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Delrio e Nencini al parlamento europeo. I tedeschi accusano l'Italia di non controllare a dovere i veicoli Fiat 500X, Doblò e Jeep Renegade. Il governo all'Emis, la commissione d'inchiesta del Parlamento europeo: siamo indietro con i controlli ma per noi è tutto a posto. E poi rivela: anche con le norme Euro5 e Euro6 in regola, tutte le auto diesel inquinano più di quanto dichiarato.

Al di là di truffe, multe, authority, test, direttive, guerre commerciali, controlli e fumisterie di ogni genere, il «dieselgate» ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che le auto diesel – tutte le auto diesel – inquinano più di quanto dichiarato e più di quanto sia tollerabile per la salute umana e l’ambiente.

Lo dimostra – se ancora non fosse abbastanza chiaro – l’ultima audizione del ministro Graziano Delrio alla commissione Emis del Parlamento europeo, l’organismo che sta indagando sulla validità dei test degli stati membri sulle auto dopo lo scandalo Volkswagen e che dovrà esprimersi sulle nuove direttive in materia.

Il ministro era stato chiamato, insieme al viceministro Nencini, perché il Kba, l’ente di omologazione tedesco, ha messo nel mirino le auto Fiat Chrysler, accusandole di inquinare più di quanto dichiarato insinuando che le autorità italiane non controllano a dovere la propria ditta «nazionale». C’è da dire che non passarono certo inosservate, in Germania, le dichiarazioni «spavalde» di Marchionne dopo il dieselgate di Vw del 2015.

Delrio ha risposto il 12 gennaio scorso che gli enti tedeschi non hanno voce in capitolo sui controlli di omologazione che spettano all’Italia (come noi – butta lì perfido – abbiamo preso atto dei controlli tedeschi su Volkswagen…) tuttavia, nello stesso tempo, il ministro ha ammesso di fronte alla Commissione che i nuovi test su strada sui veicoli Fiat non sono ancora completati.

E’ stato fatto quello sulla 500X (divulgato con diversi omissis) ma non ancora quelli sul Fiat Doblò e la Jeep Renegade.

Va peraltro ricordato – dice Delrio – che questi test si svolgono sempre alla presenza di personale Fiat e a volte in strutture tecniche dell’azienda stessa. O addirittura si basano su pure autodichiarazioni del costruttore, come nel caso della garanzia sui dispositivi anti-inquinamento per i primi 160mila km di vita del veicolo.

A grandi linee il nodo del contendere per i tedeschi è questo: i test di omologazione durano 20 minuti e alcuni modelli Fiat dopo 22 minuti spengono un sistema di riciclo dei fumi di combustione che abbatte gli ossidi di azoto (NOx).

L’Italia (e Fca) sostiene che il software modula diversamente il flusso nel motore per proteggerlo quando è caldo, gli scettici si chiedono perché lo faccia proprio dopo 22 minuti e non ad esempio 15 o 18.

Critica ad esempio Altroconsumo: «La differenza è che negli Usa occorre sempre dichiararlo all’Epa in fase di omologazione. In Ue la normativa lacunosa sembra lasciare al costruttore maggiore manovra a riguardo».

Sta di fatto che per Delrio è tutto a norma e fa fede questo. Anche nel possibile «dieselgate» americano, in effetti, alcuni esperti sostengono che Fca costruirebbe veicoli «troppo» aderenti alle norme, per cui provandoli in contesti differenti darebbero risultati sbagliati ma tuttavia legittimi, non truffaldini come nel caso Volkswagen.

Per i cittadini e i consumatori il guaio, al di là di queste importanti dispute tecniche e commerciali, è un altro.

Lo dice il viceministro Nencini papale papale nella stessa audizione: tutte le prove fatte nei diversi stati membri «hanno dimostrato che i veicoli diesel Euro 5 – diversi da quelli prodotti da VW – pur se conformi alla vigente legislazione europea e privi di dispositivi di manipolazione («defeat device») proibiti, denotano valori di emissioni di ossidi di azoto (NOx) più elevati allorquando sono provati in laboratorio o su strada in condizioni diverse da quelle previste dal ciclo di omologazione».

