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La maggioranza si spacca sul decreto fiscale. Lo scontro a tutto campo tra Tajani e Salvini precipita sul contributo per la Rai: Forza Italia vota con le opposizioni e il governo va sotto. La sostituzione di Fitto scatena gli appetiti. Meloni furiosa minaccia il ritorno alle urne

Attenti al canone La contesa tra Forza Italia e Lega si mostra sulla Rai e investe gli equilibri nella maggioranza. La premier arriva a minacciare le elezioni

Destra divisa, Meloni furiosa Giorgia Meloni tra Matteo Salvini e Antonio Tajani – Ansa

La destra si divide in commissione bilancio al senato sul decreto fiscale che andrà domani in aula con la fiducia. Questa vicenda è la punta dell’iceberg di tensioni più profonde che rischiano di aggravarsi. Il governo, è la sintesi del senatore leghista Claudio Borghi, aveva dato l’ok per un taglio al canone «di 20 euro per 20 milioni di abbonati, tra cui milioni di famiglie povere». Ma al momento del voto Forza Italia si è schierata con le opposizioni e l’emendamento è stato bocciato per due voti.

GLI AZZURRI si oppongono da tempo alle spinte di Salvini, che ha scritto nel suo programma elettorale di voler ridurre il canone e che vuole perseguire il disegno fino a compensare con la fiscalità generale o alzando il tetto della raccolta pubblicitaria. Cosa che inquieta molto la famiglia Berlusconi, anche se ieri il leader di Fi Antonio Tajani, rivendicando la sua contrarietà alla proposta leghista, ha rigettato con sdegno le illazioni circa le interferenze della famiglia del fondatore sulle linee programmatiche del partito.

DA PALAZZO CHIGI sottolineano che «l’inciampo della maggioranza sul tema del taglio del canone Rai non giova a nessuno» ma ripetono il refrain: «Il governo è fortemente impegnato nel sostegno a famiglie e imprese, operando sempre in un quadro di credibilità e serietà». La verità è che Giorgia Meloni viene descritta come fuori di sé: accusa Tajani di non aver rispettato il «patto dell’apericena» stretto il giorno prima, in base al quale il suo partito si sarebbe dovuto astenere sul canone. A quel punto la partita sull’emendamento sarebbe finita dieci a dieci ma la destra avrebbe prevalso con una piccola forzatura: si sarebbe avvalsa del voto del presidente della commissione, il meloniano Nicola Calandrini. Era sul luogo del delitto Dario Damiani, senatore di Forza Italia: «Non c’è nessuna prova di forza – giura Damiani – Avevamo detto che l’emendamento era divisivo e abbiamo votato di conseguenza. Dopodiché abbiamo votato tutti gli emendamenti». Alla rabbia della presidente del consiglio bisogna aggiungere un altro ingrediente: l’Italia sulla tregua in Libano, nonostante il ruolo del contingente tricolore in Unifil, non ha toccato palla. Il che si ripercuote sui rapporti con Tajani in quanto ministro degli esteri.

DA FI, PERALTRO, fanno sapere in tutti i modi che si considerano la seconda forza della maggioranza. E che, in altre parole, gli equilibri su cui si fondava il governo sono ormai

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Il Conte 2 Dopo la richiesta di Grillo si riaprono le urne digitali. Il leader riunisce il Consiglio nazionale M5S. In attesa delle mosse del garante

Giuseppe Conte Giuseppe Conte – Roberto Monaldo /LaPresse

Se qualcuno avesse previsto un esito del genere, probabilmente sarebbe stato accusato di voler trarre troppo facilmente una morale dalla storia paradossale del Movimento 5 Stelle. Così, la forza politica che da voti online, rotture, espulsioni, proclami sulla democrazia diretta ha tratto forza, rimane ingarbugliata nella sua stessa storia. E quando, proprio con una consultazione digitale, l’assemblea virtuale degli iscritti ha deciso a maggioranza schiacciante, con tanto di urla di giubilo all’annuncio del risultato, di cancellare con un tratto di penna il ruolo del garante, oltre che fondatore ed elevato (sic), quest’ultimo si è appigliato all’ultima prerogativa chiedendo che le votazioni si ripetano.

