Assalto finale alla diligenza e ultimi emendamenti, la fiducia sarà votata entro venerdì prossimo. Nel valzer dell'ultim'ora degli emendamenti spunta un ripensamento dei sussidi sulla povertà: sarà allargata la platea, e un parziale rifinanziamento del taglio del fondo per l'automotive (800 milioni su 4,6 miliardi tagliati e dati ai militari). La logica resta sempre la stessa: quella classista
Venerdì prossimo la legge di bilancio sarà votata con la fiducia alla Camera. È arrivato il momento dell’assalto alla diligenza. Un classico che si ripete come il Natale, il freddo di inverno e il caldo d’estate. Si riscrivono emendamenti e si cercano coperture in un folle rincorrersi di voci e paradossali retromarce. Ieri le opposizioni hanno criticato la trasparenza del processo, la gestione dei tempi, la mancata copertura degli emendamenti e l’approssimazione della maggioranza.
IN UN PULVISCOLO di misure concepite per lo più nell’interesse di corporazioni, gruppi d’interesse e clientele elettorali si può stare certi che non verrà meno l’impianto della manovra: recessivo, iniquo e guidato dal patto di stabilità europeo che ha imposto l’austerità fatta di tagli ai ministeri e agli enti locali (12 miliardi). Non ci si sofferma su questo problema politico, che preannuncia sette anni duri di austerità, ma tutt’al più sul rinvio di un paio di giorni dell’approdo della manovra a Montecitorio e sull’ultimo pacchetto degli emendamenti presentati ieri in serata. Il risultato è rendere incomprensibile la legge di bilancio, già ridotta a un esercizio ragionieristico dalla governance europea. Non è solo così.
NELLA COMMEDIA degli emendamenti che vanno e vengono dalla commissione bilancio alla Camera, tra quelli annunciati e quelli riscritti, si può alla fine trovare una logica politica inversamente proporzionale. C’è il super-aumento degli stipendi dei ministri «tecnici» equiparati a quelli eletti da oltre 7 mila euro al mese e l’elemosina da 1 euro e 80 al mese ai pensionati minimi. I ministri beneficiati sono sette: Abodi, Calderone, Giuli, Locatelli, Piantedosi, Schillaci, Valditara. Quello alla Difesa Crosetto ieri ha detto: «Sono d’accordo con la misura, ma meglio rinviarla al prossimo governo». In effetti, potrebbe essere una soluzione per non evitare di fare pesare troppo l’arroganza della decisione e la sua inopportunità politica in un momento come questo. Tuttavia altri ministri (Abodi, o Tajani) non hanno avuto ragioni per sindacare sul premio natalizio. Per la precisione prenderanno 3.503,11 euro in più rispetto alla diaria e altri 3.690 euro di rimborsi per l’esercizio del mandato. A questi si aggiungono rimborsi per viaggi e spese telefoniche per 1.200 euro.
MA IL RAGIONAMENTO a partire dalla manovra è necessariamente più ampio e di sistema. Per esempio alle imprese che hanno visto un aumento dei profitti senza precedenti, e che non hanno licenziato nel frattempo, andranno 400 milioni di euro in più di «Ires premiale» presi da un contributo aggiuntivo che sarà chiesto alle banche e assicurazioni (oltre 3 miliardi, per le prime è un prestito che sarà restituito tra due anni). Questi soldi si aggiungeranno ai 55,2 miliardi di benefici fiscali ricevuti dalle imprese nel 2023 ai quali vanno aggiunti i ricchi premi garantiti dal Pnrr.
