballottaggio tra Calin Georgescu e Elena Lasconi. Il partito nazionalista Drept chiede l'annullamento anche del voto parlamentare

Calin Georgescu e Elena Lasconi - RIPRODUZIONE RISERVATA Calin Georgescu e Elena Lasconi 

La Corte costituzionale della Romania ha annullato le elezioni presidenziali.

Domenica 8 dicembre era previsto il ballottaggio tra la candidata filo-europea Elena Lasconi e quello di estrema destra Calin Georgescu arrivato in testa al primo turno, sullo sfondo di possibili ingerenze russe.

L'annullamento del primo turno delle presidenziali, tenutosi il 24 novembre scorso, è avvenuto dopo la desecretazione di documenti riservati sulla sicurezza, relativi a presunte ingerenze straniere, in primis della Russia, sulla campagna elettorale condotta su TikTok da Calin Georgescu, il candidato indipendente di estrema destra vincitore a sorpresa del primo turno. Georgescu sarebbe stato favorito dalla piattaforma che gli avrebbe offerto condizioni vantaggiose.

La decisione è giunta del tutto inaspettata dopo che la stessa Alta Corte nei giorni scorsi, pronunciandosi su ricorsi e obiezioni, aveva invece confermato il risultato del primo turno delle presidenziali, spianando la strada al ballottaggio che era previsto per domenica 8 dicembre con la sfida tra Georgescu e Elena Lasconi, leader del partito moderato di centrodestra Usr.

Il fondatore del partito nazionalista e anticorruzione Drept (Giustizia e Rispetto in Europa per tutti i Partiti), Vlad Gheorghe, ha presentato un'istanza all'alta Corte di cassazione a Bucarest, chiedendo l'annullamento anche delle elezioni parlamentari in quanto "anche tale consultazione potrebbe essere stata influenzata da ingerenze straniere".

Il voto legislativo si è tenuto nel Paese balcanico domenica scorsa e ha visto il successo del partito socialdemocratico, unitamente a una forte avanzata delle forze di estrema destra. La richiesta di annullamento delle legislative è giunta poche ore dopo la decisione della Corte costituzionale che, con una nuova decisione a sorpresa, ha annullato del tutto il primo turno delle elezioni presidenziali svoltosi il 24 novembre scorso per presunte ingerenze straniere sul processo elettorale. Il ballottaggio era in programma per domenica 8 dicembre.

Presidente della Romania, resterò fino all'elezione del mio successore

Il presidente pro-Ue della Romania Klaus Iohannis ha dichiarato che rimarrà in carica fino a quando non verrà eletto il suo successore, dopo che la Corte suprema del Paese ha annullato il voto presidenziale appena due giorni prima del ballottaggio. "Resterò in carica fino a quando non verrà eletto un nuovo presidente della Romania", ha affermato Iohannis in un discorso, aggiungendo che un nuovo governo che emergerà dalle elezioni legislative dello scorso fine settimana dovrà essere formato per fissare una nuova data per le elezioni presidenziali. 

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Mediterraneo Lo ha stabilito il tribunale di Vibo Valentia. Sui prossimi casi, però, varrà il dl flussi

La Ong Sea Eye vista durante un salvataggio foto di Guillaume Duez La Ong Sea Eye vista durante un salvataggio – Guillaume Duez

«Le indicazioni dei libici non possono considerarsi emesse nel rispetto della normativa internazionale». Il tribunale di Vibo Valentia ha smontato nel merito le violazioni contestate, ai sensi del decreto Piantedosi, alla Sea-Eye 4 nell’ottobre 2023. Dopo un tragico soccorso, una cinquantina di persone di cui quattro annegate provando a fuggire dal pattugliatore di Tripoli “Nalut” presente sul posto, la nave era stata fermata nel porto calabrese. La giudice Ida Cuffaro ha messo nero su bianco che in base alle convenzioni internazionali il «dovere di soccorso» ha «carattere assoluto» per tutti i comandanti: il solo limite è non mettere in pericolo imbarcazione, equipaggio o passeggeri. Nessuna autorità, o supposta tale, può ordinare di non soccorrere.

