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SCONFITTA. Non vi è alcuna ragione di preferire uno schieramento politico progressista se questo non è in grado di indicare un orizzonte di cambiamento più o meno radicale, di emancipazione sociale per chi non ha “diritto ad avere diritti”.

Per risalire la china della sconfitta torniamo alle parole della Carta foto di Stefano Montesi

Può ben dirsi che il nuovo governo rappresenti – anche sul piano simbolico – una rottura di continuità con la Repubblica antifascista nata dalla Resistenza e legittimata dalla Costituzione del 1948. Ciò non deve però far credere che il governo della destra si ponga in assoluta discontinuità con il passato recente. Anzi, a ben vedere, è il frutto di una storia annunciata. Vale la pena allora riflettere sulle cause che hanno provocato la resistibile ascesa di Giorgia Meloni.

Iniziamo dalla fine. Dalla incapacità delle forze di centro e di sinistra di coalizzarsi per evitare di consegnare il Paese alla destra. Espressione non solo di una scarsa propensione ad usare delle regole elettorali, le quali imponevano gli accordi se si voleva provare a cambiare un esito altrimenti preannunciato, ma anche di una evidente sottovalutazione dei pericoli di una vittoria regalata alla destra. Miopia tattica, collegata ad un’impotenza strategica.

Un vuoto di prospettiva che ha fatto perdere non tanto l’elezione quanto il senso stesso del voto “a sinistra”. Non vi è, infatti, alcuna ragione di preferire uno schieramento politico progressista se questo non è in grado di indicare un orizzonte di cambiamento più o meno radicale, di emancipazione sociale per chi non ha “diritto ad avere diritti”.

Se ci si limita ad auspicare il buon governo tanto vale confidare sui tecnici. Ed infatti è arrivato Draghi, mentre i subalterni hanno cercato altrove il proprio riscatto, prima nel populismo ora nella destra sociale. Non poteva che finire così. Nel vuoto della politica di chi per natura e storia dovrebbe puntare alla cancellazione delle diseguaglianze sociali in nome dei “suoi” principi fondativi: “liberté, égalité, fraternité”, non poteva che farsi strada chi assicura “altri” valori identitari, legati all’ambigua triade “Dio, Patria, Famiglia”.

Se volessimo imparare qualcosa da questa storica sconfitta dovremmo allora cercare di risalire la china e non apprestarci a proseguire la strada sin qui percorsa per cercare di limitare i danni. Magari perdendosi ancora una volta nei riti di palazzo, nella ricerca di un leader, nello scontro di potere tra le fazioni interne ai vari partiti. Una strategia suicida perché lontana dalla realtà del conflitto e non adeguata alla profondità della crisi che attraversa il mondo progressista. Non è una questione di leader, ma un problema di storia, della “nostra” storia perduta.

Tornano d’attualità le parole di Luigi Pintor “La sinistra italiana che conosciamo è morta”. Non volgiamo ammetterlo perché la paura del vuoto ci terrorizza, ma per tornare sulla scena della storia sarà necessario elaborare il lutto e ricostruire le nostre idee. Pintor terminava le sue riflessioni con parole profetiche: “ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste”.
Per rimettersi sui binari della storia c’è bisogno però di riconoscere le ragioni di fondo – non quelle contingenti – che sono alla base del nostro sconcerto: esse sono tutte collegate alla perdita dei fondamentali.

In questa situazione di smarrimento, quel che può essere chiaro è solo il nostro compito: diventa necessario tornare a pensare criticamente il mondo reale, con il proposito non più solo di interpretarlo, ma anche di cambiarlo. Tornare a proporre punti di vista “rovesciati”, impegnarsi in quella che fu chiamata la “critica della critica critica” (do you remember?).

Così, ad esempio, alla retorica del merito e a quella della competizione – dogmi del presente – si devono contrapporre le virtù perdute dell’eguaglianza e della solidarietà. Alla spasmodica ricerca di una governabilità senza valori e di governi senza popolo, perché frutto delle distorsioni prodotte da sistemi elettorali premiali, si devono contrapporre indirizzi politici definiti sulla base di una rappresentanza politica reale e in grado di dare risposte ai conflitti sociali, riaffermare i diritti inviolabili ed il valore dei doveri inderogabili per assicurare il rispetto effettivo della dignità sociale delle persone. Alla fuga dal Parlamento e alla concentrazione dei poteri nelle mani degli esecutivi dovremmo riuscire a riproporre le logiche del pluralismo politico e della forma di governo a centralità parlamentare.

Potrei andare avanti all’infinito. Ma qui ed ora importa solo constatare che non sono le parole a mancare, sono tutte quelle scolpite nella nostra storia e collocate nella nostra Costituzione tra i principi fondamentali che devono essere realizzati: eguaglianza, libertà, solidarietà, lavoro, emancipazione, diritti civile e sociali, rappresentanza politica, giustizia sociale, dignità della persona, laicità, autonomia, sviluppo delle cultura e tutela dell’ambiente, internazionalismo, pace e ripudio della guerra.

Parole abbandonate o svuotate del loro significato reale, tradite o piegate alle logiche di convenienza dei governanti di turno e alle ragioni del mercato. Ripartiamo da qui, torniamo alle parole della Costituzione per risalire dal pozzo nel quale siamo finiti. C’è un mondo da costruire, senza più rete.