ALLO STESSO TEMPO, i lavoratori dipendenti e pensionati pagheranno, a causa del drenaggio discale, un maggior gettito Irpef di ben 17 miliardi nel 2024. Non solo: la misura più costosa della manovra voluta dal governo Meloni, cioè il «taglio del cuneo fiscale», userà 10 miliardi di questo gettito in una «partita di giro» per darli al «ceto medio». Con il passaggio dalla decontribuzione alla fiscalizzazione avvenuto quest’anno, questo taglio evocato dal governo come un colpo di genio produrrà l’effetto opposto. La stragrande maggioranza dei lavoratori con redditi fino a 25 mila euro e poi quelli dai 26 mila ai 35 mila non solo non vedrà 1 euro in più in busta paga, ma perderà fino a 200 euro annui sotto i 35 mila, con perdite anche di oltre mille euro in alcune fasce. Chi ha un reddito dai 35.500 euro in su guadagnerà invece 79 euro lordi. Come si chiama questa? Logica classista. La stessa che ispira l’aumento delle spese militari (33 miliardi, 13 solo alle armi ha scritto il rapporto MIL€X). Però non si trovano i soldi per recuperare l’inflazione cumulata negli ultimi anni e dare aumenti di salari degni a chi aspetta il rinnovo del contratto.
TRA LE ULTIME NOVITÀ emerse al mercato degli emendamenti abbiamo già segnalato l’aumento dei pedaggi autostradali (+1,8%). L’aumento è uno di quelli concepiti per fare cassa e rastrellare risorse di cui il governo è a corto. Ma, sommato ai prezzi esagerati dei voli (quelli extraUe aumenteranno ora di 50 centesimi) e soprattutto quelli dell’Alta Velocità, si capisce che i «100 euro» promessi dal governo dal taglio del cuneo fiscale saranno già bruciati da un viaggio in treno o su una tratta stradale medio-lunga. Viaggiare in Italia, è cosa nota, è da benestanti. Costa troppo. Tutti gli altri stiano a casa. Più che altro è una conferma.
TRA LE RETROMARCE parziale segnaliamo quella sul rifinanziamento il fondo per l’automotive (800 milioni in 3 anni) dopo che il governo ha tagliato 4,6 miliardi per darli alla spesa militare. Si capisce che ha preso un granchio e cerca una soluzione insufficiente. E poi c’è l’ammissione del fallimento dell’assegno di inclusione e del supporto formazione lavoro. Un emendamento h esteso la platea (aumentando la soglia Isee da 9.360 a 10.140 euro e 6.000 a 6.500 euro) e l’importo del secondo da 350 a 500 euro mensili. Si vede che qualcuno si è accorto che i criteri oggi sono troppo bassi e impediscono l’accesso a tali misure
Si riempiono le strade di Roma contro il disegno di legge sicurezza e il governo autoritario. È la prima grande manifestazione di opposizione sociale e politica. Arrivano in 100mila: lotte di base, partiti e movimenti. «È solo un debutto, non ci perderemo di vista»
Sicuramente No Il corteo contro il ddl sicurezza centra l’obiettivo. E rilancia: tre giorni di assemblea a gennaio
Il corteo di Roma contro il ddl sicurezza – Lapresse
Quando salta la catena che impedisce al camion che apre il corteo di entrare in piazza del Popolo e ci si rende conto che la grande arena all’imbocco di via del Corso illuminato a Natale è destinata davvero a riempirsi, si capisce che la missione è davvero compiuta. Basta un colpo d’occhio per riconoscere l’importanza di una giornata che molti aspettavano da troppi anni, da tutto il tempo che è passato affinché un corteo nato autoconvocato, dal basso, dei movimenti, trascinasse con sé decine migliaia di persone, tutti i partiti dell’opposizione e uno schieramento largo e plurale.
I PRIMI a strabuzzare gli occhi sono gli adolescenti, che non avevano mai assistito a una scena del genere. Ma quando il serpentone si dipana lungo via Regina Margherita, strada larga e rettilinea, e la gente di dispone fitta si scambiano qualche sguardo di incredulità anche quelli che hanno qualche anno in più di esperienza. «Siamo centomila!» è l’urlo liberatorio che comincia a circolare quando il fiume di gente ridiscende dai Parioli verso le mura aureliane.