La sentenza, datata 4 dicembre, fa a pezzi l’impianto accusatorio. L’unico elemento fornito dai ministeri di Infrastrutture ed Economia, per conto di guardia costiera e di finanza che hanno contestato le presunte violazioni e ora dovranno pagare 10mila euro, è una mail ricevuta dai libici. Ma questa si limita «a una oltremodo generica ricostruzione dei fatti che nulla provano in ordine alla effettiva dinamica degli eventi», dice la sentenza. «Le autorità italiane non sono presenti dove accadono i fatti, non sanno nulla. Basano le contestazioni sulle scarne informazioni ricevute da un altro Paese. Noi abbiamo fornito video, comunicazioni scritte e registrazioni radio per rappresentare correttamente la situazione», afferma l’avvocato Dario Bellucci, tra i difensori dell’ong.

Le motivazioni del tribunale ricalcano quelle delle analoghe sentenze di merito di Reggio Calabria, sempre su Sea-Eye, e Crotone, su Sos Humanity. L’avvocatura dello Stato ha impugnato entrambe. In un altro caso è stata dichiarata la mancanza di interesse ad agire perché il sequestro era terminato. Di parere negativo, invece, la decisione contro la Geo Barents di Medici senza frontiere per un fermo ad Ancona, contro cui l’ong ha fatto ricorso. La nave di Msf è nella posizione più complicata. Ha già due ordinanze esecutive, doppia violazione per lo stesso comandante, che sono il presupposto per la sanzione finale: la confisca.

Il quadro, comunque, cambierà completamente nelle prossime missioni per effetto del dl flussi, convertito in legge. Le novità sono tante. Riguardano in primo luogo la procedura punitiva. Una misura di dubbia legittimità prevede che il verbale di contestazione dell’eventuale illecito sia trasmesso entro cinque giorni al prefetto che ha altri cinque giorni per disporre il fermo. Nel frattempo la nave deve restare in porto. Il governo pretende poi che i ricorsi siano presentati prima al prefetto e poi in tribunale. Il primo non è un soggetto imparziale, ma per arrivare al secondo si allungheranno i tempi.

Le impugnazioni riguardano sia la multa che il fermo. Nel modello paradossale costruito da Piantedosi il secondo, che ha un impatto maggiore, è considerato sanzione accessoria mentre la prima è quella principale. E su questa si stabilisce la recidiva che in base alla nuova interverrà non solo quando il comandante ripete una violazione ma anche quando sono implicati, per quella nave, la stessa ong o lo stesso armatore. In pratica: sempre. Prima o dopo, quindi, è verosimile scattino le confische. Anche perché le multe non possono essere impugnate subito ma solo quando il prefetto invia l’ingiunzione con la cifra esatta. In alcuni casi questo atto non è ancora arrivato nonostante sia trascorso un anno, in altri ne sono arrivati due insieme facendo passare le sanzioni al livello superiore.

Tra i giuristi ci sono pareri discordanti se per la recidiva varranno anche le contestazioni precedenti al dl flussi: a norma di legge sembrerebbe illegittimo perché siamo nel civile ma valgono i principi generali del diritto penale. Di chiaro c’è solo una cosa: la minaccia ai soccorsi.

 

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La Siria è sull’orlo del cambio di regime. Le milizie jihadiste, con l’appoggio ora esplicito della Turchia, arrivano a Homs e avanzano verso la capitale, ultima roccaforte di Assad. Iraniani e russi non li fermano. Gli sfollati sono centinaia di migliaia, i profughi saranno milioni

Sulla via di Damasco Il presidente turco ieri ha confermato che la meta dell’offensiva jihadista in Siria sostenuta dalla Turchia è rovesciare Bashar Assad

Jihadisti festeggiano per le strade di Hama - Ansa Jihadisti festeggiano per le strade di Hama – Ansa

