MEDIO ORIENTE. Intervista al deputato del Partito democratico Arturo Scotto, di ritorno dai territori occupati e da Israele
Arturo Scotto e Roberto Speranza, deputati eletti nelle liste del Pd, hanno passato tre giorni tra Gerusalemme, Ramallah e Nablus. Sono stati tra i primi europei a entrare a Betlemme dall’inizio della guerra. Sono stati al kibbutz di Kfar Aza dove dalla prima casa attaccata di Hamas si vede Gaza city. Hanno incontrato, tra i tanti, la deputata arabo-israeliana Adua Touda, sospesa per due mesi dalla Knesset perché ha parlato di crimini di guerra a proposito di Gaza e le famiglie delle vittime e degli ostaggi che esprimono critiche durissime a Netanyahu. «La guerra sarà ancora lunga – dice Scotto – Magari avrà qualche altro scenario di tregua sugli ostaggi, ma dal punto di vista militare hanno deciso di spianare Gaza. E di chiudere la partita anche con l’Autorità nazionale palestinese».
In che modo?
Hanno portato allo stremo anche la West Bank. Stimano la caduta del Pil dell’80%, dopo che gli stipendi si sono dimezzati. Il messaggio che rischia di passare ai palestinesi è che Hamas li difende mentre l’Anp non paga neanche stipendi. Mohammad Shtayyeh, primo ministro palestinese, sostiene che Israele agli occhi della comunità internazionale ha perso credibilità e che al tempo stesso sul piano interno ha perso il mito della sicurezza.
Che prospettive hanno?
Considerano che nel medio periodo solo Anp possa governare Gaza, anche se nessuno ambisce a farlo mettendosi al traino dei carri armati di Israele. Mustafa Barghuthi, che abbiamo incontrato al Medical relief, dice che ambiscono a governo di unità nazionale anche se resta il problema delle elezioni. Ma per governare davvero hanno bisogno di un riconoscimento chiaro, per il quale potrebbe servire una forza multinazionale. Loro la immaginano come risorsa a controllo dei confini, sul modello dell’intervento in Libano di Unifil.
L’Italia cosa sta facendo?
Sul tema della cooperazione il governo italiano sta facendo cose inaccettabili: hanno bloccato dieci progetti per 4 milioni e mezzo di euro. Soltanto nel 2021 noi avevamo stanziato quindici milioni sulla cooperazione e 5 sull’emergenza umanitaria. Adesso non c’è più niente sulla cooperazione, restano 11 milioni sull’emergenza. E poi abbiamo congelato i 7 milioni di contributo all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite che ha attrezzato rifugi e presidi sanitari che fornisce cibo alla popolazione di Gaza. Quando il suo direttore è venuto a Roma, è riuscito a incontrare il Papa ma non a parlare con qualcuno del governo.
La Chiesa che ruolo svolge?
Abbiamo avuto un colloquio con il cardinale Pierbattista Pizzaballa proprio dopo il bombardamento che ha colpito la chiesa a Gaza. L’impressione è che il processo di dialogo interreligioso sia saltato. Ci hanno caldamente invitati ad andare a Betlemme. Prima siamo passati da Nablus, dove ci siamo impegnati a sbloccare i gemellaggi con Firenze e Napoli. Da lì siamo arrivati a Betlemme, dove abbiamo trovato uno scenario desolato: la piazza centrale vuota, tutto sbarrato. Alla chiesa della Natività c’era una messa con cinque ortodossi armeni, la parte cattolica era vuota.
Avete avuto contatti con la sinistra israeliana?
Aluf Benn, direttore di Haaretz, ci ha detto che Israele ha avuto una fiducia «messianica», ha usato questa parola, nella tecnologia trascurando invece i processi politici. Laburisti e Meretz, ormai ridotte a forze minoritarie, stanno lavorando almeno a una lista unitaria. La chiusura di Israele rispetto al resto del mondo rafforza la destra, che cresce sempre quando si riducono gli spazi delle società aperte.
E adesso?
Chiediamo il cessate il fuoco. Uno stato c’è già, è quello israeliano, e ha diritto di vivere in sicurezza. Ma anche il dato del riconoscimento dello stato di Palestina è fondamentale. Per la prima volta invece l’Italia ha abbandonato una tradizione di dialogo, mediazione, confronto con quel popolo