IL LIMITE IGNOTO. La Carovana della Pace a Mykolayiv. Di 450mila abitanti ne sono rimasti 250mila. La notte di lunedì i missili hanno fatto 3 morti
Mykolayiv sembrerebbe a tutta prima una «ridente località» sul Nipro, 130 chilometri a Nord di Odessa. Ordinata, pulita, alberata e anticipata da sconfinati campi di frumento che ancora ondeggiano le spighe al vento del Mar Nero. Ma al ponte sul quarto fiume d’Europa che ha qui il suo potente estuario, cominciano i sacchetti di sabbia, le postazioni mimetiche, i bunker infossati. E man mano che si avanza verso le strade che portano a Nord Nord-Est, la città, conquistata in periferia dai russi che poi han dovuto ritirarsi, è un colabrodo di trincee, buche, rifugi, feritoie. Il fronte è a 15 chilometri dal centro e se finora le posizioni sono stabili, l’artiglieria russa martella a intermittenza.
Nella notte tra ieri e lunedì, undici missili sono stati lanciati sulla città e solo due sono stati intercettati. Secondo fonti locali, Mykolaiv e Ochakiv, nei dintorni, sono state colpite con un primo bilancio, ieri mattina, di tre morti e sei feriti. Tra le vittime c’è una bambina di sei anni e un neonato di 3 mesi trasportato in terapia intensiva.
SECONDO Maxim Kovalenko, del consiglio comunale cittadino, Mykolayiv conta 30 vittime civili dall’inizio della guerra e il bombardamento dell’impianto di desalinizzazione che ha lasciato la città senz’acqua potabile. Una città di 450mila abitanti ridotta adesso a 250mila perché in tanti se ne sono andati: «Prima – dice – forse metà dei cittadini era filorussa. Adesso non ne trovi uno». Ma sembra, dice un collega qui da un po’, che nemmeno Zelensky sia troppo popolare. E a giudicare dalle file in attesa di un cestino o per riempire le bottiglie si capisce che il mantra della guerra finisce per essere sempre quello: morte, dolore. Fame se va bene.
ARRIVA IN QUESTO CLIMA la Carovana di StoptheWarNow al suo secondo giorno in Ucraina. I mezzi son ridotti a cinque per problemi di sicurezza ma lo scarico del cibo avviene in un clima quasi festoso. Poi la sirena interrompe i convenevoli ma il rifugio, ricavato sotto un centro di riabilitazione, offre l’occasione per altre parole. «Apprezziamo gli aiuti – dice ancora Maxim – ma ci tocca soprattutto che siate venuti sin qui sfidando le bombe». Con molta diplomazia a chi chiede di cosa ha bisogno la città, Maxim – che pure ha parole di elogio per il suo presidente – evita di dire «Armi», come accade il più delle volte. Evidentemente questo convoglio di pacifisti una funzione ce l’ha.
Nei pressi hanno scavato un pozzo. Chiedono di non fotografarlo perché non sia localizzato ma ci mostrano il desalinizzatore cui sta per aggiungersene un altro regalato da StoptheWarNow. Seimila euro ben spesi. «La città consumava 150 metri cubi in tempi normali ma ora è tanto se arriviamo a 20. È il problema più grosso». L’acqua estratta dai pozzi è salmastra perché Mykolayiv è sdraiata su una laguna. L’acqua, che normalmente è la ricchezza della città per la presenza del fiume, adesso è la sua condanna. «Abbiamo provato mandare dei tecnici a riparare gli impianti ma abbiamo smesso. Alcuni di loro non sono tornati». Poi tutti fuori per la foto di rito con lo striscione StoptheWarNow. Un pastore benedice. Gli anziani fuori dal cortile scrutano.
LA GENTE IN STRADA finge una normalità sospesa su quella che è la porta orientale verso Odessa e che i russi tengono in scacco con i missili uno dei quali, lunedì notte, ha colpito uno stadio in un complesso della marina. Obiettivo militare? Paradossalmente ha solo sfiorato il tappeto verde del campo e adesso un cratere richiama le visite degli abitanti del quartiere. Bastava che l’ordigno fosse caduto qualche pugno di metri più in là e sarebbe stata un’altra strage. Si riparte per Odessa e, oggi, per l’Italia. Al check point c’è un ragazzino – mitra ed elmetto – di 18 anni. Uno “sbarbato” si dice a Milano. Lasciati giù gli aiuti i camioncini ora sono vuoti. Ma il cuore, retorica o no, è gonfio. Fate voi di cosa.
