È sotto gli occhi di tutti che la situazione della guerra in Europa si aggrava di settimana in settimana. Non era difficile prevedere la piega che avrebbe preso, data la sua genesi (l’invasione russa) ed il successivo atteggiamento dei protagonisti di questo conflitto (con l’intervento de facto, nell’ordine, della NATO degli Usa e dell’Europa). Quello che oggi abbiamo di fronte è in sostanza un piano inclinato in cui le mosse dei belligeranti, al di là delle intenzioni, tendono inevitabilmente ad avvicinare la catastrofe finale: che è bene sempre ricordarlo, sarebbe la guerra mondiale (combattuta in Europa come le due precedenti) e la catastrofe nucleare. Nella dimensione bellica si riproducono sempre dinamiche quasi automatiche per le quali ogni passo che avvicina uno dei contendenti alla vittoria in realtà allontana la pace. Senza dimenticare che le fasi finali del conflitto furono, nella seconda guerra mondiale, caratterizzate da un vertice di sanguinosa follia, non solo da parte dei nazisti e dei fascisti, per culminare nei bombardamenti terroristici a tappeto (obiettivi civili) sulle città tedesche e italiane e nella strage nucleare a scopo sperimentale e monitorio.
Quali sono i fatti nuovi che rendono ancora più pericolosa la situazione e sempre più difficile un passo indietro lungo il piano inclinato? Ai miei occhi innanzitutto la decisione della Russia di annettere le province (quasi) occupate con quella buffonata di votazione che si è tenuta sotto il controllo militare armato degli occupanti.
Solo la superficialità dei giornalisti italiani ha potuto spacciare per “referendum” quelle votazioni non libere, non segrete e senza un corpo elettorale ben definito nonché senza alternative. Invero del nobilissimo e democratico istituto referendario non avevano nulla tranne forse la possibilità solo formale di rispondere si o no. L’unico antecedente storico che mi sovviene è forse quello dei plebisciti italiani fra il 1859 e il 1870, che tuttavia si tennero a guerre finite e risultato militare consolidato come strumento di legittimazione popolare delle guerre di indipendenza alle quali le popolazioni coinvolte avevano significativamente partecipato. Come tutti sappiamo questo gesto sconsiderato (l’annessione) conferma la natura di “conquista” della guerra russa, ma soprattutto alza il livello della minaccia nucleare, con l’ipocrisia della formula adottata “per difendere il suolo russo” e rende molto più difficile il passo indietro di Putin certamente necessario per qualunque accordo di pace.
La risposta Ucraina non è stata da meno: vietata per decreto qualunque trattativa con Putin.
I governanti italiani ed europei quasi all’unanimità hanno dimostrato di non avere alcuna idea su come costruire una prospettiva di tregua prima e di composizione del conflitto poi, non si sa bene se per incapacità o inadeguatezza culturale, o soltanto perché rimbambiti dai seminari Nato di geopolitica. Certamente l’invenzione (in quattro e quattr’otto) di una formula politica quale l’euroatlantismo ha offerto a tutti una copertura ideologica puramente nominale fatta di nulla, dato che alla rinuncia al progetto europeo non fa corrispondere nessun comprensibile rilancio atlantico che vada oltre la vittoria militare contro la Russia. Eppure qualche segnale di disagio, di smarrimento per la mancanza di una vera strategia che non sia militare (e dopo?) comincia ad affiorare anche nei capi politici dell’”Occidente”. Certamente non basterà.
Ora è urgente che nuovi protagonisti entrino in scena. È urgente perché senza un massiccio movimento per la pace la rabbia dei cittadini di tutta l’Europa, che sempre più sentiranno sulle loro spalle il peso della guerra, alimenterà un più feroce nazionalismo. Già ora le classi sociali più deboli pagano due o tre volte il costo della guerra: pagano per l’aumento della spesa militare nazionale naturalmente a scapito della spesa sociale, ed anche per gli armamenti inviati all’Ucraina; pagano per le sanzioni contro la Russia con l’aumento vertiginoso delle bollette che come è noto gravano proporzionalmente molto di più sui redditi più bassi, pagano perché tali sanzioni ci obbligano ad es. a importare il gas dagli Usa a prezzo pari a tre o quattro volte le tariffe precedenti e questo serve a finanziare l’enorme spesa militare americana a favore dell’Ucraina (18,2 miliardi di dollari a inizio ottobre).