Così, le urne digitali, gestite dalla piattaforma Skyvote, riapriranno dal 5 all’8 dicembre prossimi. Tutti gli iscritti al M5S da almeno sei mesi potranno esprimersi soltanto sui quesiti che riguardano la modifica dello statuto, cioè quelli sui poteri del garante, del presidente, sul nome e sul simbolo e sulla composizione dei collegi dei probiviri e dei garanti. Conte aveva incassato il risultato dell’assemblea costituente ma si attendeva la richiesta di Grillo. Ieri ha convocato la war room del Consiglio nazionale, organismo che raccoglie i capigruppo parlamentari, i responsabili territoriali e tematici, i vicepresidenti, il capodelegazione in Ue e la presidente di Regione Alessandra Todde. Qui ha fatto il punto della situazione, ha indetto le nuove consultazioni e ha incassato il voto all’unanimità dei convenuti. Poi si è confrontato con i parlamentari, anche qui trovando largo appoggio. Da molti eletti e gruppi territoriali è partita la campagna all’insegna dell’hashtag #iorivoto.

Dall’altra parte, l’unico che continua a prendere parola è Danilo Toninelli, che ha invitato i filo-Grillo a restare iscritti al M5S per far pesare la loro astensione. Si fanno da tempo i nomi di Alessandro Di Battista, Virginia Raggi e altri esponenti del M5S delle origini che sarebbero pronti a sostenere Grillo. Ma non c’è niente di concreto, perché il duello ha assunto il carattere della sfida personale del fondatore che rivendica il diritto all’estinzione del M5S. A questo punto, dunque, bisognerà vedere che tipo di mosse farà Grillo, per provare a giocarsi la sfida e bilanciare la mobilitazione lanciata dai vertici del M5S e dalla stragrande maggioranza degli eletti.

Da via Campo Marzio si insiste sul fatto che l’Avvocato avrebbe avuto anche i margini legali per contestare la richiesta della ripetizione del voto. Ma che ha scelto di acconsentire, per evitare di finire nelle secche estenuanti della battaglia in tribunale e risolvere la questione una volta per tutte.

Intanto, prosegue la discussione politica dentro le forze alternative alla destra. Ieri il segretario di +Europa Riccardo Magi ha polemizzato sul posizionamento da «progressisti indipendenti» del M5S in particolare sull’immigrazione. «L’espressione ‘taxi del mare’ fu coniata dai 5 stelle – ha detto Magi a Repubblica – E non dimentichiamo i decreti sicurezza giallo-verdi. Il Movimento 5 Stelle ha invitato alla sua Costituente la leader tedesca del partito di ‘sinistra conservatrice’ (così si autodefinisce) Sahra Wagenknecht che sul fenomeno migratorio dice né più né meno quello che dicono Meloni e Salvini. Noi invece siamo convinti che al tema dell’immigrazione si risponda con proposte concrete e lungimiranti a partire dalla riforma della Bossi-Fini e dalla questione della cittadinanza». Conte sull’immigrazione glissa, o continua a riferirsi a non meglio definiti allarmi sulla «accoglienza indiscriminata». Ma questo è uno dei temi di scontro con la destra. E sarà difficile restare a lungo ambigui.

 

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Unione Europea Gruppo ecologista spaccato, defezioni tra socialisti e liberali. Oggi a Strasburgo il voto per la nuova Commissione Ue

Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni - Ansa Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni – Ansa

Rischia di fermarsi sotto la soglia dei 401, con cui von der Leyen è stata eletta a luglio dall’Europarlamento, il voto finale sul collegio dei commissari guidato dalla presidente tedesca. Molte le defezioni all’interno di tutti i gruppi parlamentari che la sostengono, in particolare a sinistra. Il voto si terrà a mezzogiorno nell’emiciclo del Parlamento europeo a Strasburgo. Sarà palese e per appello nominale, tanto da rendere impossibili le sorprese in aula e costringe invece le famiglie politiche a giocare a carte scoperte.

I NODI DEL PROSSIMO ciclo politico sono tutti sul tavolo. E consegnano una maggioranza litigiosa e dai confini incerti, nonostante i tentativi di ricompattaela. Quando il leader Ppe Manfred Weber si proclama soddisfatto per aver compiuto il disegno di un orizzonte largo «dai Verdi a Ecr», viene subito stoppato da socialisti (S&D) e liberali (Renew) che ribadiscono come i Conservatori non sono in maggioranza né può esserci con loro alcuna «cooperazione strutturata». Eppure, FdI darà la sua benedizione, ovviamente nel nome di Fitto e della realpolitik europea.