Commenta (0 Commenti)IN CONTROLUCE . La verità è che il centrosinistra ha davanti una strada in salita. Perché il modello civico locale che ha prevalso in queste elezioni amministrative, espressione di una cittadinanza costruita fuori dalle burocrazie partitiche, difficilmente sarà replicabile a livello nazionale, e di sicuro non con unioni elettorali posticce.
Quando parlano di una politica tra la gente, quando sottolineano la valenza del cambiamento che li impegna, si capisce che siamo di fronte a persone per bene, autonome dai padrinaggi, seriamente intenzionate a scardinare le pesanti logiche di potere delle rispettive città. I volti e le parole dei neosindaci di Catanzaro e Verona, Nicola Fiorita e Damiano Tommasi, spiegano bene le ragioni del loro consenso.
Ci credono. Ci provano. Rappresentano la versione migliore, perché connotata socialmente, di quel campo largo che ora tutti i frontman di piccole formazioni stiracchiano e rivendicano allo scopo di sedersi al tavolo del gioco nazionale, possibilmente cancellando l’alleanza tra un rassicurato Pd e uno spaesato M5Stelle.
L’affermazione (diciamo la verità: inaspettata) di questi cittadini, credibili e rappresentativi, giustamente raccoglie la soddisfazione del segretario del Pd che si gode il risultato delle urne avendo partecipato ai ballottaggi come
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Commenta (0 Commenti)IL MOMENTO DI REAGIRE. Negli undici Stati in cui l’aborto è già limitato o vietato vivono circa 70 milioni di persone e dunque è immensa la popolazione femminile che per ottenere un diritto dovrà ora rischiare la vita. Come accadeva in Italia con migliaia di donne uccise dai ferri di calza.
Manifestazione davanti alla Corte suprema degli Usa - Ap
Negli anni ’70, in Italia, le donne che volevano abortire avevano due possibilità. O affidare la propria vita alle mammane che praticavano l’aborto clandestino, o prendere un aereo per pagarsi l’intervento nelle cliniche di Londra. Una condizione che selezionava il bisogno secondo la classe sociale di appartenenza.
La lunga, inarrestabile e alla fine vincente, battaglia per conquistare la libertà di scegliere se e quando avere un figlio, ha segnato uno spartiacque sociale (con la legge sull’aborto gratuito e assistito), politico (la divisione tra partiti pro e contro), antropologico (l’autodeterminazione del nuovo soggetto femminista, protagonista dell’unica rivoluzione italiana). Che nessuno potrà rimettere in discussione, anche se, alla luce dei fatti americani, c’è chi, anche nel nostro paese, plaude alla sentenza della Corte suprema americana, sfoderando vecchi arnesi della propaganda antiabortista.
Con tutte le differenze del caso, è la realtà che oggi attende le donne statunitensi, di colpo private della legge-ombrello federale. Dovranno
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Commenta (0 Commenti)FUORI CAMPO. Il vertice dei Brics in Cina sancisce la nuova forma di non allineamento: emerge che l’isolamento della Russia, pur considerata aggressore dell’Ucraina, è solo occidentale
Il vertice dei Brics, tenuto virtualmente in Cina, sancisce una nuova forma di non allineamento del sud del mondo da cui emerge con chiarezza che l’isolamento della Russia è solo occidentale. Basta guardare i numeri.
La Cina e l’India hanno aumentato copiosamente le importazioni di petrolio da Russia. A maggio Pechino ha importato ogni giorno 800mila barili di greggio russo via mare, il 40% in più rispetto a gennaio, cui va aggiunto quello che arriva attraverso l’oleodotto. Il petrolio degli Urali, finora venduto soprattutto in Europa, costa 30 dollari in meno rispetto al Brent.