SI PARTE, come da programma, alle 14 dal Verano. Già questa puntualità è una notizia, perché non c’è bisogno di aspettare che la piazza del concentramento sia sufficientemente gremita. L’altra notizia, dopo ore di pioggia a diritto e la capitale bloccata dalla tempesta perfetta del traffico prenatalizio, dello sciopero del venerdì e del maltempo, è che spunta il sole. E allora il convoglio dei manifestanti si può muovere. Si procede a passo sostenuto, perché tutti sono consapevoli che li aspettano quasi quattro chilometri di marcia e dunque c’è poco tempo da perdere per arrivare a destinazione. In questo flusso rapido si susseguono gli studenti, l’Arci, i centri sociali del nordest e quelli di Napoli, i coltivatori di canapa. Al centro si dispongono gli operai della Gkn con il grande striscione «Insorgiamo». «Più ci criminalizzano e più dobbiamo stare appiccicati e appiccicate – spiegano – Questo ddl è qui per impedirci di trasformare la società con la lotta». Christopher Ceresi dei municipi sociali di Bologna la mette così, parlando dal camion: «Questa è la prima vera grande manifestazione di opposizione al governo Meloni».
POI I CENTRI sociali romani Esc, Casale Garibaldi, Communia e Acrobax che marciano dietro lo striscione «La vostra guerra è la nostra insicurezza». E la Cgil, che ha partecipato in modo
Commenta (0 Commenti)Palestina «Israele ci ha trasformato nei poliziotti di noi stessi». Le nuove vie della repressione: i palestinesi si censurano per paura, demoliscono le proprie case per non dover pagare i bulldozer di Israele, consegnano i figli in carcere. La storia del piccolo Ayham
Quando incontriamo Nawaf al-Salaymeh in un vecchio bar nella medina di Gerusalemme si capisce subito che non dorme da giorni. È passata una settimana da quando ha accompagnato suo figlio Ayham nella prigione israeliana di al-Moscobiyeh. La conoscono tutti, è il luogo obbligato di transito per buona parte dei palestinesi dopo l’arresto. Primi interrogatori, prime botte.
A metà mattina la vita nel bar si scalda. Anziani giocano a backgammon con accanto una tazzina in vetro piena di caffè al cardamomo. Gatti siedono soporiferi sulle sedie di plastica, uccellini cinguettano nelle gabbie appese alle finestre. Al cartello «vietato fumare» non fa caso nessuno. Da oltre un secolo parecchia della vita comunitaria di Gerusalemme passa per i bar di quartiere.
Nawaf al-Salaymeh ha 50 anni, vive con la famiglia nel quartiere di Ras al-Amud. Ha un lavoro da panettiere e sei figli, la kefiah avvolta sulla testa e la barba di qualche giorno. Dice che mai avrebbe pensato di diventare il carceriere di suo figlio.
AYHAM ha compiuto 14 anni il 10 giugno 2024, un paio di settimane dopo si è aperto il processo per lancio di pietre. A fine novembre è stato condannato a 12 mesi, il testo della sentenza era lunga 14 pagine.
Il primo dicembre, insieme ai fratelli di Ayham, Nawaf lo ha accompagnato in carcere: le foto li mostrano quasi sorridenti, a dargli un po’ di forza, lo sollevano in braccio, gli baciano la testa. Ayham è piccolo piccolo nella sua tuta nera dell’Adidas e il berretto di lana in testa.
Entrerà con addosso solo quelli: tutti i vestiti che Nawaf aveva portato sono stati rifiutati dalla prigione, non entra niente. La moglie non c’è: ha la carta d’identità della Cisgiordania, è vietato.
«È iniziato tutto il 17 maggio 2023, prima della guerra – racconta Nawaf – I soldati sono entrati nel quartiere e hanno invaso alcune case. I ragazzini hanno lanciato pietre. I miei figli Ayham e Ahmed e due cugini sono stati arrestati». All’epoca Ayham aveva ancora 12 anni e non è stato processato. Ahmed e i cugini, tutti maggiori di 14 anni, sì e sono stati condannati. Era il 30 luglio 2023. Alla fine di novembre sono stati liberati nello scambio tra Hamas e Israele, reato cancellato.
