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GUERRA IN UCRAINA. La leadership di Hanoi combatté con armi impari e con coraggio contro le truppe Usa, ma fece di tutto per avvicinarsi al popolo americano che si opponeva alla guerra

Lezioni vietnamite per Kiev

Soldati americani nel 1971, al confine tra Vietnam e Laos - Ap

Quando, nel 1975, il produttore Bert Schneider fu insignito del Premio Oscar per il suo documentario Hearts and Minds, sui crimini compiuti dagli Stati uniti in Vietnam, nell’uditorio popolato di stelle dello spettacolo lesse un messaggio di un funzionario vietnamita: «Ti prego di trasmettere a tutti i nostri amici in America il nostro riconoscimento per tutto ciò che hanno fatto a favore della pace e per l’applicazione degli Accordi di Parigi sul Vietnam. Queste azioni servono il legittimo interesse del popolo americano e del popolo vietnamita. Un saluto di amicizia a tutto il popolo americano».

Non fu un caso isolato: diversi prigionieri di guerra furono rilasciati ad alcuni esponenti del movimento pacifista statunitense, appositamente volati ad Hanoi. Tra di loro, spicca il caso dei piloti dei bombardieri B-52, tra i militari americani che più di tutti avevano seminato morte e terrore.

I vietnamiti sapevano che il conflitto non si poteva vincere solamente sotto il profilo militare. Avevano bisogno di

armi, fornite in maniera altalenante dall’Unione sovietica e dalla Cina, ma assai più che dei cannoni ricercarono un alleato prezioso in quella parte dell’opinione pubblica americana radicalmente contraria alla guerra e che boicottava i piani di guerra dei Presidenti Johnson e Nixon.

Oppositori come Martin Luther -King, musicisti come Joan Baez e Jimi Hendrix, attori come Jane Fonda e Burt Lancaster, studiosi come Noam Chomsky e Richard Falk – che trattò personalmente ad Hanoi la liberazione dei piloti americani dei jet abbattuti – scrittori come Allen Ginsberg, atleti come Cassius Clay, formarono una formidabile quinta colonna contro la politica militare del loro governo.

Oggi l’Ucraina, come ieri il Vietnam, sta subendo una aggressione feroce da parte della Russia. Ma la dirigenza ucraina farebbe un errore madornale se pensasse che il problema si può risolvere solo militarmente.

Prendersela con Papa Francesco perché ha avuto l’intelligenza politica di far percorrere la via crucis da una ucraina e una russa è non solo sbagliato, è contro gli interessi dell’Ucraina.

È purtroppo vero che il governo russo sta usando tutto il proprio armamentario per reprimere spietatamente tutti gli oppositori interni alla guerra. Ed è certamente assai triste constatare che sondaggi indipendenti, come quello di Statista Research Department, indicano che il tasso di approvazione per Putin abbia superato l’80 per cento. Eppure, l’opinione pubblica russa è ancora oggi un formidabile alleato della pace.

L’aggressore ha oggi un disperato bisogno di fomentare l’odio, tanto che l’esercito russo ha dovuto mobilitare quelle truppe che avevano già seminato il terrore in Cecenia e in Siria. Se l’obiettivo di Putin è rendere impossibile qualsiasi coesistenza futura, l’aggredito ha bisogno esattamente del contrario, e deve mostrare che non c’è nessuna differenza insormontabile tra i due popoli che non possa essere risolta in modo diplomatico.

I popoli americano e vietnamita non avevano nulla in comune: lingua, religione, cultura, frontiera erano del tutto remoti. Non è così con Russia e Ucraina. I due popoli condividono la medesima storia, linguaggio, religione, cultura. E hanno più di due mila chilometri di frontiera.

Ma questo non significa che il Paese più grande abbia il diritto di sottomettere quello più piccolo.

Germania e Austria, Stati uniti e Canada, Belgio e Olanda hanno anche loro molto in comune, e sono riusciti a valorizzare felicemente le differenze come stati sovrani e ottimi vicini. Dopo gli orrori della guerra, ci vorranno generazioni affinché qualcosa di simile possa accadere anche tra Russia e Ucraina, ma è questa la prospettiva per la pace a cui deve lavorare l’Ucraina e tutti i suoi veri alleati.

È una grande tristezza che oggi si vogliano mettere sul banco degli accusati Dostoevskij e Chajkovskij, senza invece comprendere che proprio le origini culturali comuni dei due popoli sono lo strumento per creare un progetto di pace che oggi sembra impossibile.

Fu proprio Dostoevskij a dire «noi scrittori russi siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol’». Non aveva bisogno di ricordare che Gogol’ era nato in Ucraina, ma aveva dato forma alla lingua russa come Alessandro Manzoni ha fatto con l’italiano. Quegli ignoranti assassini che tirano missili su Kiev dovrebbero sapere che stanno sparando sulla propria culla.

Per quanto riguarda il Vietnam, quando nel 1973 fu assegnato il Premio Nobel per la pace ai due negoziatori, Henry Kissinger per gli Stati uniti e Le Duc Tho, il vietnamita lo rifiutò sostenendo che era oltraggioso mettere sullo stesso piano gli aggressori e gli aggrediti. Piuttosto che un premio, Kissinger e Nixon si sarebbero meritati di finire di fronte ad un Tribunale per crimini di guerra.

Ma questo non impedì a Le Duc Tho di negoziare fino all’esaurimento delle proprie forze per salvare il suo popolo dall’aggressione. Volodymyr Zelenskyj e il suo capo delegazione David Arakhamia ne dovrebbero prendere esempio.