Di sicuro la coalizione Ursula bis, ovvero Ppe-S&D-Renew, appoggiata dai Verdi ha tremato potentemente di fronte all’opzione (realizzata nei fatti) dell’allargamento a destra. Nelle audizioni per i singoli commissari e in vista del voto di oggi sull’intero esecutivo, il plenipotenziario Ppe Manfred Weber e sponsor dell’accordo con Ecr, sembra aver agito più come avversario interno che come alleato di Ursula. Per questo la presidente della Commissione è tornata a tessere in prima persona la tela delle alleanze. Lo ha fatto riproponendo come base di partenza il patto pro-Europa, facendo breccia sul lato più sofferente: i Verdi.

Il corteggiamento verso la famiglia ecologista si è concretizzato con l’annuncio della scelta dell’ex leader Philippe Lamberts a consigliere di von der Leyen per il Green deal. «I negoziati per la sua nomina erano in corso da tempo e non hanno nulla a che fare con la nostra decisione», si è giustificata la co-capogruppo dei Greens Terry Reintke. Ma la tempistica dell’annuncio, a poche ore dal voto finale di conferma, lascia pochi dubbi.

LA LEADERSHIP DEI VERDI si è fatta convincere da von der Leyen e dalle sue rassicurazioni sul perimetro europeista. Reinke è arrivata a concedere che la scelta del ruolo di Fitto è stata operata «nella logica del Consiglio», ovvero quella delle alleanze tra stati, dove von der Leyen ha bisogno dell’appoggio del governo italiano. O ancora, che le nomine dei vicepresidenti sono state fatte nell’ottica di redistribuzione geografica tra i grandi paesi, dove Germania, Francia e Spagna sono presenti. Altra cosa, ragionano i Greens il percorso parlamentare nei prossimi cinque anni di legislatura. «Negozieremo su qualsiasi cosa la Commissione proporrà, dalla sicurezza interna alla migrazione, dalla giustizia sociale al Green deal», assicura Reintke in evidente affanno.

Però il gruppo dei Greens è sostanzialmente spaccato. La componente italiana è stata la prima ad annunciare voto contrario. Ieri si sono aggiunti i francesi di Les écologistes, seguiti dalle delegazioni di Spagna, Belgio e Croazia. Se infine si sommassero anche gli svedesi, i no potrebbero arrivare alla metà dell’intero raggruppamento parlamentare.

MENO VERTICALE ma comunque importante la frattura che attraversa il gruppo S&D. Digerito l’annuncio del no da parte degli eurodeputati socialisti di Francia a Belgio, saranno i tedeschi a prendere posizione questa mattina, per ultimi, proprio a ridosso del voto. Fonti interne al gruppo S&D anticipano la possibilità di astensione, che nel caso specifico equivale a contrarietà, da parte della componente tedesca. «Alla fine un quarto dell’intero gruppo socialista potrebbe dire no a von der Leyen II», tira le somme un eurodeputato S&D.

Anche tra chi darà certamente il suo ok alla nuova Commissione, le sofferenze non mancano. I socialisti attendono un segnale chiaro dal discorso che la presidente terrà in aula questa mattina. «Dopo la scelta da noi osteggiata di dare una vicepresidenza della Commissione a Ecr, von der Leyen deve chiarire una volta per tutte il perimetro politico della sua presidenza riconfermando l’impianto di luglio», conferma l’eurodeputato Pd/S&D Brando Benifei. «Deve assicurare che su diritti sociali, Stato di Diritto, transizione ecologica e riforma dell’Unione l’agenda della Commissione non segnerà una svolta a destra», auspica. Il Pd, dilaniato dall’affaire Fitto, alla fine voterà a favore

 

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Oggi cessa il fuoco tra Israele e Hezbollah, ritorno alla risoluzione Onu 4mila morti dopo. Ma la vigilia è un inferno: pioggia di bombe su Beirut, la gente fugge dove può. Netanyahu si lascia le mani libere per il futuro e continua a colpire Gaza

Libano Il premier Netanyahu annuncia la fine dell’operazione sul Libano, ma si lascia le mani libere e nell’attesa fa martellare la capitale. La popolazione fugge dove può, pesanti raid a est. A sud si aspetta la rinascita della risoluzione 1701