DA GENNAIO A MAGGIO il petrolio russo importato dall’India è passato da zero a 700mila barili al giorno. Gli Usa hanno chiesto a New Delhi, terzo consumatore al mondo di oro nero, di «non esagerare» con le importazioni con la Russia ma il ministro dell’energia indiano ha replicato seccamente che l’India non può rinunciarvi. Il resto, come vedete, sono le chiacchiere europee e americane (soprattutto europee) sul price cap, il tetto sul prezzo del gas, che è la nuova araba fenice dei paesi importatori come Germania e Italia, attanagliati dalla crisi energetica generata dalle sanzioni a Mosca.
Nessuno dei leader di Brasile, Cina, India o Sudafrica – che con la Russia costituiscono i Brics, associazione con una geografia e una demografia assai alternative al G-7 – finora ha condannato Putin o imposto sanzioni a Mosca. Per trovare un riferimento all’Ucraina nel comunicato finale in 75 punti bisogna arrivare al ventiduesimo dove si afferma di sostenere «i colloqui tra Russia e Ucraina», un dichiarazione, ovviamente neutra e in linea con le precedenti.
Un non allineamento con l’Occidente che sembra quasi un «allineamento» con Mosca. Non è sorprendente: oltre all’astensione di molti Stati, soprattutto africani, sulle risoluzioni Onu relative all’Ucraina, nessun Paese non occidentale ha imposto sanzioni alla Russia. E tra questi aggiungiamo la Turchia, membro Nato, e Israele, contrafforte americano in Medio Oriente. Come fa notare il politologo di origini iraniane Trita Parsi, «i Paesi del sud del mondo considerano la Russia come aggressore, ma quando l’Occidente ha chiesto – in nome di un diritto internazionale che gli Usa hanno sistematicamente violato – di spezzare i legami economici con la Russia, si è scatenata una reazione allergica a catena».
SIGNIFICATIVA LA POSIZIONE del regime saudita che non solo non ha condannato Mosca ma punta sull’Opec+, il coordinamento con la Russia sul petrolio, e mantiene l’accordo militare con Mosca firmato nell’agosto 2021, definito «strategico» dal vice ministro della difesa saudita, il principe Khalid bin Salman.
Ed è proprio in Arabia saudita (e in Israele) che si prepara ad andare in luglio Biden per incontrare anche il principe Mohammed bin Salman, da lui definito un “pariah” per essere stato il mandante dell’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nel 2018 dentro al consolato saudita a Istanbul. Una visita preceduta dall’abbraccio – ben descritto ieri sul manifesto da Michele Giorgio – tra Erdogan e il principe bin Salman: i due si odiavano per l’appoggio dei turchi a ai Fratelli Musulmani ma oggi si rilasciano certificati di buona condotta pure agli assassini quando serve alla realpolitik e a incassare denaro.
IN FONDO ERDOGAN HA sostenuto l’Isis contro Assad, storico alleato dell’Iran sciita a sua volta nemico di Riad, si è dimostrato leale verso il Qatar nella lite con i sauditi, ha massacrato metodicamente i curdi e ha sostenuto Sarraj nel 2019 quando era assediato a Tripoli dal generale Haftar. Tutte «doti» spiccate di Erdogan con cui deve fare i conti Draghi nel suo prossimo viaggio in Turchia, un Paese che detta l’agenda in Libia e nel Mediterraneo orientale, posti dove vorremmo portare a casa il gas perduto in Russia ma dove contiamo sempre di meno. Questa è la Turchia che si offre mediatrice tra Mosca e Kiev e continua a fare affari con Putin.
In realtà l’isolamento della Russia è relativo, non solo se si guarda al sud del mondo e ai Brics ma anche al Medio Oriente dove Putin è un interlocutore imprescindibile in tutte le crisi regionali essendo l’unica potenza a intrattenere rapporti regolari con l’insieme degli attori regionali, anche quando sono ai ferri corti o in guerra fra loroi, basti pensare a Israele e Iran, agli Houthi e agli Emirati arabi uniti, alla Turchia e ai gruppi curdi.
