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Bruxelles Un doppio colpo alla strategia anti-Green deal dei cristiano-democratici europei, proprio nel giorno della prima riunione del «governo» von der Leyen II a Palazzo Berlaymont, mentre intorno allo smantellamento dell’ambizioso […]

Teresa Ribera - foto Philippe Buissin Teresa Ribera – foto Philippe Buissin

Un doppio colpo alla strategia anti-Green deal dei cristiano-democratici europei, proprio nel giorno della prima riunione del «governo» von der Leyen II a Palazzo Berlaymont, mentre intorno allo smantellamento dell’ambizioso programma ambientale europeo infuria la battaglia politica.

Protagonista, Teresa Ribera, commissaria alla «transizione pulita» indicata dal governo socialista di Madrid e fortemente avversata dalla componente spagnola del Ppe. Alla vigilia del primo collegio dei commissari, la vicepresidente esecutiva Ribera e numero 2 di fatto di Ursula von der Leyen aveva respinto con forza l’idea che esista un piano per ritardare il divieto di vendita di auto a diesel e benzina, previsto per il 2035. «Nessuno sta prendendo in considerazione la modifica delle scadenze», ha dichiarato recandosi in visita allo stabilimento Arcelor Mittal di Ghent, in Belgio.

Parole che stridono con quelle della presidente della Commissione. Dopo aver avocato a sé la gestione della crisi del settore, von der Leyen ha annunciato per l’inizio del 2025 l’avvio del «dialogo strategico», partendo proprio dall’ascolto dell’industria automotive. Il piano allo studio è quello di favorire i carburanti green e congelare già dal 2025 le sanzioni per le case automobilistiche che non si adeguano agli standard per raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero.

Perfino questo compromesso suona come una smentita delle posizioni politiche più oltranziste. Quella del Ppe, la prima famiglia politica europea a cui la stessa von der Leyen appartiene, che l’11 dicembre presenterà un «position paper» per chiedere di revocare il divieto dei motori a combustione a partire dal 2035. La «balena bianca» europea fa da cassa di risonanza alle pressioni da parte della potente industria automobilistica europea, ma non è da meno il governo Meloni, che con il ministro Urso ha proposto in sede di Consiglio Ue un documento per anticipare la revisione della norma sui motori dal ‘26 al prossimo anno. Una iniziativa appoggiata da diversi paesi (Austria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania e Slovacchia) ma non dai big Spagna, Francia e Germania. E se da un lato la Commissione Ue ha aperto a carburanti alternativi come gli e-fuel, come suggerito da Berlino, non sembra intenzionata al momento a concedere quella «neutralità tecnologica» che tanto interessa a Roma e ai suoi alleati. Anche perché lo scopo evidente della strategia italiana è quello di indebolire la prospettiva dell’elettrico.

Sorte diversa per un altro pilastro del Green Deal, ovvero l’importante norma sulla Deforestazione, che sembra invece salvo, almeno al momento. Le tre istituzioni legislative europee (Commissione, Parlamento e Consiglio Ue) si sono riunite per stabilire che l’entrata in vigore del provvedimento slitterà sì di un anno, come già convenuto, però non sarà modificato nella sostanza. Quello di snaturarlo era l’intento di Ppe e destre, che poche settimane fa avevano votato insieme delle modifiche sostanziali al regolamento, che l’avrebbero reso di fatto inefficace. D’altronde, tra le leggi più avanzate di tutela ambientale approvate dall’Ue e non del tutto martoriate dai compromessi (come invece quella sugli imballaggi) ci sono la direttiva sull’Etica d’impresa per la sostenibilità o la cosiddetta direttiva Casa green. Difficile pensare che il Ppe e le destre europee, che già hanno votato insieme diverse volte, non le abbiano già messe nel mirino della loro prossima battaglia. Per provare a demolire il Green deal pezzo dopo pezzo.