La gente guarda la televisione mentre il Primo Ministro Benjamin Netanyahu annuncia un cessate il fuoco a Beirut, in Libano foto Ed Ram/Getty Images L’annuncio del cessate il fuoco di Netanyahu visto dal Libano – Ed Ram /Getty Images

«Stiamo cambiando il volto della regione», ha fieramente annunciato nell’attesissimo discorso di ieri sera il premier israeliano Benyamin Netanyahu. Il cessate il fuoco in Libano, dopo l’approvazione da parte del consiglio di sicurezza israeliano, dovrebbe essere effettivo dalle 10 libanesi di questa mattina, le 9 italiane. «Hezbollah non è più lo stesso. L’abbiamo rimandato indietro di una decina d’anni. Tre mesi fa sarebbe sembrata fantascienza, ma ce l’abbiamo fatta».

ISRAELE, con il beneplacito statunitense, si riserva «piena libertà militare in Libano», ha tenuto a specificare Netanyahu, che elenca i tre motivi per cui è giunto ad accettare un cessate il fuoco: «Il primo, dobbiamo focalizzarci sulla minaccia iraniana. Il secondo, dobbiamo semplicemente permettere alle truppe di riposarsi e dobbiamo acquisire nuove munizioni per proteggere i soldati. Il terzo è l’isolamento di Hamas». Il premier ha sottolineato l’importanza di concentrare le energie sul fronte interno dichiarando che il governo e l’esercito sono «impegnati a riportare tutti gli ostaggi da Gaza a casa. Siamo anche impegnati a raggiungere lo sradicamento di Hamas».

Sulla «minaccia iraniana», Netanyahu si è detto «determinato a fare tutto il possibile per impedire l’uso delle armi nucleari all’Iran. L’eliminazione di questa minaccia è l’obiettivo principale al fine di garantire la sopravvivenza dello stato di Israele». Il testo del cessate il fuoco – 13 punti – sancisce che Hezbollah e i gruppi armati affiliati che combattono nel sud del Libano non dovranno in alcun modo attaccare Israele e non dovranno riarmarsi. Israele si impegna in cambio a non attaccare «né per terra, né aria o mare» il Libano.

I DUE PAESI si dovranno impegnare a implementare la risoluzione Onu 1701 e riferiranno le violazioni alla forza di interposizione Unifil. Tutte le posizioni e gli armamenti non ufficiali saranno smantellati. L’esercito libanese, unica entità autorizzata a essere armata in Libano, sarà rafforzato nel sud e Israele si ritirerà gradualmente entro 60 giorni. Gli Stati uniti si occuperanno di gestire le trattative per stabilire un confine tra i due stati riconosciuto a livello internazionale.

In serata da Washington il presidente Biden ha chiuso i suoi quattro anni al potere celebrando la tregua, ribadendo il sostegno a Israele, ringraziando la Francia per il ruolo di co-negoziatore e ricordandosi per una volta del «popolo di Gaza che vive in un inferno»: Biden promette di riprendere il dialogo sulla Striscia e arriva a parlare di Stato palestinese. Eppure ieri si è perso il conto dei bombardamenti su Beirut e sul Libano. Solo alcuni annunciati, moltissimi no.

Dobbiamo focalizzarci sulla minaccia iraniana. Dobbiamo permettere alle truppe di riposarsi e acquisire nuove munizioni. E dobbiamo isolare HamasBenyamin Netanyahu

IL PRIMO MINISTRO libanese uscente Najib Mikati ha denunciato «l’aggressione israeliana isterica (di ieri sera) contro Beirut e diverse regioni del Libano» che ha «colpito in maniera particolare i civili, confermando ancora una volta che il nemico israeliano non rispetta nessuna legge». Nella capitale, in maniera proporzionale alle indiscrezioni su una tregua e al crescere delle speranze, è aumentato il numero dei bombardamenti dentro e fuori dalla

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Fusione a freddo La mossa del ceo Orcel per diventare il terzo gruppo europeo agita Salvini, che vuole le nozze tra l’istituto milanese e Mps

Unicredit punta a Banco Bpm. Lo stop di Giorgetti Milano, grattacielo Unicredit – LaPresse