«Ayham è stato posto subito agli arresti domiciliari: troppo piccolo per essere processato. Hanno aspettato che ne compisse 14. È rimasto chiuso in casa per un anno e mezzo. Uno di noi genitori doveva sempre restare con lui a controllarlo, pena una multa da 10mila shekel o il carcere. Ci siamo sentiti i suoi poliziotti». Ci mostra la foto del figlio più grande, Osama, il giorno del suo matrimonio: «Ayham non è potuto venire, era ai domiciliari».
«DURANTE la prima Intifada, nel 1988, anche io sono stato arrestato, avevo 14 anni. Ma era diverso. Le carceri erano diverse. Ora sono davvero dei luoghi infernali. Non so nemmeno dove lo abbiano portato, se ha fame, se ha freddo. Ayham pesa 30 chili, come uscirà?».
Nawaf continua a giocherellare con il pacchetto di sigarette. «Negli anni Ottanta i miei genitori cercavano di tenermi a casa, noi ragazzini andavamo comunque a lanciare pietre. Oggi è lo stesso, ho provato in tutti i modi a fermarlo ma è inutile. Viviamo sotto una cappa di oppressione, i nostri figli ci vedono umiliati e picchiati per strada, costretti a mostrare di continuo le carte d’identità, vedono le nostre case demolite».
Oggi, secondo i dati delle organizzazioni di monitoraggio, sono almeno 270 i minori palestinesi prigionieri politici, parte degli attuali 11mila detenuti. E sono quasi mille i bambini arrestati dopo il 7 ottobre, su un totale di 12mila nuove detenzioni.
L’ong israeliana B’Tselem ha seguito il caso di Ayham, piuttosto esemplare: hanno atteso che compisse 14 anni per giudicarlo, anche se il “reato” era stato commesso quando ne aveva 12. Le cose sono destinate a peggiorare: a novembre la Knesset ha approvato una legge per processare come adulti i palestinesi da 12 anni d’età nel caso di reati di “terrorismo”.
«Arrestare bambini in questo modo è parte della più generale politica oppressiva israeliana a Gerusalemme est e in Cisgiordania», ha scritto B’Tselem. Una politica che si è inasprita negli ultimi 14 mesi: oggi Gerusalemme è la caserma di se stessa.
«Israele ci ha trasformato in secondini», dice Zakaria Odeh dal suo ufficio nel quartiere di Beit Hanina. Esponente della sinistra palestinese, è direttore esecutivo della Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem, una delle più note ong in città. La sede è a due passi dal muro, otto metri di altezza e cemento. A poca distanza c’è il checkpoint di Qalandiya che conduce a Ramallah.
IN QUEI POCHI metri quadrati l’occupazione mostra la sua natura apparentemente surreale, un’opera di ingegneria geografica e demografica: un pezzo di Beit Hanina è Area B della Cisgiordania, eppure sta al di qua del muro; al di là ci sono quartieri gerusalemiti, gli abitanti hanno la residenza a Gerusalemme ma per muoversi in città devono attraversare il checkpoint.
«Oggi a Gerusalemme vivono 380mila palestinesi, il 41% della popolazione totale – spiega Odeh – Abbiamo ampiamente superato l’equilibrio demografico che si era prefisso Israele: negli anni Ottanta aveva stabilito che a Gerusalemme non si sarebbe dovuto superare il 20% di popolazione palestinese, poi nel 2020 ha rivisto la percentuale al 30%. Per raggiungere l’obiettivo le autorità operano in maniera diversa: revoche di residenze, demolizioni, colonizzazione, divieto a costruire. Il problema di accesso alla casa è enorme: solo il 13% del territorio è ancora di proprietà privata palestinese, ma siamo tantissimi».
Lo stesso Zakaria vive in un limbo: alla morte del padre, ha ereditato l’abitazione di famiglia insieme ai due fratelli che però non sono residenti a Gerusalemme. «Lo Stato ha dichiarato due terzi della nostra casa proprietà statale, secondo la Legge degli Assenti».