Recep Tayyip Erdogan, grande architetto dell’attacco dei jihadisti sunniti in Siria, ieri è uscito allo scoperto proclamando il suo pieno sostegno all’offensiva che in una settimana ha preso Aleppo e Hama e che presto potrebbe conquistare anche Homs. «Dopo Idlib, Hama e Homs l’obiettivo sarà Damasco. La marcia delle forze di opposizione va avanti. Speriamo che continui senza problemi», si è augurato presidente turco, parlando con i giornalisti a Istanbul. Ha aggiunto di aver «lanciato un appello» al presidente siriano Bashar Assad. «Abbiamo detto, forza, determiniamo assieme il futuro della Siria. Purtroppo, non abbiamo ricevuto una risposta positiva», ha riferito. A questo punto, con le forze armate siriane a pezzi e Damasco ormai nel mirino dei jihadisti, oggi a Doha il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan incontrerà i colleghi russo e iraniano, Serghej Lavrov e Abbas Araghchi, per dettare, con ogni probabilità, le condizioni della resa di Assad. Potrebbe apparire esagerato, o prematuro, non è così.

LE TRUPPE governative, infatti, si raccolgono a difesa solo di Damasco, mentre le ong e agenzie dell’Onu rimandano a casa il personale non essenziale. Non è chiaro cosa farà l’Italia, unico paese dell’Ue con un ambasciatore a Damasco. Gli sfollati della nuova guerra sono già 370mila, un numero destinato ad aumentare. Già si intravede l’esodo della comunità cristiana, una delle più antiche del Medio oriente se i jihadisti prenderanno la capitale. L’esercito siriano ieri ha abbandonato anche Deir Ezzor, nella Siria orientale. Il suo posto è stato preso immediatamente dalle milizie curde Sdf che hanno poi spiegato di essere intervenute per garantire protezione alla popolazione della città e dei centri vicini, di fronte al riemergere dell’Isis in quella zona. Con il crollo dell’esercito siriano, cellule dello Stato islamico, combattuto in passato soprattutto dai curdi, sono prontamente riapparse nella Valle dell’Eufrate e sulla strada tra Homs e Palmira. I leader dell’autonomia curda nel nord-est della Siria hanno capito che le forze governative sono come neve al sole e che, pertanto, presto le Sdf dovranno di nuovo fare i conti con l’Isis e confrontarsi con i miliziani di Hay’at Tahrir al Sham (Hts, l’ex braccio siriano di Al Qaeda), armati e finanziati dal nemico Erdogan e alla guida dell’offensiva cominciata a fine novembre. Sanno che l’appoggio che ricevono dagli Usa non servirà a molto se Ankara deciderà di attaccare militarmente l’Autonomia curda nord-est della Siria. Lo scontro con Hts perciò è possibile.

NESSUNO CREDE che i jihadisti lasceranno ai curdi

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5 Stelle Si riapre la consultazione sullo statuto e il leader si smarca dalla coalizione. I punti di frizione col Pd: la guerra ma anche «l’accoglienza indiscriminata»

Giuseppe Conte foto Mauro Scrobogna/LaPresse Giuseppe Conte – Lapresse

Nel giorno in cui, su iniziativa di Beppe Grillo, le urne virtuali del Movimento 5 Stelle si riaprono per le modifiche allo statuto (si vota fino a domenica alle 22) Giuseppe Conte rilascia alcune dichiarazioni per distinguersi dalle altre forze del centrosinistra. «Credo che questa comunità si dimostrerà ancora una volta matura, unita, compatta nel voler voltare pagina – dice Conte a margine della visita ai precari del Cnr – Sarà unita come l’ha fatto nel processo costituente, in cui sono venute fuori tante nuove battaglie, tante nuove misure, ed essere in questo sistema politico, in questo paese e anche nel contesto internazionale. Sarà una forza politica sempre più incisiva, forte, coraggiosa per cambiare tante cose che non vanno bene».

