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"Condannatemi, non è importante, la storia mi assolverà"

(16 ottobre, 1953, al processo a cui fu sottoposto dopo l'assalto fallito alla caserma Moncada)

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Why Italy should vote no in its referendum | The Economist

Italy’s constitutional referendum

Why Italy should vote no in its referendum

The country needs far-reaching reforms, just not the ones on offer

 

 

L'Economist si schiera senza senza se e senza ma per il No al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. La posizione viene espressa in un editoriale a corredo di un articolo sulla situazione politica italiana nel nuovo numero in uscita. "Questo giornale ritiene che gli italiani dovrebbero votare no" - scrive l'Economist spiegando che "la modifica alla costituzione promossa da Renzi non affronta il problema principale, cioè la riluttanza dell'Italia a fare le riforme. Inoltre, sottolinea il giornale, "le dimissioni di Renzi non sarebbero la catastrofe che molti in Europa temono" e gli italiani e l'errore principale è stato commesso dal premier che ha "creato la crisi collegando il futuro del governo al test sbagliato". "Gli italiani - prosegue l'Economist - non avrebbero dovuto essere ricattati " e il presidente del Consiglio "avrebbe fatto meglio a battersi per migliori riforme strutturali".

La critica dell'Economist è puntuale e nel merito. "Ogni eventuale beneficio è comunque secondario rispetto ai rischi. In cima a questi - rileva il giornale - il pericolo che nel tentativo di fermare l'instabilità che ha dato all'Italia 65 governi dal 1945, si crei un uomo forte eletto al comando". Il settimanale punta il dito in particolare con la riforma del Senato non più elettivo. "Molti de suoi membri sarebbero consiglieri regionali e sindaci" quando "regioni e comuni" sono gli "strati di governo più corrotti", concedendo loro anche l'immunità. Questo - si spiega - renderebbe il Senato "un magnete per la peggiore classe politica".

Il giornale evidenzia quindi i rischi concreti in caso di vittoria del No. "Le dimissioni di Renzi non sarebbero la catastrofe che molti in Europa temono. L'Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico, come già accaduto in passato. Se in ogni caso la vittoria del No al referendum dovesse innescare il disfacimento dell'euro, allora sarebbe il segnale che la moneta unica è così fragile che la sua distruzione sarebbe solo una questione di tempo".

 

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  • Slovenia: da oggi l’acqua pubblica è un diritto costituzionale

 

Rinnovabili.it) – La Slovenia ha appena approvato un emendamento alla Costituzione con cui riconosce l’acqua pubblica come diritto fondamentale per tutti i cittadini. In questo modo l’accesso all’acqua potabile deve essere garantito al di fuori delle logiche di mercato e della privatizzazione, e non può essere considerata una merce: l’unico gestore sarà lo Stato.

Il parlamento di Lubiana ha approvato il provvedimento con 64 voti a favore e nessun contrario. Si è astenuto il partito Democratico Sloveno, che rappresenta l’opposizione di centro-destra, secondo il quale questo passo non è necessario e si tratta soltanto di una mossa del governo per aumentare il consenso tra la popolazione.

L’emendamento alla Costituzione è stato fortemente voluto dal premier di centro-sinistra Miro Cerar.“L’acqua slovena è di ottima qualità e, a causa del suo valore, in futuro sarà certamente nel mirino di paesi stranieri e degli appetiti delle multinazionali – ha dichiarato Cerar prima della votazione – Diventerà gradualmente una merce di valore in futuro, la pressione aumenterà ma noi non dobbiamo arrenderci”.

 Il diritto all’acqua è ormai da anni riconosciuto come uno dei principali diritti umani in diversi trattati internazionali, ma ovunque nel mondo l’acqua pubblica viene minacciata, imbottigliata e venduta negli scaffali dei supermercati come qualsiasi altra merce. La Slovenia è il primo paese dell’Unione europea a difendere l’acqua pubblica nella propria costituzione. Nel mondo questo passo è stato compiuto soltanto da altri 15 Stati.