Una legge vecchia quanto Israele, servita a impossessarsi “legalmente” delle proprietà dei rifugiati palestinesi. Tel Aviv la applica ancora oggi, ma non a tutti i suoi cittadini: solo ai palestinesi. A Gerusalemme, poi, la cittadinanza nemmeno ce l’hanno, solo permesso di residenza e status di apolide.
Si costruisce senza permesso («il 70% delle case di Gerusalemme est si stima siano illegali») in attesa degli ordini di demolizione. Dal 7 ottobre, un record: sono state demolite 255 strutture, di cui 182 case. Circa 2mila palestinesi sono rimasti senza tetto, tra loro 750 bambini. Di queste, 87 sono self-demolition: «Significa che i proprietari sono costretti a distruggere da soli per non pagare i costi del bulldozer statale. Quando si riceve un ordine di demolizione si viene puniti tre volte: si paga una multa, si pagano i costi della distruzione e si perde la casa. L’impatto psicologico è enorme. Ho visto bambini chiedere ai genitori perché stessero demolendo la loro casa, dire che non era colpa dell’autorità ma delle loro famiglie».
«SIAMO I POLIZIOTTI di noi stessi», continua a ripetere Odeh. Consegnando i figli in prigione, demolendosi la casa e censurandosi: «In 14 mesi a Gerusalemme si contano 3mila arresti politici, moltissimi per uso dei social media. Nei primi sei mesi c’è stato il picco, ai checkpoint o per strada la polizia controllava se sui telefoni ci fossero foto o post su Gaza, seguivano pestaggi o arresti. Poi i palestinesi hanno iniziato ad auto-controllarsi».
I post sui social si sono ridotti, i canali Telegram sono stati silenziati, si esce di casa senza telefono per evitare i controlli.
«Molti si chiedono perché Gerusalemme, una città esplosiva che è sempre stata una delle anime della resistenza, oggi non si mobiliti. Puoi prendere un anno di galera per un like. La gente è terrorizzata all’idea di finire in prigione. Sa cosa succede là dentro».
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Il caso Smacco al vicepremier e ministro dei trasporti che vuole rivedere norme e diritti dei lavoratori Il sindacato di base: «Il caos lo ha creato lui, ha vinto la democrazia»
La terza sezione del Tar del Lazio ha accolto il ricorso dell’Unione Sindacale di Base (Usb) e ha sospeso la precettazione disposta martedì scorso dal vicepremier ministro dei trasporti Matteo Salvini che ha cercato di ridurre da 24 a 4 ore lo sciopero generale indetto nel lavoro pubblico, nei trasporti locali, in quelli ferroviari e marittimi. Lo sciopero, già iniziato ieri alle 21, si terrà per tutta la giornata di oggi fino alle 21 nel rispetto delle fasce di garanzia. Stamattina alle 9,30 da Porta Venezia a Milano e da piazzale Tiburtino a Roma partiranno i cortei organizzati dal sindacato di base. Dallo sciopero è stato escluso il trasporto aereo perché domenica 15 dicembre Filt Cgil, Uiltrasporti, Rsu, Cub Trasporti e Ugl ne hanno indetto un altro.
DALL’ORDINANZA di Salvini «non sono emerse le ragioni che possano sorreggere la precettazione – ha scritto il Tar del Lazio – I disagi discendenti dallo sciopero appaiono riconducibili all’effetto fisiologico proprio di tale forma di astensione dal lavoro, né sono emerse le motivazioni in base alle quali i disagi eccederebbero tale carattere, tenuto conto della vincolante presenza di fasce orarie di garanzia».