Sulla consultazione degli iscritti, il notaio e deputato del M5S Alfonso Colucci ci tiene a distinguere l’aspetto politico da quello giuridico: «Abbiamo avuto questa richiesta di rivotazione, alla quale giuridicamente avremmo potuto non dare corso, ma il presidente Conte ha inteso rispondere alla richiesta con un ulteriore bagno di democrazia. Quando gli iscritti avranno votato anche domenica, politicamente il discorso sarà chiuso. Se ci saranno delle appendici legali, saranno carte bollate, ce la sbrigheremo in tribunale, me la sbrigherò io in tribunale, ma politicamente la questione è chiusa». Ma il discorso politico è tutt’altro che risolto. È invece apertissimo sul fronte della coalizione alternativa alla destra, visto che Conte ha per l’ennesima volta marcato la differenza dal Pd. Questa volta ancora più nettamente, affermando che il M5S è sì «progressista», ma «non di sinistra». Parlando alla Stampa, l’avvocato sottolinea le attuali divergenze su guerra e afferma ancora una volta (contro ogni evidenza) che la sinistra sui migranti persegue la linea dell’«accogliamoli tutti». Dunque, è la sintesi, in questo momento avrebbe difficoltà ad andare al voto con questi programmi.

Dalle parti del Nazareno continuano a non reagire a queste insinuazioni. Elly Schlein si limita a ribadire la formula degli ultimi mesi: «Stiamo costruendo un progetto per l’Italia, per dare al paese un’alternativa a questa destra». Molto più netto Riccardo Magi, che attacca i 5 Stelle definendoli come esponenti del «progressismo salviniano». L’ossimoro del segretario di +Europa viene individuato da Stefano Bonaccini a proposito della collocazione del M5S in Europa: «Conte dice, legittimamente, che il M5S non è di sinistra – afferma Bonaccini – Però siede nel parlamento europeo con l’estrema sinistra». Nicola Fratoianni, che ha svolto un ruolo decisivo nell’ingresso dei pentastellati nel gruppo europeo di The Left, e che di solito ha un atteggiamento ecumenico, adesso sottolinea la stessa contraddizione: «Conte rivendica la sua autonomia – afferma il deputato di Avs – Anche noi siamo autonomi, sia chiaro. Poi ognuno lo fa come crede. Dice ‘Noi non siamo di sinistra’ nonostante stia in un gruppo in Europa che si chiama Left. Mi pare che dopo la Costituente siano ancora in una fase assestamento».

Insomma, che intende l’ex premier per «progressista»? «Significa che saremo sempre vicini ai bisogni dei cittadini – dice in visita al Cnr – Questa forte vocazione popolare ci caratterizzerà ancora di più, saremo ancora più radicali del passato, e significa che non ci piegheremo di fronte allo strapotere di industria, delle banche, delle armi, contrasteremo il disegno di distruzione dell’automotive e in questo siamo disponibili a dialogare con chiunque». Ma quel chiunque fa drizzare qualche antenna ed evidentemente se ne accorge lo stesso Conte. Che cerca di delimitare il campo delle interlocuzioni con questa formula: «Con chiunque del campo progressista che possa condividere questa genuina ispirazione».

 

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Veni Vidi Vichy Discorso tv senza il nome del nuovo premier: decido a breve. La colpa della crisi? Degli altri

Il discorso alla nazione di Emmanuel Macron sullo schermo di un video in un bar di Saint-Jean-de-Luz, nel sud della Francia Ansa Il discorso alla nazione di Emmanuel Macron sullo schermo di un video in un bar di Saint-Jean-de-Luz, nel sud della Francia Ansa

E adesso? Emmanuel Macron non si sente responsabile del caos attuale e nominerà «nei prossimi giorni» un nuovo primo ministro, ha detto in televisione ieri sera, che avrà il compito di unire «tutte le forze dell’arco politico che si impegnano a non censurare», un governo di «interesse generale».