MA SOPRATTUTTO in Medio Oriente e nel sud del mondo non sopportano il doppio linguaggio e la retorica dell’Occidente. Gli Stati Uniti, che con la Nato hanno bombardato la Serbia nel ’99, la Libia nel 2011, invaso prima l’Afghanistan (per abbandonarlo ai talebani nel 2021) e poi nel 2003 anche l’Iraq, sono davvero i più qualificati a invocare il rispetto del diritto internazionale? Anche gli Usa hanno usato bombe a grappolo, al fosforo e munizioni all’uranio impoverito.
Mentre i crimini dell’esercito americano in Afghanistan (70mila i morti civili) e in Iraq sono stati ampiamente documentati senza mai arrivare a nessuna condanna o sanzione. Per non parlare della Palestina occupata da decenni con il sostegno americano ma che, al contrario dell’Ucraina, non solleva nessuna solidarietà internazionale mentre i governi occidentali continuano a dare carta bianca a Israele.
Dobbiamo e possiamo continuare a isolare Putin l’aggressore e il massacratore dei civili ucraini ma, ogni tanto, isoliamo anche la nostra cieca e accanita ipocrisia, incomprensibile al resto del mondo.
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Lanterne commemorative al Memorial per la pace di Hiroshima in Giappone - Koji Sasahara /Ap
Con queste applaudite parole Alexander Kmentt, ambasciatore austriaco presidente della Conferenza, ha concluso ieri il Primo incontro degli Stati Parti del Trattato di Proibizione delle armi nucleari. «Siamo venuti a Vienna per definire il lavoro dei prossimi anni, e c’è molto da fare. Ma in un momento in cui il multilateralismo e le politiche sulle armi nucleari stanno andando nella direzione sbagliata. Noi abbiamo puntato chiaramente nella giusta direzione adottando quella che forse è la più forte condanna delle minacce nucleari mai votata in una conferenza delle Nazioni Unite».
Senza grande ribalta in questi giorni il percorso verso un disarmo nucleare globale ha segnato passi concreti rilevanti, tanto che pure i tradizionalmente compassati diplomatici hanno parlato di decisioni «storiche» contro la spada di Damocle nucleare.
Adottati per consenso la Dichiarazione di Vienna «Il nostro impegno per un mondo libero da armi nucleari» e un Piano di Azione declinato in ben 50 punti: risultato straordinario raggiunto in tre giorni di lavoro in cui oltre 80 Stati e centinaia di organizzazioni della società civile hanno approfondito la questione, soprattutto a partire dalla prospettiva dell’impatto umanitario.
Soddisfazione piena da parte della International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (che insieme al Comitato Internazionale della Croce Rossa avrà uno status consultivo) e del mondo scientifico, dalle cui analisi sono derivate molte delle scelte prese a Vienna.
In risposta alle minacce nucleari della Russia e ai crescenti pericoli di guerra nucleare la Dichiarazione condanna in modo inequivocabile «ogni e qualsiasi minaccia nucleare, sia essa esplicita o implicita e a prescindere dalle circostanze» e crea una nuova alleanza globale che si avvale del Tpnw e comprende sopravvissuti, Stati, scienziati, parlamentari, giovani e istituzioni finanziarie (come nella presa di posizione di oltre 35 fondi, guidati da Etica sgr, che hanno sottratto alla produzione di armi nucleari oltre 200 miliardi di dollari).
Dichiarazione di Vienna
«Condanniamo in modo inequivocabile ogni e qualsiasi minaccia nucleare, sia essa esplicita o implicita e a prescindere dalle circostanze»
Sono state prese decisioni chiave sulla creazione di un fondo fiduciario a sostegno delle persone colpite dalle esplosioni nucleari, sull’istituzione di un comitato consultivo scientifico, sulla fissazione di una scadenza di 10 anni per la distruzione delle armi nucleari e sull’allargamento del Trattato ad altri Paesi al fine di fermare l’insensata corsa agli armamenti nucleari.
Il Piano d’azione sottolinea poi l’importante principio del «nulla su di noi, senza di noi» e garantisce che le persone più colpite siano maggiormente coinvolte nei processi decisionali.
Con Vienna il Tpnw dimostra buona salute e un cammino efficacemente, nonostante le critiche di chi lo ritiene inutile in quanto non ancora sottoscritto dalle potenze nucleari o addirittura «in contrasto» con altre norme di disarmo (accusa rigettata dalla Conferenza, che ha ribadito in particolare la centralità del Trattato di Non Proliferazione).