SALVINI HA REAGITO attaccando i magistrati, contrapponendo i sindacati ai lavoratori e i diritti di questi ultimi a quelli dei cittadini. Il ministro ha inoltre confermato l’intenzione di rivedere la legge che regolamenta gli scioperi in maniera restrittiva. «Per l’ennesimo venerdì di caos e disagi, i cittadini potranno ringraziare un giudice del Tar del Lazio. Lo strumento dello sciopero è da rivedere per l’interesse dei lavoratori. Lo sciopero gli toglie un giorno di stipendio e il resto dei cittadini ci rimettono giornate di salute. Non penso sia utile andare avanti di scontro in scontro, di precettazione in precettazione. Il diritto allo sciopero è sacrosanto ma nega il diritto di vivere». Ad avviso di Salvini esercitare il diritto di sciopero il 13 dicembre, a una decina di giorni del Natale, è inaccettabile perché rischia di violare la sua idea di «cittadino-consumatore».
LA SITUAZIONE è stata descritta in termini completamente diversi da Guido Lutrario di Usb in una conferenza stampa convocata ieri pomeriggio: «Oggi non ci sarà il caos. Ci sarà uno sciopero generale e generalizzato, sarà una bella giornata per la democrazia. Il caos lo ha creato Salvini con una precettazione illegittima che ha scavalcato la Commissione di garanzia che non ha trovato alcuna ragione di irregolarità nella convocazione dello sciopero – ha detto Lutrario – Salvini dimostra di non conoscere la legge, visto che continua a violarla con le sue ordinanze».
«L’ATTACCO DI SALVINI al diritto di sciopero non va sottovalutato – ha continuato Lutrario – anche se lo scopo primario del ministro è quello di ritagliarsi un ruolo e una visibilità in un momento in cui calano i consensi della Lega e anche quelli suoi personali». Per il sindacato di base la legge che regolamenta gli scioperi va cambiata ma in tutt’altra direzione. «È una delle più restrittive d’Europa e impedisce agli scioperi di protrarsi oltre le 24 ore – ha spiegato Lutrario – Ciò obbliga ad una procedura tortuosa e complessa che rende difficile proclamare le agitazioni. E ha dato la possibilità ai padroni e ai governi in tutti questi anni nelle condizioni di poter privatizzare i servizi pubblici e precarizzare fortemente il lavoro. I servizi sono essenziali solo quando si tratta di limitare il diritto di sciopero, non lo sono quando vengono privatizzati o tagliati come avverrà con la prossima legge di bilancio. Lo sciopero denuncia questa situazione, oltre che la crisi dei salari e l’assenza di politiche industriali».
LO SMACCO subìto da Salvini non è nuovo. Lo ha ricordato l’avvocato Arturo Salerni nella conferenza stampa. «Una situazione simile si è data il 15 dicembre 20243 in occasione di un altro sciopero indetto anche da Usb – ha detto – Salvini precettò, ma il 28 marzo 2024 il Tar annullò l’ordinanza e condannò il suo ministero a pagare le spese legali. Quello di ieri è un provvedimento importante perché difende un pilastro della democrazia costituzionale». Di «figuraccia di un ministro incapace e screditato» ha parlato ieri Arturo Scotto (Pd). Per Angelo Bonelli (Avs) Salvini «dovrebbe pensare alle ferrovie che registrano ritardi e cancellazioni». Per Riccardo Magi (Più Europa) «è Salvini che si astiene dal suo lavoro».
IN EMILIA ROMAGNA oggi Filt Cgil, Uiltrasporti e Orsa hanno dichiarato 8 ore di sciopero a causa dell’incidente costato la vita ad un macchinista di Mercitalia Rail travolto sui binari della stazione di Rubiera, nel Reggiano. «Un altro morto sul lavoro, a poche ore dalla strage dell’Eni di Calenzano. bisogna attribuire le responsabilità a chi le ha» hanno Federico Leoni e Giuseppe Ranuccio (Filt Cgil). Solo nei primi 10 mesi del 2024 il sistema del lavoro ha ucciso 890 persone.
