La Siria è sull’orlo del cambio di regime. Le milizie jihadiste, con l’appoggio ora esplicito della Turchia, arrivano a Homs e avanzano verso la capitale, ultima roccaforte di Assad. Iraniani e russi non li fermano. Gli sfollati sono centinaia di migliaia, i profughi saranno milioni
Sulla via di Damasco Il presidente turco ieri ha confermato che la meta dell’offensiva jihadista in Siria sostenuta dalla Turchia è rovesciare Bashar Assad
Jihadisti festeggiano per le strade di Hama – Ansa
Recep Tayyip Erdogan, grande architetto dell’attacco dei jihadisti sunniti in Siria, ieri è uscito allo scoperto proclamando il suo pieno sostegno all’offensiva che in una settimana ha preso Aleppo e Hama e che presto potrebbe conquistare anche Homs. «Dopo Idlib, Hama e Homs l’obiettivo sarà Damasco. La marcia delle forze di opposizione va avanti. Speriamo che continui senza problemi», si è augurato presidente turco, parlando con i giornalisti a Istanbul. Ha aggiunto di aver «lanciato un appello» al presidente siriano Bashar Assad. «Abbiamo detto, forza, determiniamo assieme il futuro della Siria. Purtroppo, non abbiamo ricevuto una risposta positiva», ha riferito. A questo punto, con le forze armate siriane a pezzi e Damasco ormai nel mirino dei jihadisti, oggi a Doha il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan incontrerà i colleghi russo e iraniano, Serghej Lavrov e Abbas Araghchi, per dettare, con ogni probabilità, le condizioni della resa di Assad. Potrebbe apparire esagerato, o prematuro, non è così.
LE TRUPPE governative, infatti, si raccolgono a difesa solo di Damasco, mentre le ong e agenzie dell’Onu rimandano a casa il personale non essenziale. Non è chiaro cosa farà l’Italia, unico paese dell’Ue con un ambasciatore a Damasco. Gli sfollati della nuova guerra sono già 370mila, un numero destinato ad aumentare. Già si intravede l’esodo della comunità cristiana, una delle più antiche del Medio oriente se i jihadisti prenderanno la capitale. L’esercito siriano ieri ha abbandonato anche Deir Ezzor, nella Siria orientale. Il suo posto è stato preso immediatamente dalle milizie curde Sdf che hanno poi spiegato di essere intervenute per garantire protezione alla popolazione della città e dei centri vicini, di fronte al riemergere dell’Isis in quella zona. Con il crollo dell’esercito siriano, cellule dello Stato islamico, combattuto in passato soprattutto dai curdi, sono prontamente riapparse nella Valle dell’Eufrate e sulla strada tra Homs e Palmira. I leader dell’autonomia curda nel nord-est della Siria hanno capito che le forze governative sono come neve al sole e che, pertanto, presto le Sdf dovranno di nuovo fare i conti con l’Isis e confrontarsi con i miliziani di Hay’at Tahrir al Sham (Hts, l’ex braccio siriano di Al Qaeda), armati e finanziati dal nemico Erdogan e alla guida dell’offensiva cominciata a fine novembre. Sanno che l’appoggio che ricevono dagli Usa non servirà a molto se Ankara deciderà di attaccare militarmente l’Autonomia curda nord-est della Siria. Lo scontro con Hts perciò è possibile.
NESSUNO CREDE che i jihadisti lasceranno ai curdi
il controllo dei giacimenti di petrolio e gas nella Siria orientale come è avvenuto sino ad oggi con la benedizione di Washington. Il cosiddetto Esercito nazionale siriano, una milizia mercenaria islamista agli ordini della Turchia, già preme sull’Autonomia curda. Mazloum Abdi, leader delle Sdf, ha parlato di «una nuova realtà politica e militare» e ha fatto sapere di volere «una de-escalation con Hts e altre parti e risolvere i problemi attraverso il dialogo». Un tono conciliante che forse non troverà interlocutori. Intanto nel sud della Siria, forze antigovernative non meglio precisate e, pare, anche milizie dell’Isis, hanno preso il controllo di Deraa (la città nel 2011 teatro di proteste popolari contro Assad), della città drusa di Suwayda e del valico di confine con la Giordania.
IN SIRIA chi si oppone ad Hts e al suo comandante Abu Mohammad Al Julani – ieri intervistato dalla Cnn, ha confermato che l’obiettivo è di rovesciare il regime di Bashar Assad «con tutti i mezzi disponibili» – guarda con sgomento alla mancanza di azioni significative da parte degli storici alleati iraniani e iracheni, mentre la Russia pur fornendo un importante appoggio dal cielo non vuole o non può offrire un aiuto maggiore militare. Certo, Teheran ribadisce che continuerà a sostenere la Siria «con tutto ciò che è necessario» e promette di inviare missili e droni e di aumentare il numero dei suoi consiglieri nel paese. Allo stesso tempo non preme sulle Forze di Mobilitazione Popolare irachene (Hashd al Shaabi), la coalizione di milizie sciite irachene filo-iraniane, affinché mandino uomini e mezzi a combattere in Siria. Al Fayyad, il capo delle Hashd al Shaabi, detto ieri a Baghdad che quanto sta accadendo in Siria «è una questione interna». Al momento solo 200 sciiti iracheni sono entrati in Siria.
MOLTO in queste ore è legato al destino di Homs e alle residue capacità di ciò che resta delle forze governative, aiutate da Mosca che non vuole perdere le strategiche basi navali ed aeree che mantiene sulla costa siriana. Gli unici combattenti ben addestrati che potrebbero concretamente aiutare Assad sono quelli di Hezbollah. Il movimento sciita libanese sa che la caduta di Homs e la conquista da parte di Hts della vicina cittadina di Qusair, al confine tra Siria e Libano, chiuderebbe la sua principale via d’accesso alla Siria e ai rifornimenti di armi dall’est. Per questo Hezbollah ha inviato forze di élite a Homs dopo l’arrivo a 1 km di avanguardie jihadiste. Troppo poco, ma il suo leader Naim Qassem è stato vago su un coinvolgimento pieno di Hezbollah nella guerra civile siriana come era avvenuto negli anni passati. Il gruppo sciita ha subito perdite pesanti negli attacchi di Israele in Libano del sud e deve riorganizzarsi. Senza dimenticare che il cessate il fuoco con Tel Aviv è solo di 60 giorni e che la guerra potrebbe riprendere se nel frattempo non si raggiungeranno intese più ampie