Quindi a prescindere dagli artifici dei costruttori e delle mancanze dei controllori, l’Euro 5 è una bufala in sé. Peggio ancora: «per salvaguardare gli investimenti dei costruttori» anche l’Euro 6 è di dubbia attendibilità.

Va da sé che dal 1 settembre 2017 invece, con le future nuove norme, tutto o quasi si risolverà sia per l’NOx sia per il particolato e le polveri sottili che appestano intere macroregioni dell’Europa.

Visti i precedenti, c’è da dubitarne. Senza contare il sistema di sanzioni. Negli Usa Fca rischia una multa di 44mila dollari per ogni veicolo taroccato, in Italia il codice della strada prevede multe da 80 euro a 3.366 euro nel caso più grave.

 

 

 

 

 

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Intervista. La candidata presidente di sinistra all'Europarlamento: la giravolta M5S preoccupa ma fa chiarezza. Anche per la possibilità di immaginare i grillini come una sponda di un progetto alternativo

Alla fine i liberali dell’Alde sbattono la porta in faccia ai 5 stelle? Per Eleonora Forenza, giovane europarlamentare italiana – è dell’ala più radicale del Prc, è stata eletta nella lista L’Altra Europa con Tsipras ed ora è candidata alla presidenza del parlamento da parte del Gue/Ngl, cioè la Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica – la prima risposta è «una risata li seppellirà». Poi aggiunge, più seria: «È preoccupante. È vecchio trasformismo: una forza politica che decide con plebiscito informatico di passare dal no-euro alla grande coalizione neoliberista».

La giravolta dei 5 stelle l’ha sorpresa?

Qui a Bruxelles nel 70 per cento dei casi la loro delegazione ha votato con noi della sinistra. Sui migranti non ha le posizioni xenofobe di Grillo in Italia. La cosa sbalorditiva era il trasloco da un gruppo entieuropeista al gruppo più europeista e ultraliberista. L’Alde è il principale sostenitore di trattati come il Ttip (il Trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico, ndr) e il Cepa (l’Accordo Ue-Canada, ndr) a cui i 5 stelle dicono no. Sono passati da ’uno vale uno’ a ’uno vale l’altro’.

Ma anche gli ex alleati dell’Ukip sui migranti hanno posizioni xenofobe.

Vero, infatti M5S ha votato spesso in maniera difforme dall’Ukip.

Una parte della sinistra in Italia guarda ai 5 stelle, anzi li ha anche votati. Per voi è un’altra delusione, peggio che allearsi con l’Ukip?

Io penso, per dirla con Gramsci a proposito del senso comune, che i 5 stelle siano un fenomeno contraddittorio. Sarebbe sbagliato da parte della sinistra non rivolgersi al popolo che vota 5 stelle. In quella contraddizione noi dovremmo svolgere un lavoro politico. Sapevamo che neoliberismo e xenofobia sono compatibili, ma certo su di loro oggi si fa chiarezza: anche per la possibilità di immaginarli come una sponda per un progetto alternativo.

Del resto voi comunque restate europeisti. O no?

Sono eletta con una lista che si chiama ’L’Altra Europa’. Il Sinn Féin, che fa parte del Gue, era contro la Brexit in Gran Bretagna. Non rinunciamo al progetto europeo, ma sappiamo che nella gabbia dei trattati e senza dare priorità alla redistribuzione è impossibile costruirlo.

Lei è candidata del Gue alla presidenza dell’europarlamento. Allo scorso giro al suo posto c’era lo spagnolo Pablo Iglesias. È un riconoscimento per la sinistra italiana?

La mia è una candidatura all’unanimità: è un dato importante perché a sinistra siamo bravi a dividerci anche in Europa. La prima motivazione è la scelta di una femminista, in un momento così importante per il movimento delle donne in Europa. Sono una candidata alternativa alla grande coalizione. Gianni Pittella (l’Italiano del Pd candidato a nome dei socialisti, ndr) oggi si presenta come la discontinuità, ma in questi anni è stato uno dei pilastri delle politiche di austerità. Siamo arrivati a un punto di chiarezza anche per noi in Italia: per anni ci siamo divisi sul rapporto con i socialisti europei e non solo. Chi come me ha sempre sostenuto che era impossibile oggi non è più in minoranza. È un dato ormai acquisito da tutta la sinistra italiana.