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Siria L’Aanes curda proclama l’appartenenza al popolo siriano. La Turchia non si lascia impressionare e ripete che non permetterà l’esistenza di una entità curda nel paese arabo
Bombardamenti in Siria – Archivio Ap
Nel Rojava curdo è stato issato il tricolore con le tre stelle sventolato dai jihadisti e oppositori di Bashar Assad che domenica hanno costretto alla fuga il presidente siriano. «Siamo parte della Siria unita e del popolo siriano», affermavano ieri le Forze democratiche siriane (Sdf), ombrello di gruppi armati curdi e filo-curdi nel nord-est della Siria. «Le regioni dell’Amministrazione Autonoma Democratica nel nord e nell’est della Siria (Aanes) – hanno proseguito le Sdf – sono parte integrante della geografia siriana e gli abitanti di queste regioni appartengono alle componenti autentiche del popolo siriano. Perciò il Consiglio dei Popoli Democratici ha deciso di issare la bandiera siriana sui consigli, istituzioni, amministrazioni e strutture appartenenti all’Amministrazione Autonoma in tutte le province della regione».
Una voglia di far parte della Siria che, si spera, spingerà la Aanes a condividere le risorse del territorio sotto il suo controllo, a cominciare dai giacimenti di petrolio che sfrutta unilateralmente con l’aiuto e la benedizione di Washington mentre da anni la popolazione siriana fa i conti con la penuria di carburante, non solo per la corruzione del regime di Assad. Ma la bandiera con le tre stelle sventola nel Rojava perché la Aanes proclamandosi «parte della Siria» e abbassando i toni sull’autonomia conta di dissuadere la Turchia dal lanciare nuove sanguinose operazioni militari contro le regioni curde. I segnali in quella direzione sono arrivati subito quando si è sgretolato il potere di Assad. I mercenari del sedicente Esercito nazionale siriano al servizio di Ankara si sono lanciati all’attacco e hanno già provocato lo sfollamento dall’area di Aleppo di circa 100mila civili che ora cercano aiuto e assistenza nel Rojava.
Anche ieri la Turchia ha ripetuto che non permetterà «ad elementi terroristici» di trarre vantaggio «dall’incertezza nella regione e di prendere di mira la sovranità e l’integrità territoriale della Siria, la nostra posizione è chiara e determinata nella lotta contro le organizzazioni terroristiche». Quando parla di terroristi, il regime di Recep Tayyip Erdogan non si riferisce ai qaedisti di Hay’at Tahrir al Sham e agli altri gruppi che, grazie alla sua protezione, hanno potuto crescere e rafforzarsi nella regione siriana di Idlib, bensì alle forze curde siriane. Il Segretario di stato uscente Antony Blinken ha programmato un incontro con l’omologo turco, Hakan Fidan – giunto ieri a Damasco in visita ufficiale, ha riferito Al Jazeera – volto proprio frenare le intenzioni turche contro gli alleati curdi, sottolineando il ruolo fondamentale che i combattenti delle Sdf hanno avuto e ancora hanno contro l’Isis che sta rialzando la testa nella Siria orientale.
Il fascino del «jihadista buono» Abu Mohammad Al Julani (Ahmad Sharaa), intanto ha già conquistato il G7 e l’Europa, incluso il ministro degli Esteri italiano Tajani, che già si dicono disponibili a collaborare con le nuove autorità siriane, perché «i primi segnali sono positivi». E Al Julani, che ha sospeso la Costituzione e il Parlamento per tre mesi, fa il possibile per affermare la sua presunta «svolta moderata e inclusiva» in linea. Il G7 ieri si è detto pronto a sostenere un processo di transizione in Siria che «conduca a un governo credibile, inclusivo e non settario, che garantisca il rispetto dello stato di diritto, dei diritti umani universali, compresi i diritti delle donne, la protezione di tutti i siriani, incluse le minoranze religiose ed etniche». I suoi uomini nell’Amministrazione delle Operazioni Militari ripetono che non ci saranno restrizioni o limitazioni per nessuno nella «nuova Siria» e le minoranze saranno rispettate. Ma il modo in cui Hts ha plasmato il nuovo governo ad interim, portando a Damasco alti dirigenti dalla lontana Idlib, ha causato non poche preoccupazioni tra i siriani, inclusi alcuni simpatizzanti dell’opposizione anti-Assad laica. Al Julani continua a parlare di sicurezza e di punizioni – mercoledì ha detto che scioglierà i servizi segreti, chiuderà le prigioni e darà la caccia a chiunque sia stato coinvolto nella tortura e nell’uccisione dei detenuti -, ma non si è sbilanciato sulle politiche del futuro governo del premier ad interim Mohammed Bashir. Zakaria Malahifji, segretario generale del Movimento nazionale, descrive la mancanza di consultazione nella formazione di un governo ad interim come un passo falso. «Stanno nominando ministri di un solo colore, persino i poliziotti vengono da Idlib, ma la società siriana è diversificata in termini di culture, etnie, quindi francamente questo è preoccupante, ha detto.