Purtroppo e nonostante la Risoluzione in Commissione Esteri votata da tutte le forze di maggioranza che chiedeva al Governo di valutare una presenza a Vienna, l’Italia non si è presentata. Mancando l’occasione di un confronto costruttivo invece sperimentato da Germania, Belgio, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia… tutti Stati Nato o in qualche modo associati all’ombrello nucleare.
Che invece oltre ad alcune scontate e prevedibili critiche hanno espresso la volontà di essere coinvolti in un percorso collettivo, in particolare a riguardo dei cosiddetti «obblighi positivi» cioè quei progetti di trasparenza, sostegno alle vittime e rimedio ai danni ambientali che possono migliorare la situazione internazionale legata all’armamento nucleare.
Scelte che anche l’Italia potrebbe fare già ora, come da sempre chiesto dalla società civile, e che anche il Parlamento ha suggerito come strada possibile al Governo.
«C’è molto fermento e siamo solo all’inizio: questa prima conferenza non è un punto di arrivo, ma l’inizio di molte azioni che cambieranno in meglio il futuro del nostro pianeta e di chi lo abita», ha dichiarato Daniele Santi presidente dell’associazione i Senzatomica, con Rete Italiana Pace e Disarmo promotrice dell’azione «Italia, ripensaci» con l’obiettivo un’approvazione del Trattato anche da parte del nostro Paese.
Atteso a questa scelta da tutti gli Stati del Tpnw e dalla società civile che lo sostiene, come evidenziano in maniera potente le frasi conclusive della Dichiarazione di Vienna: «Non ci fermeremo finché l’ultimo Stato non avrà aderito al Trattato, l’ultima testata non sarà stata smantellata e distrutta e le armi nucleari non saranno totalmente eliminate dalla Terra».
* Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo
Commenta (0 Commenti)5 STELLE. Intervista al sociologo Domenico De Masi
«Ho passato ore a discutere con Luigi Di Maio o con Beppe Grillo: temo non sia servito a nulla». Domenico De Masi, da sociologo e uomo di sinistra, prova da anni a spostare il Movimento 5 Stelle sul fronte progressista. Lo ha fatto collaborando con ricerche, progetti di legge e mettendo in piedi la scuola di formazione voluta da Giuseppe Conte. Dopo la rottura tra Conte e Di Maio è abbastanza sconfortato. Pensa che la rottura avvantaggerà la destra. «Prima era probabile che Meloni avrebbe vinto le prossime elezioni – dice – Adesso è praticamente sicuro».
Professore, poco più di un anno fa diceva a questo giornale che al vertice dei 5 Stelle ci sarebbe voluto un triumvirato composto da Di Maio, Conte e Alessandro Di Battista. C’è rimasto solo Conte.
Conte e Di Maio sono gli unici politici prodotti dalla scuderia italiana negli ultimi dieci anni. Sono complementari per età, professione, formazione, stile. Avrebbero potuto formare una coppia interessante e anche vincente. Si sono sottratti l’uno all’altro e alle reciproche opportunità. Hanno perso entrambi.
Come vede i loro partiti?
Il M5S di Conte è più radicato, trova ancora un riscontro nel popolo dei 5 stelle. Si tratta di un popolo variegato ma meno trasversale di quattro anni fa, perché ha derubricato la parte destra. Salvini se ne è mangiato metà e sono passati dal 32 al 18%. Conte non parte da zero, insomma. Di Maio è più radicato tra i parlamentari e nell’establishment. Ma un pezzo della base lo considera persino un traditore. Deve darsi un profilo politico, l’atlantismo e le armi in Ucraina non lo sono. Deve dire che tipo di società vuole costruire. Né si capisce da quale visione possa distinguersi. Al massimo si distinguerà da quella dei 5 Stelle, di cui è stato capo politico.
Questa mancanza di identità riguarda quasi tutti i partiti.