L’offerta pubblica di scambio lanciata da Unicredit nei confronti di Banco-Bpm provoca un piccolo terremoto, più politico che economico-finanziario. La mossa del ceo di Unicredit, Andrea Orcel, risulta infatti subito indigesta alla Lega, che attraverso le recenti cessioni da parte del Mef di quote azionarie del Monte dei Paschi, acquisite in parte (5%) proprio da Banco Bpm, lavorava nemmeno troppo sottotraccia alla creazione di un terzo polo bancario italiano guidato dall’istituto milanese (Banco Bpm appunto), maggiore operatore nelle ricche regioni del nord Italia e con una forte base di clienti al dettaglio. Un progetto che sarebbe però vanificato dall’eventuale successo dell’operazione presentata da Orcel – che ha in parallelo escluso un interesse su Mps – e i cui effetti concreti saranno da verificare nel prossimo futuro.

ALLA IMMEDIATA REAZIONE di Salvini, che ha invocato addirittura l’intervento di Bankitalia («Mi sembra stravagante» la replica della responsabile economica dem, Maria Cecilia Guerra), si accompagna la presa di posizione di Giancarlo Giorgetti: «L’operazione è stata comunicata ma non concordata con il governo – ha detto gelido il ministro dell’Economia – e com’è noto esiste la golden power. Il governo farà le sue valutazioni, e valuterà attentamente quando Unicredit invierà la sua proposta per le autorizzazioni del caso».

DA GIORGETTI anche una digressione che rende l’idea del malcontento del governo: «Citando von Clausewitz, il modo più sicuro per perdere la guerra è impegnarsi su due fronti, poi chissà che magari questa volta questa regola non sarà vera». Un chiaro riferimento al tentativo di scalata lanciato a fine estate da Unicredit su Commerzbank. Un tentativo che però ha incontrato l’opposizione del governo di Berlino, tale da far puntualizzare a Orcel che l’operazione effettuata nel capitale di Commerzbank, di cui è stato rastrellato il 21%, va considerato «un importante investimento, con potenziale upside» ma che nei confronti della seconda banca tedesca, al momento, «non c’è una transazione, non c’è un deal, non c’è esecutività, solo un investimento effettuato». Parole di miele alle orecchie del nuovo ministro delle Finanze tedesco, Jörg Kukies, che ha detto di non credere a un’acquisizione ostile di Commerzbank: «Abbiamo un atteggiamento molto critico e il presidente di Unicredit ha detto che non vuole ignorare le critiche del governo federale. Pertanto suppongo che non lo farà».

AL CONTRARIO, l’offerta di pubblico scambio su Banco Bpm «è una transazione concreta». E nel motivare la mossa di Unicredit, che in caso di successo diventerebbe la terza banca europea e la prima italiana (e già oggi è il secondo istituto del paese con 60 miliardi di capitalizzazione) Orcel è esplicito: «Con questa acquisizione di uno dei nostri obiettivi storici, rafforziamo la posizione in Italia e incrementiamo ulteriormente il valore che possiamo creare per i nostri stakeholder e per i nostri azionisti».

PER GLI ANALISTI l’operazione Unicredit-Banco Bpm è sensata, anche se il prezzo – in caso di integrale adesione il valore dell’operazione sarebbe di 10,1 miliardi – è troppo basso. «L’integrazione presenterebbe una rilevante valenza industriale – annota Equita – con la possibilità di rafforzare il posizionamento nel nord Italia, fare scala sulle fabbriche prodotto, spazio per realizzazione di sinergie. Tuttavia il premio risulta limitato». Mentre per Mediobanca, che ieri ha alzato a 8,2 euro il target price di Banco Bpm nell’ipotesi di una fusione con Mps, la mossa di Unicredit «potrebbe avere lo scopo di evitare l’ulteriore crescita inorganica di Banco Bpm».

UNICREDIT presenterà alla Consob il documento di offerta per la totalità delle azioni di Banco Bpm entro 20 giorni, e al tempo stesso presenterà le comunicazioni necessarie sul controllo delle concentrazioni tra imprese, gli atti andranno anche alla presidenza del consiglio dei ministri in base al dl sulla golden power. A quel punto il governo dovrà valutare e, visto le parole di Giorgetti, potrebbe mettere alcuni paletti. Oggi un cda ordinario di Banco Bpm, già fissato da tempo, sarà l’occasione per portare una prima informativa anche sull’offerta pubblica di scambio di Unicredit.