Il nuovo articolo 70 a della Costituzione slovena recita:

“Le risorse di acqua rappresentano un bene pubblico che è gestito dallo Stato. Le risorse di acqua sono usate in primo luogo e in modo sostenibile per fornire ai cittadini acqua potabile e, in questo senso, non sono un bene di mercato”

Una volta emendata la Costituzione, prima che il provvedimento entri effettivamente in vigore sarà necessario modificare una serie di leggi che regolano la gestione dell’acqua. Da oggi sarà lo Stato a rifornire direttamente e senza scopo di lucro le istituzioni locali, alle quali compete la distribuzione sul territorio.

 

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Vertice di Marrakech. Oggi si riuniscono i capi di stato. L'applicazione dell'Accordo di Parigi compromessa dalla vittoria di Trump. C'è un difetto nel testo della Cop21 entrato in vigore il 4 novembre, che permetterebbe agli Usa di uscire subito dall'intesa. Le emissioni mondiali di Co2 si stabilizzano. Banca mondiale: le calamità naturali causate dal disordine climatico costano 520 miliardi l'anno.

L’ombra minacciosa di Donald Trump incombe sulla riunione dei capi di stato e di governo, che oggi si trovano a Marrakech per la Cop22, la conferenza Onu sul clima, entrata nella seconda settimana (e che si concluderà il 18 novembre).

Accanto al re del Marocco e al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, sono presenti una trentina di presidenti africani (che partecipano anche all’Africa Action Summit, che dovrebbe permettere al Marocco di spianare il terreno per un rientro nell’Unione africana) e molti capi di stato di paesi dell’area del Pacifico, accanto a qualche leader occidentale: François Hollande, per assicurare la transizione con la Cop21 di Parigi dove è stato firmato l’Accordo storico sul clima l’anno scorso, Mariano Rajoy o il primo ministro portoghese, mentre gli altri europei inviano alti rappresentanti al posto dei leader. Fino a ieri non era neppure chiaro se per gli Usa ci sarà il segretario di stato John Kerry.

L’obiettivo della Cop22 è di precisare le condizioni dell’applicazione dell’Accordo di Parigi, entrato in vigore il 4 novembre, con anticipo rispetto alle previsioni, poiché è stato ormai ratificato da 97 paesi che rappresentano il 69% delle emissioni mondiali di Co2. Ma le posizioni di Trump rischiano di far saltare tutto.

Per Trump, il riscaldamento climatico è “una bufala, un concetto inventato dalla Cina per indebolire l’industria manifatturiera americana”. Nel programma di Trump ci sono la riapertura delle miniere di carbone, il rilancio dello shale gas e l’annullamento delle norme dell’Agenzia federale di protezione dell’ambiente (Epa), che potrebbe del resto persino sparire.

Un segnale inquietante viene dalla nomina, per il periodo di transizione fino al 20 gennaio, di Miron Ebell, per occuparsi del destino dell’Epa. Ebell ha lavorato alla Philips Morris e ha collaborato con il Competitive Entreprise Institute, uno dei centri della diffusione delle tesi di scetticismo sul riscaldamento climatico.

Trump ha già minacciato di far uscire gli Usa dall’accordo di Parigi, che impegna il paese a una riduzione del 28% di emissione di gas a effetto serra entro il 2025 (rispetto al livello del 2005).

Ma se gli Usa, secondo responsabile mondiale per il Co2, denunciano l’accordo, cosa faranno gli altri? In particolare la Cina, primo responsabile, alla cui firma avevano contribuito le pressioni di Obama?

Secondo Laurent Fabius, che l’anno scorso era ministro degli Esteri e ha presieduto la Cop21 e la firma dell’Accordo, uscire dall’accordo di Parigi non è così facile: stando all’articolo 28, bisogna lasciar passare tre anni di adesione per annunciare l’abbandono, che diventa operativo solo dopo un anno. Cioè si arriverebbe al 2020, alla prossima elezione presidenziale Usa.

Ma dei giuristi hanno trovato dei grossi difetti nella redazione dell’Accordo, che del resto è “volontario” e non prevede sanzioni per chi lo trasgredisce: Trump potrebbe far uscire subito gli Usa dalla Convenzione-quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici e così lavarsi le mani e sotterrare di fatto l’Accordo di Parigi.