Un movimento per la pace non è qualcosa che si costruisce a tavolino calando sul sentimento pacifico della maggioranza degli italiani la griglia delle proprie mire di giustizia attraverso le armi; certamente la componente ideale ha il suo ruolo: come il valore della solidarietà con un popolo che resiste e riafferma il diritto alla propria indipendenza, come la ripulsa contro chi fa ricorso alla forza per realizzare le proprie pretese (che considera diritti), come il rifiuto del cinismo di chi considera morti feriti e devastazioni il prezzo da pagare per la “libertà”.
Un movimento nasce e cresce a partire dal bisogno che la gente esprime e dalle sofferenze che prova, come ciascuno di noi quando ha a che fare con problemi molto più grandi di noi, che è difficile comprendere e risolvere sulla base della esperienza e conoscenza personale. Ad ognuno la sua parte: ho sentito e letto troppe sofisticate (?!) analisi geopolitiche messe a fondamento di atteggiamenti politici sulla guerra, troppe discussioni fra intellettuali molto amanti della “libertà” che risolvono le loro aspirazioni appoggiando e promuovendo il massiccio invio di armi sempre più sofisticate che pagheranno le masse popolari di tutta Europa e non certo le elites (di cui fanno parte) che già si affannano a chiedere adeguati ristori per i danni economici che subiscono …. Senza tener conto che nella migliore delle ipotesi sono i soldati e le popolazioni ucraine a subire lo scotto drammatico e sanguinoso della guerra, delle devastazioni e delle persecuzioni (la guerra per procura che tanto piace ad americani ed europei) e non gli intellettuali ed i politici italiani. Nella peggiore, presi da furori dannunziani, trascineranno anche la Nato e tutti noi in un conflitto mondiale che avrà come al solito dei vincitori sulle macerie.
Un movimento per la pace subito deve confrontarsi con tutti, deve consentire la più ampia libertà di discussione ed il rispetto per le opinioni di tutti, ma deve stare molto attento a che il suo ruolo non sia annientato dalla strumentalizzazione di pochi o di molti. Un movimento conta in un paese democratico non perché mette a rischio l’ordine pubblico ma in quanto orienta nel profondo il sentimento delle persone anche di quelle che in genere sono lontane dall’impegno politico (e in Italia sono sempre di più …) sentimento che poi si traduce in fiducia o sfiducia in chi governa e fa le scelte sulla pace e sulla guerra. Un movimento per la pace focalizza l’attenzione di tutti su di un tema che i governanti tendono a “risolvere” senza alcun dibattito e letteralmente sulla testa dei popoli che in genere non hanno alcuna voce in capitolo (e così è avvenuto anche nel caso della guerra scatenata dalla Russia in Ucraina). Per i paesi belligeranti soprattutto se non democratici (ed anche se lo sono la democrazia in tempo di guerra è sempre straordinariamente compressa o soffocata) un forte movimento per la pace internazionale restituisce la misura e le condizioni del sostegno o dell’isolamento internazionale. Un movimento per la pace è di per sé un fattore di pace perché contrasta nei fatti la propaganda di guerra che sempre (ed anche oggi in Italia) tende a soppiantare l’informazione, la discussione e il confronto democratico.