 

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Violenza maschile La premier insegue Valditara e Salvini

La protesta di ieri delle donne a Montecitorio - Ansa 2 La protesta di ieri delle donne a Montecitorio – Ansa

«Chiamatemi razzista». Giorgia Meloni, prima presidente del consiglio donna d’Italia, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, non abbandona l’ardita tesi del suo ministro all’Istruzione Valditara ma la raddoppia. «Adesso verrò definita razzista, ma c’è una incidenza maggiore nei casi di violenza sessuale da parte di persone immigrate, soprattutto illegalmente, perché quando non hai niente si produce una degenerazione», ha dichiarato la premier in una intervista uscita su Donna Moderna. «C’è un lavoro qui che è soprattutto securitario, la dimensione culturale c’entra di meno – tenta di articolare la presidente del Consiglio -. Bisogna garantire la presenza delle forze dell’ordine e che quando qualcuno commette un reato paghi». Quella che a prima vista potrebbe sembrare l’ennesima gaffe anche rispetto alle parole del presidente della Repubblica («È superfluo sottolineare che non ci sono scuse accettabili a giustificazione della violenza di genere», aveva dichiarato ieri Mattarella) è invece segno di una precisa strategia. Finita la luna di miele con gli elettori e in difficoltà per la manovra e con gli alleati, Meloni ha necessità di sviare l’attenzione dal governo e non lasciare margini a Salvini. Il vicepremier e leader della Lega ieri mattina aveva pubblicato un elenco parziale e fazioso di alcune vittime di uomini di nazionalità non italiana allo scopo di evidenziare «le pericolose conseguenze di un’immigrazione incontrollata, proveniente da Paesi che non condividono i valori occidentali».

Nonostante qualsiasi ricerca smentisca gli assunti dei sovranisti, la maggioranza ha deciso compattamente di derubricare i femminicidi a problemi di ordine pubblico derivanti dalla presenza di migranti. Mentre sul resto delle politiche di genere si autopromuove: «La lotta alla violenza contro le donne è una priorità del governo, abbiamo aumentato i fondi per i centri anti-violenza e le case rifugio. Li abbiamo quasi raddoppiati, portandoli a livelli mai visti prima. Abbiamo reso strutturale il reddito di libertà, abbiamo investito in campagne di sensibilizzazione e promosso la conoscenza del 1522», come ha dichiarato Meloni durante il consiglio dei ministri. Eppure mentre la premier parlava, sotto palazzo Chigi si svolgeva un presidio, organizzato da Non Una di Meno e Lucha y Siesta, dei centri anti violenza che invece denunciavano «la violenza di Stato che minimizza gli effetti del patriarcato».

«Noi i dati li abbiamo e non dicono quello che dice Valditara ma non ce li chiedono – dice Anna di Differenza donna, che ha in gestione il 1522 – lo scorso anno si erano rivolte a noi 23 mila donne, nei primi 10 mesi di quest’anno sono già 22 mila. La premier legittima la violenza maschile per giustificare le sue politiche securitarie e mistifica i rapporti che invece ci dicono che le donne denunciano molto di più se sono state violate da uno straniero ma hanno molta più paura quando c’è di mezzo il bravo ragazzo bianco di potere».

E i processi in corso proprio in questi giorni per i casi Tramontano e Cecchettin in Italia e Pèlicot in Francia lo dimostano. «Il governo vuole spostare l’attenzione sull’immigrazione per un fenomeno che trova nel patriarcato la sua radice – scandisce Valeria al megafono in una piazza Montecitorio quasi completamente al buio per i lavori del Giubileo – Non esiste una legge valida, altrimenti l’avremmo proposta, ma la risposta non può essere solo repressiva e dovuta all’onda emotiva di stupri di gruppo, come a Caivano: usciamo dalla logica emergenziale, il patriarcato è strutturale».

La distanza tra il palazzo e la strada è evidente: mentre la ministra per la Famiglia Roccella e quella alle Riforme, Casellati, annunciavano un testo unico sulla violenza di genere da presentare entro l’8 marzo, le luchadores sotto Montecitorio scandivano cori contro La Russa, Meloni e Valditara e nel resto del Paese si tenevano cortei contro «i femminicidi di stato». A Genova, Milano, Torino, Bologna, Palermo scuole e università hanno dichiarato lo stato di agitazione nazionale. «Non c’è spazio per la negazione di ciò che è sotto gli occhi di tutti», ha commentato la segretaria del Pd Elly Schlein.

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