L’Onu nasconde i timori. La responsabile del clima, Patricia Espinosa, ieri si è limitata ad affermare che l’Organizzazione ha “fretta di collaborare con l’amministrazione Trump e far avanzare l’agenda climatica a vantaggio delle popolazioni del mondo”.

Ormai ci sono le prove che l’azione ha effetto: ieri, un rapporto del consorzio scientifico Global Carbon Project ha rivelato che nel 2015 le emissioni di Co2 causate dall’attività umana sono rimaste stabili, dato che dovrebbe venire confermato nel 2016 (che però resta il più caldo della storia).

Questa stabilità non è del resto sufficiente per rispettare l’obiettivo di un riscaldamento climatico che non superi i 2°.

L’uscita degli Usa comprometterebbe anche i finanziamenti che i paesi più poveri attendono per poter far fronte alle conseguenze del riscaldamento climatico e per l’adattamento alle nuove condizioni climatiche.

Secondo la Banca Mondiale, investire nella lotta contro il riscaldamento climatico è urgente, anche solo dal punto di vista economico: le catastrofi naturali causate dal disordine climatico (inondazioni, tempeste, profughi ecc.) costano fino a 520 miliardi di dollari l’anno (e colpiscono i più poveri).

 

 

 

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Amici,

Mi dispiace dover essere ambasciatore di cattive notizie, ma sono stato chiaro l'estate scorsa quando vi ho detto che Donald Trump sarebbe stato il candidato repubblicano alla presidenza. Ed ora vi porto notizie ancora più terribili e sconfortanti: Donald J. Trump vincerà a Novembre. Questo miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time, e sociopatico a tempo pieno, sarà il nostro prossimo presidente. Presidente Trump. Forza, pronunciate queste parole perché le ripeterete per i prossimi quattro anni: "PRESIDENTE TRUMP".

In vita mia non ho mai desiderato così tanto essere smentito.

Posso vedervi adesso. State scuotendo la testa convinti: ....

LEGGI TUTTO SUL SITO DI huffingtonpost

LEGGI ANCHE La profezia di Springsteen su il corriere.it

 

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Energia, infrastrutture e clima: perché dobbiamo preoccuparci se vince il Sì al referendum - Il Fatto Quotidiano

L’intenso, e non sempre equilibrato, dibattito sulla revisione alla Carta costituzionale vede quasi assenti gran parte del mondo ambientalista e dei movimenti sociali. Riteniamo invece che un approfondimento, in particolare sugli effetti che tali modifiche potrebbero avere su questioni che riguardano l’ambiente, il territorio, l’energia, il clima, e sulle forme e i modi di incidere e partecipare da parte dei movimenti sociali, sia assolutamente necessario, pur senza entrare in più complesse argomentazioni di diritto costituzionale.

Partiamo da alcune modifiche che a noi sembrano rilevanti.

 Nel 2001 la riforma del Titolo V Parte seconda della Costituzione, pur con i suoi limiti, aveva stabilito nell’art. 117 gli ambiti in cui lo Stato aveva potestà legislativa esclusiva e quelli in cui le Regioni potevano esercitare potestà legislativa concorrente, pur riconoscendo allo Stato il mantenimento delle funzioni di indirizzo generale (leggi cornice e leggi quadro). Oggi diventerebbero di competenza esclusiva dello Stato, oltre che l’energia e le infrastrutture strategiche, anche la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia (materia finora concorrente), nonché le infrastrutture strategiche e le grandi reti di trasporto e di navigazione e relative norme di sicurezza; i porti e gli aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale. 

Inoltre, diventano di competenza legislativa esclusiva dello Stato il governo del territorio (disposizioni generali e comuni); la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo; il sistema nazionale e il coordinamento della protezione civile, ed altro ancora; aggiungendo infine un’ulteriore clausola di supremazia statale.