In realtà in Italia c’è una sinistra che continua a pensarla diversamente da lei. Ma se non dovesse essere eletta, al ballottaggio del 18 gennaio potreste votare Pittella?

Intanto andremo fino in fondo sul mio nome. Poi decideremo. Pittella che ora è contro le politiche del rigore davvero non farà accordi con il Ppe che candida il forzista Antonio Tajani? Una cosa per noi è chiara: Pittella e Tajani non sono alternativi. Per noi rappresentano la stessa cosa.

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Dopo l'addio al gruppo europarlamentare di Farage sì degli iscritti M5S all’ingresso nell’Alde, ma la nuova alleanza non va in porto. Verhofstadt ci ripensa: «Troppe differenze»

Prima che arrivi la bocciatura dell’Alde, Beppe Grillo pare avercela fatta ancora. L’uomo che accentrando comunicazione e strategie politiche riesce a tenere insieme gli opposti e annullare le contraddizioni del suo movimento, punta a confermarsi come partito pigliatutto e porta l’affondo a sorpresa. Fuori dall’Efdd, gruppo europarlamentare che si basa sull’asse con lo Ukip di Nigel Farage. Via alla clamorosa alleanza coi liberali, che apre le porte dei salotti buoni continentali. La svolta viene annunciata in una domenica di fine feste natalizie quando gran parte della nutrita pattuglia di 17 europarlamentari grillini casca letteralmente dal nulla.

Il testo che sigilla l’intesa risale a 4 giorni prima: insiste sulle riforme, sui valori liberali comuni, sulla protezione del mercato continentale, sul rilancio delle piccole e medie imprese. Il documento implica il sostegno del M5S alla candidatura del capogruppo Guy Verhofstadt alla presidenza del parlamento europeo. Anche la manovra dell’ex premier belga è ardita. Imbarca il partito che definì «inaffidabile» in un post su Fb poi cancellato.

Per il M5S ha gestito l’operazione David Borrelli, europarlamentare molto vicino a Davide Casaleggio, membro dell’associazione Rousseau. Borrelli è esponente del grillismo veneto, viene cioè dal circolo liberista che ha stretto rapporti con l’imprenditore Massimo Colomban, attuale assessore a Roma in quota Casaleggio. I suoi colleghi a Bruxelles provano a fare buon viso a cattivo gioco, parlano di «semplice intesa tecnica», invitano a votare alla consultazione online indetta in fretta e furia. L’esodo del M5S verso l’Alde, osservano i media britannici, pare destinato a costare oltre 1,5 milioni di euro di contributi europei al gruppo del partito di Farage.

«A me l’Efdd non è mai piaciuto – riflette mentre è in corso la ratifica online Laura Ferrara, europarlamentare calabrese – È un gruppo che ci ha creato spesso molto imbarazzo, nessuna visione comune su temi come ambiente, energia, mercato interno, immigrazione, diritti fondamentali, economia. Non svelo nessun segreto: abbiamo votato sempre in difformità». Ferrara sottolinea l’aspetto pragmatico del sodalizio: aderire a un gruppo equivale ad avere modo di dire la propria, accedere a fondi, gestire presidenze e tempi d’intervento. Non tutti nel M5S la pensano così: fu Alessandro Di Battista a salutare l’intesa con Farage e a definirla «strategica». «Non voglio dire che l’Alde sia la scelta ottimale – prosegue Ferrara – Purtroppo i Verdi non ci hanno voluto».

Qualcuno dissente e invita a votare no, come l’europarlamentare Marco Zanni da Bergamo: «Quanto accaduto oggi non ha nulla a che fare con la democrazia interna». Pare che i nuovi accordi prevedano per il M5S un posto alla vicepresidenza dell’assemblea: sarebbe destinato al romano Fabio Massimo Castaldo, ex portaborse di Paola Taverna. Si esprimono anche i parlamentari nazionali. Nicola Morra dice: «Meglio soli che male accompagnati», preferendo l’’adesione al gruppo dei non iscritti, fortemente penalizzato dalle regole del parlamento Ue. Carlo Sibilia è stupito: «Adesso che Farage e Trump vincono noi passiamo con gli altri?». Manlio Di Stefano non è esattamente un «liberale»: partecipò al congresso dei putiniani di Russia Unita. Ora cerca di arginare le critiche che piovono dalla rete: «Il referendum sull’euro, la modifica della nostra partecipazione a Ue, Nato e la nostra spinta verso la democrazia diretta non dipendono dalla nostra adesione all’Alde».