Il presidente ha chiarito che ha ancora trenta mesi davanti a sé, quindi che non si dimetterà come alcuni chiedono. L’esempio, neanche a dirlo, è la “nuova” Notre-Dame che sarà riaperta domani, «l’abbiamo fatto», «ognuno aveva un ruolo essenziale», «è la prova che sappiamo fare», come con i Giochi Olimpici. «Dobbiamo fare la stessa cosa con la nazione», un governo che «saprà trovare i compromessi, il rispetto» reciproco. Contro «l’irresponsabilità» di chi ha scelto il «disordine» e il «caos». Principalmente «l’estrema destra» (il termine torna), con l’estrema sinistra.

Estrema destra ed estrema sinistra si sono unite in un fronte antirepubblicano. Alcuni sono tentati di incolparmi per questa situazione. È molto più comodoEmmanuel Macron

Giornata febbrile e toto nomi, sullo sfondo la volontà di dissipare la sensazione di crisi istituzionale, che si diffonde come un’onda tra tutte le forze politiche, senza che nessuno per il momento abbia il coraggio di mettere al centro della discussione la perdita della principale qualità della V Repubblica: la stabilità garantita.

Michel Barnier ha presentato ieri mattina alle ore 10 le dimissioni del suo governo, di cui l’Eliseo ha «preso atto» con un comunicato alle 15,01, dopo aver discusso per un’ora con il primo ministro che resta in carica per «gli affari correnti» fino alla nomina del successore. Macron, che per tre mesi si è soprattutto dedicato alla politica estera, «dominio riservato» della presidenza (anche se Barnier aveva cercato di mettere i piedi, soprattutto sul fronte europeo, forte del suo passato di commissario e di negoziatore del Brexit) è tornato al centro del gioco politico. Ma è un’illusione ottica: il presidente non è più padrone del tempo, a causa della pressione crescente sulle dimissioni, non solo da parte del Nfp e a causa del lento veleno diffuso dal Rn, ma anche perché la fretta che Marine Le Pen vuole imporre si scontra con la necessità di un cambiamento di fondo.

LO HA MESSO IN LUCE Marine Tondelier, segretaria degli Ecologisti, in una lettera in cui si preoccupa che Macron decida su «chi» prima di aver discusso con le forze politiche sul «cosa» e sul «come». Nell’area Macron pero’ molti spingono per una scelta veloce del nuovo primo ministro, per evitare vuoti pericolosi, prima di tutto per il presidente stesso e per il rischio che la Francia si ritrovi senza una finanziaria per il 2025, in balia di leggi-tampone per evitare paralisi (anche se non c’è il rischio di uno shutdown alla statunitense), per le conseguenze sulla vita dei cittadini (dalle tasse all’erogazione dei servizi pubblici) e più in generale per i danni dell’incertezza sull’economia.

Dagli ex ministri verdi Cécile Duflot e Yannick Jadot fino al senatore Pcf Ian Brossat e a Raphaël Glucksmann, europarlamentare di Place Publique c’è insistenza per allargare la base di riferimento politico di un nuovo governo, per costruire un «fronte repubblicano» con un primo ministro di sinistra, nel rispetto del risultato elettorale di luglio, su un programma ecologico e sociale, nel rispetto di una «logica parlamentare». Il Ps ha proposto un patto di «non censura». Per La France Insoumise è «un’illusione» destinata a portare a «un’impasse»: restano fermi nell’idea di un governo di sinistra che segua il proprio programma e che, caso per caso, cerchi intese in parlamento (è già successo, molte leggi nei precedenti governi sono passate con accordi tra gruppi, malgrado i governi senza maggioranza). Sul Nfp, che ha tenuto finora anche per la «censura», pesa il rischio di uno sfilacciamento progressivo.

C’è un fatto: l’Assemblée Nationale è divisa in tre blocchi e la situazione non cambierà fino alle prossime elezioni anticipate, che non potranno però essere convocate dal presidente prima del prossimo luglio, cosa che porta il voto a settembre 2025 (ci vuole un anno tra uno scrutinio e il successivo). Ci sarebbe un modo per aggirare questa regola: le dimissioni concomitanti di tutti i deputati, che implicherebbe 577 elezioni suppletive, ma siamo più su una politica-finzione che nella realtà.