Intanto è un turista americano, identificato come Travis Timmerman, l’uomo ritrovato ieri in Siria e inizialmente confuso col giornalista statunitense Austin Tice, arrestato dai servizi segreti siriani nel 2012 e ancora introvabile. Timmerman, rimasto in carcere alcuni mesi, sarà rimpatriato al più presto.
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Il ministro Roberto Calderoli, nel corso dei lavori della Camera dei deputati, sulle mozioni in materia di autonomia differenziata – Ansa
Il referendum sull’autonomia differenziata supera il secondo ostacolo, dopo il primo riguardante il numero di firme necessarie. Ieri mattina, infatti, la Cassazione ha dato il via libera al quesito, che dovrà affrontare tra un mese il vaglio di ammissibilità davanti alla Corte costituzionale. Se il governo varerà successivamente un decreto «salva legge Calderoli», si dovrebbe ancora tornare in Cassazione. E non è finita: se si arriverà alle urne ci sarà da superare la soglia del quorum. E su questo Luca Zaia ha già indossato la talare del cardinale Ruini, preannunciando di puntare sull’astensionismo.
IL PRONUNCIAMENTO di ieri mattina della Cassazione si era reso necessario per la sentenza della Corte costituzionale del 3 dicembre scorso (la ormai famosa 192 del 2024). Questa aveva dichiarato illegittime circa la metà delle norme della legge Calderoli, tra l’altro quelle più importanti. La Suprema Corte doveva dunque stabilire se sopravvivevano «contenuti normativi essenziali» e «i principi ispiratori» della legge. Venerdì scorso il presidente del Comitato promotore, Giovanni Maria Flick, aveva depositato una memoria, preparata dagli avvocati Enrico Grosso e Vittorio Angiolini, per sostenere le ragioni della validità del quesito totalmente abrogativo. La Cassazione è stata sintonica con queste argomentazioni, visto il pronunciamento di ieri.
UNA DECISIONE niente affatto scontata: alcuni esperti ritenevano che sarebbe accaduto il contrario. Il sì della Cassazione è stato salutato con entusiasmo dai promotori, sia gli attori sociali (come Christian Ferrari della Cgil o Ivana Veronese della Uil), che quelli politici (dal Pd a Avs, da M5s a Iv e +Europa) che hanno chiesto al governo di fermare le intese con le regioni. I governatori di destra, Attilio Fontana, Luca Zaia e Alberto Cirio, hanno sbeffeggiato il buon senso, dicendo che invece si va avanti con le intese. Se permane il referendum, è stato il ragionamento di Fontana e del ministro Roberto Calderoli, vuol dire che la legge «è viva e vegeta».
TRA UN MESE, entro il 20 gennaio, il quesito dovrà passare il vaglio di ammissibilità davanti la Corte costituzionale: la Costituzione impedisce referendum su leggi riguardanti la finanza pubblica e il governo aveva presentato il ddl come collegato alla legge di Bilancio 2023. Tuttavia il Comitato promotore è confidente in un ulteriore sì: precedenti pronunciamenti
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