Le votazioni si chiudono alle 12, poco dopo arrivano i risultati. Hanno votato 40 mila iscritti al sito, un terzo del totale. Il 78% di questi approva il salto sul carro dei liberali. Facce scure a Bruxelles, dove Grillo e Casaleggio volano per parlare coi propri eletti. Telefoni spenti, microfoni tenuti lontani. Pare l’ennesima prova di forza vinta da Grillo: messi di fronte al fatto compiuto i più accettano. Per alleviare i dolori dei nostalgici di Farage, Grillo diffonde una lettera affettuosa al leader Ukip: «Le nostre strade si sono divise. Spero si incrocino ancora, magari quando sarai ambasciatore negli Usa come ha auspicato Trump. Questo mondo riusciremo a cambiarlo». Farage risponde stizzito: «Ti unisci all’establishment eurofanatico dell’Alde».

Ma i futuri alleati, dopo una giornata di tensione nel gruppo, bloccano tutto. A sera Verhofstadt annuncia: «Sono arrivato alla conclusione che non c’è abbastanza terreno comune per procedere con la richiesta del M5S di unirsi all’Alde. Rimangono differenze fondamentali sulle questioni europee chiave». Grillo cerca di correre ai ripari e riguadagnare purezza: «Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima».

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2016. In un mondo mai così diviso dalla profondità delle diseguaglianze, se il populismo promette l’impossibile ritorno al passato dei muri, la sinistra deve indicare una prospettiva di libertà e fratellanza che sia certo alternativa ma soprattutto credibile

Se dovessimo leggere il 2016 soltanto sotto l’aspetto politico e istituzionale, potremmo concludere che l’anno che si chiude non è stato tra i peggiori. Gli italiani hanno difeso in massa la Costituzione e l’uomo solo al comando, alla guida di un governo arrogante, ha lasciato palazzo Chigi dove ora siede Paolo Gentiloni, strano clone del renzismo.
Se invece alziamo lo sguardo oltreconfine, la violenza terroristica, la tragedia della guerra – l’immagine di Aleppo è emblematica di questo anno – come anche l’avanzata populista in Europa e soprattutto negli Stati uniti, il bilancio diventa sicuramente più complesso e preoccupante.

Come accade quasi sempre, c’è un doppio filo che lega alcuni di questi avvenimenti:

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Jobs Act. Ichino e Anpal sostengono l’incostituzionalità della norma sui licenziamenti. Corso Italia smentisce. E sui «buoni lavoro» gli interventi rischiano di essere inefficaci.

 

Sono due i modi usati dalla politica per neutralizzare i tre quesiti referendari proposti dalla Cgil sulla cui ammissibilità si pronuncerà la Consulta l’11 gennaio. Il primo riguarda il quesito che intende abrogare la norma sui licenziamenti illegittimi e intende fare pressione sulla consulta alludendo a una sua presunta “incostituzionalità”. Il secondo riguarda il quesito che vuole «abrogare i voucher usati in maniera flessibile e illegittima» attraverso un intervento parlamentare o del governo alla luce di diverse opzioni, non ancora chiarite. Ad oggi il terzo quesito sull’abrogazione delle norme che limitano la responsabilità sociale sugli appalti resta fuori dalle polemiche.

Partiamo dal ripristino dell’articolo 18 che preoccupa i promotori del Jobs Act schierati a difesa della riforma renziana per eccellenza (insieme alla “Buona Scuola”). La Cgil ha raccolto più di un milione di firme (a cui vanno aggiunti altri due per abrogare i voucher e sugli appalti, per un totale di tre milioni) per chiedere il referendum per il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare giudicato illegittimo, estendendolo anche per le aziende sotto i 15 dipendenti, fino a 5 dipendenti.