UNA DELLE LEZIONI della crisi è che l’estrema destra non è affidabile. Barnier non ha creduto fino all’ultimo momento che Marine Le Pen decretasse la sua fine. Il primo abbozzo di un’alleanza delle destre, delineato dal governo Barnier, è fallito in Francia. Dentro il Rn sta esplodendo una battaglia che potrebbe diventare sanguinosa e visibile, tra chi si compiace nella «strategia della cravatta» della conquista di una rispettabilità di facciata e le derive radicali e populiste più marcate, anche solo spinte dal tornaconto di Marine Le Pen, per salvarsi dalla sentenza sui furti al parlamento europeo che arriverà il 31 marzo prossimo.

Un primo effetto della crisi è l’indebolimento della Francia nella Ue. La presidente della Commissione ha confermato ieri che sarà presente sabato alla cerimonia di riapertura di Notre-Dame. Ma Ursula von der Leyen oggi potrebbe firmare in Uruguay l’accordo Ue-Mercosur, che la Francia rigetta, mentre Germania e Spagna premono per la conclusione dopo 25 anni di trattative. Ancora ieri, Macron ha ripetuto che «allo stato attuale è inaccettabile», per le conseguenze sull’agricoltura.

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Bombe, carestia, famiglie distrutte. A Gaza City, nel nord devastato della Striscia, non è rimasto più nulla. Ma per Israele le accuse ribadite dall’ultimo rapporto di Amnesty sono «fantasie»

Reportage Bombe, carestia, distruzione totale e non solo materiale della società. La morte è ovunque nel nord della Striscia. «Siamo pieni di tutto quello che manca». Non è rimasto più nulla, questa è la vera guerra. E si muore all'improvviso. Anche di sfinimento. Di paura. Con i cuori spezzati. Dalle macerie di un palazzo appena colpito viene estratta una bambina di nove o dieci anni, coperta di polvere. Chiede in arabo: «Mi state portando al cimitero?»

Sopravvivere al genocidio a Gaza City L'area dello Shifa Hospital a Gaza City dopo il passaggio dell'esercito israeliano nell'aprile 2024 – Ap

Le immagini ripetitive, che appaiono sul cellulare come pugni nello stomaco, sono quelle di mappe con aree delineate da tossiche linee gialle e con icone, simboli e indicazioni relativi ad accessi o restrizioni. Significa che devi lasciare per l’ennesima volta quello che hai re-identificato e re-definito per decine di volte come casa. Che casa non è. Sono solo tende o rifugi temporanei da cui ci si sposta come atomi impazziti. La propria casa già non c’è più da tanto.

Mentre gli ordini di evacuazione da parte dell’esercito israeliano gettano migliaia di persone sulle strade, i carretti arrangiati con ferro, legno e ruote di macchine, trainati da asini, rappresentano uno dei pochi mezzi di fuga. Tutti stipati come sardine, per pochi spiccioli, ci si sposta da un posto all’altro, senza una vera meta.  «Il mio asino è morto a Gaza City colpito da una scheggia – ci dice Abdel -. Oggi un asino è più prezioso dell’oro».

Affamati, stremati e costretti a spostarsi sotto i proiettili. Strade sfigurate ed edifici sventrati che rendono irriconoscibili interi villaggi. Questi i ripetuti massacri nel nord della Striscia di Gaza che non smettono di colpire i discendenti dei profughi della Nakba.


Anche le rovine di quello che era lo Yarmouk Sports Stadium offrono un rifugio precario a Gaza City (foto Ap)

SCORRONO IMMAGINI di esseri umani che barcollano sotto shock, coperti dalla polvere di quelle che un tempo erano le loro case. E una cosa è chiara: le persone che pagano il prezzo della guerra sono i palestinesi.

A Gaza, dove non c’è distinzione tra un

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