Il paragone con il Vietnam. Talmente numerose le differenze e soprattutto il contesto storico-politico che verrebbe da considerare il paragone soltanto un “vizio” generazionale (che oramai solo una ristretta minoranza di ultrasettantenni può realmente testimoniare di persona). Ma è bene metterne in rilievo alcune particolarità. Soltanto negli USA fu un movimento per la pace, in Italia e nel resto d’Europa (Francia e Germania) fu un movimento antimperialista . Contrario alle guerre fra imperialismi ma per le lotte di liberazione; non a caso lo slogan guevarista “creare due, tre, molti Vietnam”. Un movimento che quindi non definirei pacifista e che solo in parte praticò la “non violenza” come forma di lotta. Gli Stati Uniti non avevano un interesse diretto, nazionale, nella guerra ma soltanto relativo alle sfere d’influenza: il loro scopo era geopolitico ed il vero avversario era l’Unione Sovietica ed il comunismo sovietico. Tuttavia il movimento contro la guerra in Vietnam non fu mai di appoggio all’URSS, se non in componenti assolutamente minoritarie. Questo per quanto devo alla mia generazione e sulla base dei ricordi personali.
Le manifestazioni per il Vietnam sono state citate per richiamare il movimento per la pace (che sta organizzando la manifestazione del 5 novembre a Roma) al dovere di far passare il corteo sotto l’ambasciata della Federazione russa. A metterne subito in luce la strumentalità hanno provveduto immediatamente Letta e Calenda partecipando (separatamente, senza incontrarsi …) al sit-in convocato da alcune associazioni sotto l’ambasciata russa a Roma. Una manifestazione alla quale hanno partecipato 400 persone ma che ha tuttavia avuto una vasta eco mediatica, pari temo, se non superiore a quella che avrà quella del 5 novembre. Basta questa evidenza per liquidare la questione? Non so se ci sarà anche un corteo, ma se ci sarà passare di fronte alla sede della rappresentanza diplomatica dello stato che ha rotto anche l’ultima parvenza di legalità internazionale è giusto e necessario. Non soltanto per rimarcare una assoluta non neutralità fra i paesi in guerra, ma soprattutto per affermare la necessità di un passo indietro da parte di chi ha preteso di intraprendere una guerra di conquista in Europa nel XXI secolo. Sono convinto che le iniziative di pace debbano venire dai popoli e dai governi di tutto il mondo e non ci si possa aspettare una trattativa limitata ai belligeranti diretti, ma non vedo nessuna realistica possibilità di trattative e di tregua se chi ha dato inizio al conflitto non da segnali di avere cambiato il proprio obiettivo.
Sono stato contrario all’invio di armi italiane perché ero fiducioso che l’Unione Europea avrebbe potuto avere un ruolo fondamentale per una soluzione che garantisse un equilibrio geopolitico che componesse le mire ed i timori della Russia nel quadro di una definitiva sicurezza e indipendenza dell’Ucraina all’interno di un’Europa finalmente protagonista. Non è andata così, ed ora per fermare la guerra ci sono soltanto i nostri corpi e la nostra persistente convinzione che nessuna prospettiva viene offerta da coloro che si sono lasciati catturare dalla spirale bellicista.
Deboli e fragili appaiono oggi i richiami al diritto internazionale, al ruolo delle organizzazioni internazionali in crisi da decenni, ai principi della giustizia internazionale contro i crimini di guerra. Vorrei però ricordare a chi li considera troppe volte violati, soprattutto dagli Usa, per poter essere oggi invocati contro la Russia e a chi vede solo nella vittoria contro l’aggressore la riaffermazione dei diritti violati dei popoli e delle persone, che al di fuori di quei principi (non a caso frutto dell’epilogo della seconda guerra mondiale, delle stragi naziste ma anche dell’equilibrio del terrore che si instaurò dopo il sopraggiungere del pericolo di catastrofe atomica) altro oggi non abbiamo per evitare di ritornare al mondo basato esclusivamente sui rapporti di forza fra potenze nucleari. Il pericolo della distruzione dell’umanità è oggi moltiplicato per mille o per centomila. Prima di trattare con cinismo i fragili strumenti che i costruttori di pace chiedono è bene ricordare che nessuno ha alternative alla follia degli uomini.
Alessandro Messina
20.10.2022