In un’intervista programmatica rilasciata il 15 dicembre scorso a Repubblica il giuslavorista e senatore Pd Pietro Ichino ha dettato la linea: «Il quesito è inammissibile – ha detto – perché il quesito non è unitario, non ha per oggetto l’abrogazione di una norma, ma la creazione di una norma nuova, che non è mai esistita». Su questa linea si è schierato il bocconiano Maurizio dal Conte, nominato da Renzi alla presidenza dell’agenzia delle politiche attive (Anpal) che ha aggiunto una tesi fantasiosa secondo la quale l’abrogazione del Jobs Act su questo punto porterebbe a un boom di licenziamenti e della precarietà: «Molte aziende ridurrebbero il loro organico per scendere sotto il nuovo tetto», ha detto ieri al Corriere della Sera.

I dati Inps raccontano un’altra realtà: da gennaio a ottobre i licenziamenti «disciplinari» per giusta causa e giustificato motivo sono aumentati del 28% a causa del Jobs Act, mentre continuano ad aumentare i contratti a termine riformati dal governo Renzi. Il 75% delle nuove assunzioni è precaria, ha calcolato la Fondazione Di Vittorio (Cgil) sulla base dei dati Inps. A queste tesi ha risposto puntualmente la Cgil con un post pubblicato su Facebook: la costituzionalità dei tre quesiti è «manifesta» sostiene il sindacato di Corso Italia. Nessuno riguarda leggi a «contenuto costituzionalmente vincolato». Se abrogate le parti delle norme contestate, non sarebbe pregiudicata la Costituzione. I licenziamenti illegittimi, la responsabilità verso i lavoratori in caso di appalto e i voucher dipendono dalle decisioni dei governi ed è su questo che gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi in una consultazione in cui è previsto il quorum.

I giuristi che hanno accompagnato la Cgil nella definizione dei quesiti sottolineano che il Jobs Act non è conforme alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che ha lo stesso valore dei Trattati. La legislazione in vigore dopo Renzi non prende sanzioni contro il licenziamento ingiustificato, mentre la Carta europea riconosce tale diritto a ogni lavoratore. Sui voucher la partita è chiara: si cerca di neutralizzare il quesito abrogativo evocando un intervento legislativo che il ministro del lavoro Poletti non ha escluso, anche se attende l’esito del monitoraggio Inps dopo l’introduzione della tracciabilità dei “buoni lavoro”. Attesa inutile, dato che nel 2016 i voucher supereranno ogni record. Nei primi dieci mesi dell’anno sono stati venduti 121 milioni di voucher.

Due sono le alternative proposte in queste ore. Si parla di tornare alla legge Biagi del 2003 che ha istituito questa peculiare forma di lavoro occasionale, limitandola alle prestazioni realmente occasionali e non all’intero mercato del lavoro come deciso dai governi Motti e Letta, entrambi sostenuti dal Pd. Si sostiene, inoltre, la possibilità di abbassare il limite massimo di incasso per singolo lavoratore: da 7 a 5 mila euro, o addirittura a 2 mila. Intervento inutile perché, come dimostrato dai dati Inps, la stragrande maggioranza dei voucheristi (1 milione e 380 mila nel 2015) non ha superato i 633 euro annui.

Non è escluso aumentare comunque, nel privato e nel pubblico, a cominciare dagli enti locali. Contro il quesito della Cgil si sostiene che la vittoria del Sì all’abrogazione porterebbe a un aumento del lavoro “nero”. Su questo punto la formulazione del quesito potrebbe risultare incerta, ma è inequivocabile l’intenzione di riportare il voucher al suo uso originario. In generale si trascura un elemento materiale decisivo emerso in una ricerca Inps sul «lavoro accessorio dal 2008 al 2015»: il voucher non fa emergere il lavoro nero, ma lo aumenta insieme al lavoro precario già esistente.

Si prospettano  settimane di disinformazione in cui la politica sfuggirà al principale problema: non basta il maquillage della riforma renziana, è necessaria l’abolizione integrale di un provvedimento che ha regalato tra gli 11 e i 18 miliardi di euro alle imprese con risultati a dir poco discutibili sull’occupazione. Questo è il contenuto politico del referendum Cgil che si cerca di occultare.

 

 

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