Se uno legge gli statuti dei partiti scopre che dicono le stesse cose: bisogna essere bravi, belli e garbati. Il M5S ha sperimentato diverse parole d’ordine come «Uno vale uno» ma un modello di partito e società non l’ha mai delineato, anche se ci ha provato con il nuovo statuto. Conte ora ha meno oppositori interni: se ne sono andati tutti. Però deve costruire in modo il partito mattone contrapposto al mucchio di sabbia che è il movimento. Conte è un moderato, non un indignato. Non è don Milani o don Ciotti e neanche Gramsci. Però a differenza di altri nel M5S capisce cosa gli stai dicendo.
Lei ha scritto manuali di sociologia delle organizzazioni. Il M5S è passato da un modello verticistico a essere un partito sostanzialmente in mano ai gruppi parlamentari. È un’anomalia, perché se gruppi dirigenti ed eletti corrispondono tenderanno ad autoconservarsi. Conte ora prova a costruire un’organizzazione che non si esaurisce nei parlamentari. Può essere uno dei fattori che ha generato la scissione?
Ci sta perfettamente. Conte ha disegnato 15 comitati tematici, ognuno composto da cinque persone con un coordinatore. Ma questa macchina deve mettersi in moto. Chi si interessa di queste cose sa che una cosa è mettere sulla carta un’organizzazione, un’altra farla funzionare. Ci vuole formazione e capacità gestionale.
È la fine di un altro mito dei 5 Stelle: la politica a costo zero.
La politica deve essere a costo zero per i privati, ma lo stato deve finanziare un servizio indispensabile. Non prendere i soldi pubblici è stato un infantilismo come la fissazione delle auto blu o il taglio dei parlamentari. Cose senza capo né coda.
L’anno prossimo si vota con la crisi che va intensificandosi. Chi raccoglierà la rabbia della gente?
Questo è il punto focale. In Italia abbiamo 5 milioni 770 mila poveri assoluti: dispongono di meno di 2 dollari al giorno. A questi vanno aggiunti circa 7 milioni di poveri relativi. Siamo a oltre dodici milioni di poveri in un paese che ha 60 milioni di abitanti e che è l’ottavo al mondo per ricchezza su 196. Ciò accade nonostante 3 milioni e 700 mila persone prendano quel minimo reddito di cittadinanza. Non si vede un partito che si faccia carico di questa gente.
Il suo ultimo libro si intitola La felicità negata. È una critica dell’economia neoliberista che ha prodotto tutta questa disuguaglianza.
Il neoliberismo ha puntato tutto sul precariato: ciò che è precario è obbediente. Almeno fino a quando non arriva una forza rivoluzionaria. Per questo quello che è successo ai 5 stelle è un regalo a Giorgia Meloni.
Pare invece che Di Maio punti a una forza interclassista, non a rappresentare i poveri.
Ha il problema di trovare i voti. Un paio di anni fa tenne un discorso sulla terza via. Una ricetta fallimentare, come si è visto con Giddens e Blair. La situazione in tutto il mondo si va radicalizzando, non abbiamo una classe media in ascesa ma la polarizzazione sociale.
Questa terza via è affollatissima.
Di Maio cercherà di egemonizzare quell’area. È una vasca piena di squali, non credo che aspettino lui per avere un leader.
Punterebbero a riconfermare Mario Draghi a Palazzo Chigi.
Dal 1991 al 2001 in Italia ci sono state le privatizzazioni. All’epoca Draghi era direttore generale del tesoro e presidente del comitato delle privatizzazioni. Fu la più grande opera di privatizzazione in Europa, più di Thatcher, perché da noi c’erano più partecipazioni statali. Eravamo l’unico paese ad avere più di 1700 aziende statali o parastatali e il più grande partito comunista d’Occidente. Eravamo molto più socialdemocratici degli scandinavi. Ciò era uno scandalo agli occhi dei neoliberisti che vincevano con Reagan e Thatcher che andava eliminato. Per farlo venne impiegato il più intelligente dei giovani economisti italiani. Rimase per quei dieci anni al tesoro, con diversi governi: quelli di Amato, Prodi e D’Alema fecero la maggior parte delle privatizzazioni. D’Alema diceva che non avevano bisogno della destra per privatizzare. Fu una grande manovra antisocialista fatta da socialisti. Adesso Draghi è riuscito a irretire Di Maio.
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