Non ci nascondiamo le contraddizioni e le difficoltà applicative della riforma del Titolo V, né che le Regioni oggi siano spesso male amministrate e inquinate da malcostume e corruzione (elementi non certo qualificanti per chi deve rappresentare il Senato della Repubblica) ma la “visione del mondo” (la weltanschauung) che ispira l’attuale proposta di riforma, rappresenta una profonda e antistorica marcia indietro ed è molto indicativa della tendenza accentratrice su temi che non possono prescindere dalla partecipazione e dal confronto con i territori.

Tali implicazioni, oltre ad amplificare ulteriormente il divario amministrativo tra Regioni a Statuto speciale e le altre, non sono prive di conseguenze, a partire dalle questioni legate al governo del territorio. Pensiamo a cosa questo può voler dire nel caso di autorizzazioni di grandi infrastrutture, di impianti energetici o, ad esempio, sulle trivellazioni, e avere una forte ricaduta sul percorso verso la decarbonizzazione del nostro sistema produttivo, sulla transizione energetica, sullo sviluppo di un modello energetico fondato sulla generazione distribuita e sull’uso razionale delle risorse di ogni territorio.

Materie delicate che hanno urgenza di un quadro unitario di riferimento nazionale, e per altri versi europeo, ma la cui gestione e articolazione va declinata sui territori e la possibile sperimentazione di innovazioni, necessita di poteri decentrati, che siano interlocutori con la dialettica sociale, nella quale i movimenti e le associazioni possono meglio articolare le loro posizioni e raggiungere dei risultati.

La compressione e lo svilimento delle forme di partecipazione inoltre sono evidenti anche nelle modifiche agli art. 71 e 75 della riforma della Costituzione: le modifiche alle norme per l’indizione di referendum abrogativi e per proporre leggi di iniziativa popolare non aumentano le possibilità di partecipazione dei cittadini, anzi, per certi versi, aumentano gli ostacoli, alzando il numero delle firme necessarie.

La dialettica sociale – che non riguarda solo gli ambientalisti, ma anche i lavoratori, i consumatori e i cittadini in generale – non può delegare al “capo” del governo (usiamo questo termine perché per la prima volta è stato inserito nella legge elettorale) che ha “vinto” (la sera delle elezioni), ma va stimolata attraverso la partecipazione e la democrazia che non può esaurirsi nella scadenza elettorale ogni 5 anni (oltretutto sempre meno partecipata), ma deve alimentarsi di momenti di ascolto e di confronto continuo a livello centrale e periferico.

Respingiamo le accuse di essere “difensori dell’esistente”, “conservatori dello status quo”, “sostenitori delle lungaggini burocratiche”, proprio perché i movimenti in cui siamo impegnati si battono per il cambiamento, qui ed ora, ma sono anche consapevoli che la direzione del cambiamento è importante ancor più dei tempi. Non a caso, e non per colpa del “bicameralismo perfetto”, ma per mancanza di volontà politica del governo, che il nostro Parlamento non ha ancora ratificato gli accordi di Parigi rinunciando così ad un ruolo protagonista nella Cop 22 di Marrakech del prossimo novembre.

Queste considerazioni possono sembrare sommarie e non affrontare argomenti ben più corposi che vengono portati a critica della revisione della Costituzione, ma abbiamo voluto partire proprio dal nostro “vissuto”, dalle questioni specifiche di cui ci occupiamo, per maturare la convinzione che questa riforma va in contraddizione con quanto, con tenacia e fatica, cerchiamo di costruire con e nei movimenti. 

Mancano meno di due mesi al voto. E’ necessario che la galassia dei movimenti sociali e ambientali, i comitati locali, i cittadini che ogni giorno difendono i territori dagli scempi, entrino con determinazione in questo dibattito, evitando un falso luogo comune, ossia che questo ci porterebbe a prendere parte in contrapposizioni tra schieramenti politici che non ci appartengono. La questione invece ci riguarda e ci riguarda molto da vicino!

di Mario Agostinelli (Ass. Energiafelice), Vittorio Bardi (Ass. Si rinnovabili No nucleare), Ettore Torreggiani (RSU Almaviva)

 

 

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